«Ros­set­to sul vol­to di un go­ril­la»: ar­te e ar­chi­tet­tu­ra

Negli anni ’80 e ’90, arte e architettura si sono intrecciate come mai prima: l’arte invade gli spazi pubblici, sfida le istituzioni, plasma le città. Da Beuys a Fischli & Weiss, attraverso manifestazioni artistiche originali, nasce una stagione dove confini, ruoli e linguaggi si confondono e ridefiniscono.

Publikationsdatum
22-04-2025

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Si racconta che nei primi anni Ottanta l’architetto Norman Foster abbia detto che l’arte su un edificio è come il «rossetto sul volto di un gorilla». Non è sicuro se Forster abbia effettivamente fatto una dichiarazione del genere, ma se anche si trattasse di una leggenda, essa getta comunque luce sulla complessa relazione tra arte e architettura. Probabilmente Foster voleva dire che anche l’arte più raffinata non può salvare la cattiva architettura oppure che l’arte non è in grado di tener testa a quel carattere tipico dell’architettura che, usando un termine inglese, potremmo definire rawness. Potrebbe anche trattarsi di una critica all’arte come pratica superficiale, una mascherata e una decorazione meno profonda, radicata o vitale rispetto all’architettura. Comunque si interpreti l’ironica affermazione, l’aneddoto dell’incontro grottesco tra il rossetto e la faccia di un gorilla è comunque provocatorio. Pretende una reazione. Apre il campo alla questione dell’interrelazione tra arte e architettura, tema su cui specialisti e vasto pubblico si ritrovano a confrontarsi.

L’età d’oro dell’arte pubblica

L’affermazione si collocava all’interno di un dibattito sull’interrelazione tra arte e architettura molto vivo negli anni Ottanta e nei primi anni Novanta. In effetti, per i paesi occidentali, quell’intervallo di tempo potrebbe essere considerato l’età dell’oro dell’arte pubblica. Più di ogni altro periodo, gli anni Ottanta e i primi anni Novanta hanno visto una pletora di progetti di arte pubblica, oltre che un gran numero di mostre e pubblicazioni. A quell’epoca furono inaugurati diversi monumenti di grandi dimensioni che ora sono ormai universalmente noti. Il Vietnam Memorial di Maya Lin a Washington D.C. (1982), una struttura in pietra con i nomi dei soldati americani uccisi in guerra, semi sprofondata nel terreno, scatenò aspre polemiche. Il Memorial against Fascism di Esther Shalev-Gerz e Jochen Gerz a Harburg (1986) che consisteva in una colonna rivestita di piombo sulla cui superficie, che nell’arco di sette anni fu gradualmente fatta sprofondare nel terreno, il pubblico era invitato a scrivere commenti sul periodo nazista. Già nel 1993 era del tutto scomparsa e ora solo da un’apertura al di sotto della quota stradale è possibile intravedere parte delle iscrizioni. Il Mahnmal gegen Krieg und Faschismus a Vienna (1988) di Alfred Hrdlicka innescò ampi dibattiti: per alcuni si trattava un’immagine speculare di un passato che si sarebbe preferito dimenticare, per altri non prendeva una posizione sufficientemente critica perché includeva la raffigurazione di un soldato tedesco deceduto, facendo così passare l’aggressore stesso per una vittima.

Nello stesso periodo furono realizzate molte sculture assolutamente rivoluzionarie che in qualche modo avevano delle relazioni dirette con l’architettura. Si pensi al Tilted Arc di Richard Serra sulla Federal Plaza a Manhattan (1981), a 7000 Eichen di Joseph Beuys di Documenta 7 a Kassel (1982-1987), a 15 Untitled Works in Concrete di Donald Judd alla Chinati Foundation di Marfa, TX (1984), a Les Deux Plateaux di Daniel Buren al Palais Royal di Parigi (1985), all’Irene Hixon Whitney Bridge di Siah Armajani a Minneapolis (1988), a Spoonbridge and Cherry di Claes Oldenburg e Cosje van Bruggen a Minneapolis (1988) o a House di Rachel Whiteread a Londra (1993). Sebbene queste opere d’arte pubblica non avessero alcuna esplicita funzione politica, polarizzarono comunque l’attenzione. Non appena l’arte esce dai musei o dalle gallerie ed entra a far parte della sfera pubblica, il suo ruolo cambia. Si sposta inevitabilmente verso la sfera del monumento mettendo in campo questioni di potere e di politica, norme e gusti, inclusione ed esclusione.

