«Il fu­tu­ro è un’in­co­gni­ta, la to­ta­le pre­ve­di­bi­li­tà è una chi­me­ra»

Ma allora come è possibile che abbiano buon esito i processi di sviluppo pensati sul lungo periodo, ad esempio in urbanistica? Ce lo spiega la «pilota del caos» Senem Wicki, presidente del Consiglio di Amministrazione di espazium – Edizioni per la cultura della costruzione. Una conversazione sul potere dell’immaginazione che porta all’azione, sulla condivisione di scenari futuri e sull’abilità di argomentare con cognizione di causa.

Publikationsdatum
10-01-2023


Signora Wicki, lei ha studiato in Danimarca presso la nota Kaospilot school. Che cosa significa esattamente essere una «pilota del caos»?

Un cosiddetto kaospilot è in grado di navigare anche nella più totale confusione e sa come riuscire a volare, anche quando non tutto può essere completamente tenuto sotto controllo. Diciamo che, al momento, si tratta di una capacità piuttosto utile. Concretamente, durante la formazione, durata tre anni, ho imparato, insieme a clienti della sfera economica, culturale e politica, a creare processi di trasformazione stimolanti, a gestire progetti sensati e intelligenti, ma anche ad affinare il mio pensiero imprenditoriale in un’ottica olistica e interdisciplinare.


Uno dei punti cardine della sua ricerca è il futuro della città. Quali sono le attuali tendenze?

È evidente che la nostra percezione di quello che è l’universo urbano sta cambiando. Fin dall’avvento della modernità, ci sono ambiti della vita che sono stati ben distinti uno dall’altro, mi riferisco ad esempio alla sfera dell’abitare, a quella del lavoro, ma anche a quella del tempo libero, della formazione, della produzione, del fare acquisti ecc. Oggi questi ambiti si mescolano sempre di più, anche nella vita reale e, di conseguenza, vengono meno le relative suddivisioni spaziali. In altre parole, ecco che un bar può essere adibito contemporaneamente ad abitazione, e una casa può diventare ufficio, un ufficio può trasformarsi in asilo nido. È così che prendono forma nuovi spazi, locali interessanti, ibridi e mai visti prima d’ora. Per sviluppare tali spazi, al di là delle consuete categorie funzionali, si rendono necessarie anche nuove idee e nuove regolamentazioni. Un’altra tendenza è che ora tutto ciò non può più essere di competenza esclusiva delle autorità e dei progettisti. Nella nostra società civile, le persone s’informano e vogliono partecipare attivamente alla riconfigurazione delle proprie città. Per questo sono necessari processi trasparenti, partecipativi e improntati al dialogo aperto, alla pari. Anche i requisiti che le nostre città sono chiamate a soddisfare sono sempre più elevati. All’interno di uno spazio urbano vogliamo poterci spostare velocemente ma allo stesso tempo svagarci, rilassarci e riposarci. Vogliamo vivere in centro, nel cuore pulsante della città, ma senza spendere un patrimonio. Vogliamo vivere all’insegna della sostenibilità, ma senza troppi sacrifici. Certo, si può trovare risposta a tutte queste pretese, ma ci vuole un po’ di cervello.


Nel 2020 ha accompagnato la città di Zugo nello sviluppo della strategia «Smart City Zug» e nella creazione dei rispettivi scenari futuri. In questi ultimi anni, il concetto di «Smart City» è un po’ sulla bocca di tutti; lo si utilizza per designare modelli residenziali recintati e sorvegliati, le cosiddette «gated community», così come per gli ecosistemi urbani resilienti al clima. Di che cosa si tratta in questo caso specifico?

