La ricetta di atelier oï
Intervista a Patrick Reymond, fondatore dello studio svizzero
Intervista a Patrick Reymond, fondatore dello studio svizzero di progettazione Atelier oï (La Neuveville).
Atelier oï è uno studio di progettazione con base a La Neuveville, sul lago di Bienne. Attivo da più di vent’anni, si è distinto per la capacità di muoversi tra diverse discipline dall’architettura alla scenografia mantenendo fissa l’attenzione per una dimensione artigianale del progetto. Una dimensione capace però di affrontare anche la produzione industriale e la costruzione di grandi edifici: sul loro curriculum si passa infatti dagli oggetti per ikea alle boutique per Swatch, dai tappeti per Ruckstuhl agli «Objets Nomades» per Louis Vuitton, dagli edifici ad esempio il dyb Centre de compétences a Cormondrèche del 2007, per cui hanno disegnato tutto, dalla facciata agli arredi fino alle barche. Abbiamo fatto qualche domanda a Patrick Reymond, uno dei tre soci fondatori, per capire meglio quali sono i principi alla base di questo «volare» da un progetto all’altro.
Gabriele Neri: Cosa avevate in mente quando avete aperto il vostro studio?
Patrick Reymond: Abbiamo fondato atelier oï nel 1991, dopo aver fatto alcuni concorsi insieme. Alla base ci sono sempre stati l’idea di lavorare in team come eravamo abituati a fare all’École d’architecture Athenaeum di Losanna e il modello del workshop, per mantenere saldo il legame concreto con i materiali e per puntare a sviluppare tutte le componenti costruttive che definiscono il progetto.
G.N: Molte delle vostre creazioni, dagli arredi alle facciate di grandi edifici, sembrano infatti essere generate dalla ripetizione di un singolo elemento costruttivo: un pezzo di corda, una bacchetta di legno, addirittura il mangime per gli uccelli
P.R: Sì, infatti, è un po’ come quando cucini: prendi alcuni ingredienti e cominci ad aggiungerne altri
provi a usare il legno, poi il metallo, e continui a testare altre possibilità, sempre seguendo gli stessi principi alla base del progetto. Credo che la tutta la nostra ispirazione derivi da questa assidua sperimentazione con i materiali. Questa è anche la ragione per la quale il nostro ufficio è sempre rimasto a La Neuveville, dove fin dall’inizio abbiamo installato i nostri macchinari e i nostri materiali
non avrebbe avuto senso spostarsi altrove. Inoltre qui possiamo sfruttare la vicinanza con una serie di artigiani e laboratori, che ci aiutano a sviluppare piccoli prototipi delle nostre idee. Così abbiamo deciso di ristrutturare un vecchio motel degli anni Sessanta, il Moïtel, per farlo diventare il nostro quartier generale, e abbiamo continuato a sperimentare.
G.N: Dalle tue parole mi viene in mente l’attività di Jean Prouvé
P.R: In effetti siamo un po’ vicini a quel modo di lavorare. L’opera di Prouvé è interessante perché il suo lavoro sta a cavallo tra quello di un ingegnere e quello di un architetto, tra la realizzazione artigianale e la produzione industriale. Nel nostro studio siamo sempre a contatto con le macchine, con i materiali, con i prototipi
una volta realizzato, ogni progetto viene archiviato ma rimane sottotraccia nelle nostre menti e accade che un pezzo venga ripreso, modificato, migliorato; possiamo cambiarne la scala e il materiale
È possibile che questa sperimentazione vada avanti anche per 5-6 anni e che infine conduca a qualcosa di nuovo. Questo spirito è anche alla base del libro che abbiamo pubblicato (cfr. la scheda di Enrico Sassi su questo numero di archi): i progetti non sono infatti presentati in ordine cronologico, ma rispecchiano il modo in cui utilizziamo il nostro archivio.
G.N: Insomma un archivio open source
nel quale vi muovete senza problemi da un tema all’altro.
P.R: Ci muoviamo tra scale diverse, contesti diversi, differenti tematiche; tra design, architettura e scenografia. Quest’ultima in particolare è molto importante nei nostri progetti. Abbiamo imparato molto dal progetto Arteplage Neuchâtel per l’Expo 2002
G.N: I famosi padiglioni «a goccia»
P.R: È stata un’ottima esperienza per sviluppare un progetto dalla piccola alla grande scala. La cosa più importante era creare un progetto intorno a una tematica: il tema era insomma la cosa fondamentale, ben più del programma funzionale, e questo ci ha permesso di sperimentare. Cerchiamo di sviluppare un linguaggio, e non una «firma»: infatti tra tutti i nostri progetti puoi trovare alcuni punti di contatto, ma questi non sono mai lineari o immediati. Non è come quando vedi il lavoro di molti designer famosi, nel quale la «firma» è ostentata e si vede chiaramente. Ovviamente ci sono delle costanti nel modo in cui affrontiamo temi come la struttura o la texture; siamo ispirati dal mondo naturale, da fotografie e dal lavoro di molti artisti, ma pensiamo che sia importante anche cambiare completamente il nostro linguaggio in ogni occasione.
G.N: Come rispondono i clienti a questo approccio progettuale?
P.R: All’inizio non era facile capire la filosofia del nostro atelier, che cambia linguaggio e scala a ogni progetto
non era facile né per le aziende né per noi stessi. C’è voluto tempo per capire e far capire il nostro modo di lavorare e per comunicarlo. Ma alla fine in molti hanno saputo apprezzare il nostro modo di affrontare il processo creativo, sul quale continuiamo ad investire.