La situazione in Svizzera

Durante gli anni Ottanta e Novanta, la tensione verso una sempre più stretta interazione tra scultura e architettura era evidente anche in Svizzera. In questo senso i tre più importanti casi di arte pubblica degni di essere ricordati sono il Pavillon Skulptur di Max Bill a Zurigo (1983), il Meret Oppenheim-Brunnen di Meret Oppenheim a Berna (1983) (fig. 1) e il Cube di Sol LeWitt (1984). Durante il boom edilizio della fine del XX secolo, la maggior parte dei nuovi edifici destinati alla pubblica amministrazione, gli edifici scolastici e quelli per l’istruzione superiore erano «ornati» con pezzi di arte pubblica. In parallelo con questa crescente tendenza, anche le istituzioni private, vale a dire banche come UBS, Zürcher Kantonalbank, Banca del Gottardo e Raiffeisen, nonché le compagnie assicurative, come Helvetia e Swiss Re, investirono non solo in collezioni d’arte aziendali, ma anche in opere d’arte in qualche modo legate all’architettura. Se la pratica del Kunst am Bau avviatasi all’inizio del XX secolo aveva messo l’arte al servizio dell’architettura, riservando più o meno l’1% del budget di costruzione a interventi artistici, durante gli anni Ottanta e Novanta, essa divenne una sorta di partner alla pari. In alcuni rari casi, gli artisti venivano addirittura inclusi nella progettazione fin dalle prime fasi e non invitati a intervenire a edificio concluso. Tale mutato rapporto si manifestava nella diffusione di nozioni come «Kunst im Bau» o, più in generale, «architekturbezogene Kunst».

Tre grandi mostre a Basilea si concentrarono sul rapporto tra scultura e architettura: Skulptur im 20. Jahrhundert nel parco Wenken a Riehen (1980), Skulptur im 20. Jahrhundert a Villa Merian a Brüglingen (1984) e TransForm: Bild, Objekt Skulptur im 20. Jahrhundert alla Kunsthalle di Basilea (1992). Tabula Rasa era il titolo della 9° Mostra di Scultura di Bienne (1991), organizzata in occasione del 700° anniversario della Confederazione Svizzera. A differenza delle precedenti mostre di scultura inaugurate nel 1954, le opere d’arte non erano sculture autonome, semplicemente collocate a Bienne per la durata della mostra, ma interventi site-specific. Alcune opere erano addirittura performative, come il Bibliobus di Christian Philipp Müller (fig. 2), un autobus contenente una biblioteca che si spostava tra vari luoghi. L’arte era diventata un mezzo attraverso cui amplificare la percezione dell’architettura e dell’urbanità. Peter Greenaway curò la mostra Stairs (1994) a Ginevra, durante la quale cento scale bianche furono collocate per tutta la città per 100 giorni, offrendo punti di vista inconsueti su diversi contesti urbani. A Friburgo, la mostra collettiva Cabines de Bain (1996) fu organizzata negli spazi di una vecchia piscina fuori dal centro storico. Questa serie di eventi aprirono la strada all’Esposizione Nazionale Svizzera, Expo.02, che, dopo diversi ritardi, fu inaugurata nel 2002. Se tradizionalmente la progettazione del masterplan di un’esposizione di tale portata era nelle mani degli architetti, in questo caso fu affidata a una giovane artista, Pipilotti Rist.