A dire il vero, non ci siamo tanto confrontati con la città intelligente, ma più che altro con l’intelligenza dei suoi abitanti, si parla della cosiddetta «smart citizenship». Quale può essere il plusvalore di un’interconnessione digitale per gli abitanti di una città? In che modo le tecnologie digitali ci possono sostenere nel prendere decisioni ben ponderate, senza però decidere al nostro posto? La strategia messa in atto a Zugo ha per sottotitolo: «Interconnessione digitale al servizio delle persone». Il concetto è astratto, ed è per questo che abbiamo sviluppato scenari concreti: ad esempio, una piazza virtuale in cui partecipare attivamente, dove ci si possa incontrare, come se fosse la piazza di un paese, e in cui poter dibattere e prendere decisioni insieme. Un’infrastruttura smart, di questo tipo, può contribuire ad abbassare la soglia d’inibizione nei processi partecipativi, invogliando a esprimere la propria opinione. Ciò vale soprattutto per la fascia giovane della popolazione, vale a dire per i futuri abitanti della città. Il fatto di raccogliere e mettere insieme dati è però anche legato ad alcuni rischi, ad esempio nel caso in cui i dati personali non siano sufficientemente protetti.


Per quale motivo sono necessarie immagini concrete per rendere visibili i temi del futuro?

Perché solo quello che riusciamo a immaginare, dipingendolo con i nostri occhi, ci motiva ad agire. Un esempio è la mobilità. Già una ventina di anni fa sarebbe stato possibile vivere in vallate remote e lavorare da lì, visto che Internet esisteva già. Eppure, allora nessuno poteva immaginarselo. Oggi vi sono idee e modelli di ciò che significa il remote work ed ecco che, improvvisamente, il lavoro da remoto funziona. Per sfruttare le nuove opportunità non basta disporre della tecnologia necessaria, occorre anche che vi sia la giusta predisposizione a fare una cosa, e ciò è reso possibile dalla capacità di immaginazione. Come sappiamo, si tratta di una capacità che non è insita in modo uguale in ognuno di noi, però possiamo stimolarla. Quanto più spesso cercherò di immaginare come potrebbero essere le cose, se fossero diversamente da come sono oggi, tanto meglio sarò preparata ad affrontare l’imprevedibile. Questo allenamento mentale può avvenire con l’aiuto di scenari futuri oppure, e sempre più, immergendoci negli spazi virtuali. Il metaverso, o ancora meglio il pluriverso, offre qui molte potenzialità per ricostruire il mondo in modo giocoso e per sperimentare varie cose, senza dover subito tirar fuori la betoniera.


Lei ha portato avanti lo sviluppo della visione per un nuovo quartiere urbano di Basilea, il «klybeckplus», il cui modello di sviluppo urbano è stato da poco pubblicato (cfr. Informazioni sotto). Quale ruolo ha rivestito in questo contesto?

Ancor prima di discutere di metri quadrati e superfici sfruttabili, i tre proprietari del fondo volevano potersi fare un’idea del potenziale del luogo pensando al futuro. Il nostro compito è stato quello di affiancarli in questa fase, facendo da un lato confluire il nostro know how e le nostre riflessioni avveniristiche e, dall’altro, prendendo in mano le redini del processo. L’obiettivo di questo lavoro è stato quello di creare per il luogo una visione lungimirante e di formulare delle idee che lasciassero sufficiente spazio a una costante reinterpretazione.


Che cosa significa?

A Klybeck significa, ad esempio, sfruttare il carattere sperimentale del luogo, come laboratorio a cielo aperto, per testare nuovi approcci di sviluppo urbano e per fare in modo che, in un’area finora prettamente industriale, in futuro possa trovare spazio una produzione locale, rispettosa delle risorse e vicina alle persone. Oppure si potrebbe sfruttare il potenziale di Klybeck per creare collegamenti tra gli spazi aperti e gli spazi intermedi, così da contrastare la crescente frammentazione della nostra società. Questa base di sviluppo di una visione può dare luce a una realizzazione condivisa che va ben oltre le soluzioni di compromesso e le posizioni politiche di tipo convenzionale.


In che modo contribuisce a risvegliare questo entusiasmo, questo desiderio di immaginare e progettare insieme?