Ma non fu solo l’arte a spingersi sul terreno dell’architettura. Anche alcuni architetti si avvicinarono alla sfera dell’arte. Herzog & de Meuron, attivi dalla fine degli anni Settanta, vennero profondamente ispirati dall’opera di Joseph Beuys e, a partire dal 1991, collaborarono con artisti come Thomas Ruff. In realtà, la collaborazione iniziò in occasione della mostra allestita nel Padiglione svizzero per la Biennale di Architettura di Venezia. Il fatto che, a partire dal 1980, all’architettura fosse dedicata una specifica mostra biennale, in alternanza con quella d’arte, costituiva un’opportunità di grande risonanza all’interno della quale architettura e arte potevano interagire. Ciò rese evidente che la rappresentazione dell’architettura si era spostata al centro dell’attenzione. Con la fondazione del Museo dell’Architettura AM di Basilea nel 1984, su iniziativa privata, la Svizzera si garantì un’istituzione esclusiva all’interno della quale presentare l’architettura contemporanea. Il museo fu inaugurato contemporaneamente al Deutsches Architekturmuseum di Francoforte sul Meno (1984) e al FRAC Centre-Val de Loire di Orléans (1983); ad esso seguirono il Vitra Design Museum di Weil am Rhein (1989) e l’Architekturzentrum Wien (1991).

Haus

Al centro di queste dinamiche si colloca l’opera degli artisti svizzeri Peter Fischli e David Weiss intitolata Haus (1987), realizzata per la mostra Skulptur Projekte in Münster 1987 (fig. 3). Questa mostra giocò un ruolo fondamentale nel cambiamento delle relazioni tra arte e architettura. Esporre l’architettura è una sfida paragonabile a quella di collocare opere d’arte negli spazi pubblici. Le mostre di architettura di solito presentano modelli, progetti e fotografie riferiti a edifici realizzati o progettati. Le mostre d’arte negli spazi pubblici, d’altra parte, richiedono una cornice istituzionale e spaziale, vale a dire piedistalli, titoli ed etichette, in modo che le opere d’arte possano essere mostrate al meglio. Cambiando il titolo da Skulptur. Ausstellung in Münster 1977 a Skulptur Projekte in Münster 1987, sostituendo cioè il termine «mostra» con «progetti», i curatori Klaus Bussmann e Kasper König si concentrarono su questa duplice sfida vale a dire sul rapporto tra arte e architettura. L’impatto di Haus di Fischli & Weiss nel campo dell’arte e dell’architettura deriva in parte dal fatto che gli artisti affrontarono e risolsero per così dire, con un colpo di mano, entrambi i paradossi, quello di una mostra d’architettura e quello di una mostra d’arte all’aperto.

Haus era un manufatto lungo circa 5 metri e alto circa 3,5, collocato senza base su un terreno incolto tra un cinema e uno snack bar, vicino alla stazione ferroviaria di Münster. La facciata era realizzata in legno e plexiglas ed era dipinta in varie tonalità di grigio. C’erano diversi dettagli realistici come pozzi di ventilazione, sifoni, grondaie, ecc., ma nessuna scritta, nessun cartello stradale o numero civico. Haus non era un’architettura in senso stretto, poiché non vi si poteva entrare e non era nemmeno un modello architettonico, poiché era stata realizzata in scala 1:5 ed era quindi evidentemente più alta di un essere umano. Tuttavia, non si può nemmeno definirla una scultura vera e propria, poiché è stata demolita dopo la fine della mostra.

Trenta anni dopo, Haus è stata riproposta in occasione della retrospettiva di Fischli & Weiss (deceduto nel 2012) davanti al Guggenheim Museum di New York nel 2016. Si è trattato di una fusione in alluminio, dipinta da Fischli (fig. 4). Dal 2018, l’opera è stata installata in modo permanente su un basamento di fronte all’ippodromo di Oerlikon a Zurigo e quindi in un ambito che ricorda quello del contesto urbano originale di Münster. Stilisticamente, le forme cubiche, il tetto piatto e le fasce orizzontali delle finestre di Haus possono ricordare l’International Style o quella che è comunemente conosciuta come architettura moderna. Ciò che per lungo tempo è stato considerato avanguardistico – come, per esempio, la casa dei genitori di Peter Fischli, Haus Schlehstund (1933) a Meilen, vicino a Zurigo, progettata da Hans Fischli, padre di Peter Fischli nonché studente del Bauhaus – negli anni Ottanta era ormai qualcosa di ordinario.1 «Guardare l’edificio mette un po’ di malinconia, perché rievoca un’epoca ormai conclusa, un tempo in cui le persone avevano speranze molto diverse da quelle di oggi», ha detto Weiss ripensando a quell’esperienza.2

Haus rappresenta un edificio produttivo e per uffici. La facciata è caratterizzata da grandi finestre, il retro da una rampa di carico per le consegne. Ai quattro piani si accede tramite un montacarichi. Haus non riproduce un’architettura d’autore di grande pregio che per le sue qualità possa competere con l’arte, né un’architettura anonima che raffigura l’omogeneizzazione del territorio urbano. Rappresenta piuttosto un insieme di ambiguità, in bilico tra arte e architettura, tra il mondo operaio e quello dei colletti bianchi, deindustrializzazione e industria dell’informazione, astratto e concreto. Queste ambiguità sono caratteristiche di quel genere di apertura dei confini tra arte e architettura tipico degli anni Ottanta.

Arte: dal privato al pubblico e viceversa

Come si può spiegare questa vicinanza storicamente unica tra architettura e arte? Perché i limiti tra arte e architettura, negli anni Ottanta e Novanta, sono diventati improvvisamente così porosi? Perché i confini che separano i generi sono diventati, a un certo punto, permeabili?

Da un lato, questo fu conseguenza dell’evoluzione dell’arte, una questione di forma, per così dire. Era dagli anni Sessanta che l’arte stava acquisendo dimensioni sempre più grandi. La Minimal Art, con la sua enfasi sul modulare, sulla ripetizione, su volumi geometrici semplici e sul «look» industriale, aveva reso meno netti i confini tra design e architettura. La Earth Art si era spostata sul terreno dell’architettura, abbandonando il recinto dello spazio espositivo convenzionale e passando a una scala più ampia. Più l’arte contemporanea diventava popolare e di successo, più spazio richiedeva. Quando Christo e Jeanne-Claude avvolsero l’edificio del Reichstag a Berlino con un tessuto argentato per Wrapped Reichstag (1995), le folle accorsero nella nuova capitale per riunirvisi pacificamente. Da quando James Turrell, protagonista della Earth Art, ha trasformato il Roden Crater vicino a Flagstaff, in Arizona, è diventato l’autore più popolare in termini di arte pubblica. Le sue installazioni, come per esempio gli Skyspaces, sono vere e proprie attrazioni sia all’interno delle collezioni private sia negli edifici pubblici.

D’altra parte – e questa è l’ipotesi principale sostenuta in questa sede – l’apertura momentanea può essere vista come il risultato di un cambiamento di carattere generale del ruolo dell’arte all’interno della società. Per gran parte del XX secolo, l’arte moderna è stata considerata ai margini della società, in un certo senso «fuori» o «avanti», in funzione della rigida nozione di «avanguardia». Interessava a un pubblico ristretto e specializzato. Questa situazione ha iniziato a cambiare durante gli anni Sessanta, quando il «mondo degli artisti», prima isolato, è diventato il «mondo dell’arte» e, ad esempio con il trionfo della Pop Art, si è spostato verso il centro della società. La nozione di «arte contemporanea» ha sostituito quella di «avanguardia». Questa tendenza è culminata negli anni Ottanta e nei primi anni Novanta. L’arte contemporanea non solo si è accreditata presso un pubblico sempre più vasto, ma è diventata una vera e propria attrazione, al pari dello sport e della cultura pop. Da emblema di resistenza e oggetto provocatorio si è trasformata in simbolo di identità e affermazione. Mostre di successo, musei di nuova costruzione, come il Guggenheim di Bilbao (1997) progettato da Frank Gehry, sono diventati i motori del marketing urbano e dell’industria del turismo.

Per un breve periodo, l’arte contemporanea ha consentito identificazione e coerenza, accordo o disaccordo. È stata, più di quanto lo fosse l’architettura, il luogo in cui le questioni ideologiche, etiche e morali potevano essere dibattute in pubblico.