Il nostro sapere non riguarda la sfera urbanistica, ma l’approccio integrale di oggi e lo spazio di possibilità che si presenta oltre il domani. Scopriamo i punti ciechi e diamo un nome ai conflitti di obiettivo, perché sono presenti anche loro. Lo sappiamo tutti: il tipo di futuro che sembra auspicabile per un luogo, varia enormemente da persona a persona o a seconda dei gruppi sociali. Vogliamo discutere le differenze, vogliamo argomentare con cognizione di causa. La nostra esperienza insegna che, quando si osserva una situazione attraverso la lente del futuro, vi è la possibilità di percepire diversamente i conflitti, le opinioni possono divergere ma l’obiettivo futuro, invece, può unire.


I processi di trasformazione urbana durano a lungo, a volte persino decenni. Durante questo lasso di tempo cambiano gli attori, gli obiettivi e le premesse. Esistono delle strategie per gestire questa incertezza, per poter evitare questa non-programmabilità?

Il vantaggio si ha quando gli attori sono in grado di impegnarsi in un processo di apprendimento congiunto, quando apportano costantemente nuove conoscenze e quando trasmettono ad altri le competenze acquisite. Naturalmente, in caso di processi di lunga durata, possiamo continuare a svolgere il ruolo di sparring partner e fornire il nostro appoggio, sostenere i nostri committenti nel costruire competenze proprie sul futuro. In questo contesto, l’UNESCO parla di «Futures Literacy», ovvero di «alfabetizzazione al futuro», e dal 2020 ne ha fatto un obiettivo strategico: «La capacità delle persone di comprendere meglio quale sia il ruolo che gioca il futuro in ciò che vedono e in ciò che fanno».


Ad ogni modo, ci vogliono comunque delle regole che siano sufficientemente vincolanti per poter garantire una certa sicurezza nella pianificazione, ma anche che siano sufficientemente flessibili da ammettere future trasformazioni. Ma come riuscire in questo gioco di equilibri?

L'architetto e urbanista danese Jan Gehl ha studiato, insieme alla moglie Ingrid Gehl, psicologa, la convivenza tra esseri umani e ambiente costruito. Gehl ha definito gli spazi urbani non tanto in base a fattori rigidi, come le linee di edificazione, bensì piuttosto mediante fattori morbidi come i temi e i contenuti. Questi fattori, apparentemente soft, possono però essere forti abbastanza da portare avanti un’idea, pur restando aperti alla libera interpretazione. Ed è così che devono essere, dato che, dopotutto, quello che costruiamo oggi lo costruiamo per i prossimi cento anni. Come possiamo creare una partecipazione condivisa, sul lungo periodo, che vada oltre le esigenze individuali del nostro presente? Di che cosa avrà bisogno la società del futuro? Se le cittadine e i cittadini riusciranno ad anticipare tali esigenze e se i professionisti del settore contribuiranno a realizzare tali idee sul piano spaziale, saremo in grado di portare avanti uno sviluppo molto più sostenibile. Tutto ciò richiede un approccio integrato e interdisciplinare, lontano da quella che è una prospettiva meramente funzionale o tecnologica.


Perché è così difficile accogliere questo approccio?

Il futuro è un’incognita, la totale prevedibilità è una chimera. Al contempo, provare qualcosa di nuovo comporta sempre dei rischi, qualcuno deve mettersi in gioco e dire: qui stiamo aprendo una zona sperimentale, anche se in questo momento non sappiamo con certezza quale sarà il risultato. Chi impara a vivere con l’imprevisto resta capace di agire e in questo contesto il fatto di avere in testa un futuro desiderabile, frutto di una sistematica pianificazione, rappresenta una forza trainante molto potente.  

klybeckplus, Basilea

 

Klybeck+, poco meno di 30 ettari, è la più grande area di trasformazione esistente a Basilea. Alla fine di settembre 2022, il Cantone di Basilea Città, Swiss Life e Rhystadt, in qualità di partner progettuali, hanno presentato pubblicamente il modello klybeckplus di sviluppo urbano.

 

L’obiettivo è quello di creare un quartiere urbano aperto, verde e misto che permetta di collegare quartieri precedentemente separati. Gli elementi centrali dello sviluppo sono la gestione sostenibile delle risorse, una mobilità adatta alla città e i requisiti di una città adattata ai cambiamenti climatici.