Con l’inizio del nuovo millennio questo panorama si è modificato. I prezzi alle stelle delle opere di un gruppo ristretto di artisti unanimemente consacrati sono sintomatici di tale cambiamento. L’arte contemporanea è passata dal rivestire una funzione pubblica ad avere una connotazione privata. A differenza del periodo delle avanguardie, non è relegata a una nicchia sociale specifica, ma, per così dire, ai privilegi di una certa élite finanziaria e culturale. Quando, ad esempio, nel 2010 i cittadini di Zurigo hanno votato contro Nagelhaus, un progetto di arte pubblica ideato da Caruso St John e Thomas Demand, in seguito alla campagna del partito di destra che ha attaccato il progetto con lo slogan «5,9 milioni per un gabinetto?», hanno fatto un cattivo affare dal punto di vista finanziario. Già al momento della votazione, le opere d’arte di Demand venivano vendute per diverse centinaia di migliaia di franchi svizzeri. Sarebbe stato un affare avere la più grande opera d’arte di Demand in proprietà pubblica. Ma il rifiuto ha reso evidente che la maggioranza dei votanti non condivideva i valori di una minoranza interessata all’arte e ai suoi rapporti con l’architettura (fig. 5).

Con questo cambiamento in termini di rilevanza pubblica, l’arte ha perso il suo peso in termini di impatto politico. Il risultato più evidente è il declino dei monumenti. In occasione del 700° anniversario della Confederazione Svizzera, è stato indetto un concorso per la Bundesplatz, lo spazio antistante il Parlamento di Berna, utilizzato come parcheggio. Il progetto vincente dei designer Stephan Mundwiler, Christian Stauffenegger e Ruedi Stutz prevedeva una superficie in pietra con 26 fontane, in rappresentanza dei 26 cantoni. Con un ritardo di oltre un decennio, l’opera è stata realizzata nel 2004 ed è diventata subito un’attrazione popolare. Il ridondante titolo scelto per il concorso – Place as Place – è sintomatico del fatto che non c’è più né bisogno né spazio per un’arte che abbia valenza politica (fig. 6).

Quando nell’ottobre 2020 si celebrò il 30° anniversario della riunificazione tedesca, nessuno chiese che fosse realizzato un monumento. Ad oggi, non esiste ancora alcun monumento dedicato a questo evento storico epocale, sebbene il Bundestag abbia deciso di erigerne uno fin dal 2007. Il grottesco Monumento alla Libertà e all’Unità di Berlino, un’altalena gigante che può essere messa in movimento dai visitatori, è in costruzione. Questo è sintomatico della volontà politica di considerare la questione – che continua a essere fonte di conflitti – come un evento ludico. Allo stesso tempo, è sintomatico il fatto che la questione del monumento non sia più nelle mani dell’arte.

Il fatto che a Berna una piazza rivestita in pietra con un gruppo di fontane attiri visitatori, passanti e politici e che una piattaforma mobile rappresenterà a breve l’unificazione della Germania dimostra che l’architettura si è fatta carico del ruolo pubblico che l’arte ha lasciato vacante. E se c’è un oggetto che rappresenta un punto di riferimento per la Germania riunificata è la cupola in vetro e acciaio che sovrasta il vecchio edificio del Reichstag, inaugurata nel 1999. Il vincitore del concorso indetto nel 1995 fu Norman Foster. Alcune delle più belle opere d’arte pubblica sono state installate nell’edificio dopo l’inaugurazione, tra cui il fondamentale Der Bevölkerung (2000) di Hans Haacke e Schwarz Rot Gold (1999) di Gerhard Richter.
Dopo tutto, un po’ di rossetto si addice al gorilla.

  1. P. Fischli, My House, Bauhaus, in Tate Etc., vol. 6, Spring 2006, https://www.tate.org.uk/context-comment/articles/my-house-bauhaus.
  2. Hans Ulrich Obrist, The House in Münster, the fabric of reality, in Fischli Weiss. Questions & Flowers. A Retrospective [exhib. cat. Kunsthaus Zürich], JRP Ringier, Zurich 2006, pp. 237-246.