L’ar­chi­tet­tura è una danza, un ele­gante equi­li­brio tra res­pon­sa­bi­lità e bel­lezza

Intervista a Grafton Architects

L'architettura come danza sapiente dei volumi, il Premio Pritzker, l'ecologia, un'idea di bellezza come somma di imperfezioni, la ricerca della malta perfetta, e poi i progetti di Milano, Lima e Tolosa, l'insegnamento e il rapporto con un committente molto particolare: la terra. Yvonne Farrell e Shelley McNamara, fondatrici di Grafton Architects e vincitrici del Premio Pritzker 2020, raccontano la propria opera, tra pensiero e praxis.

Date de publication
26-11-2020

«Il ballerino di questo era convinto, mentre balla non deve mai pensare alla danza, deve solo ballare, nient’altro»
Thomas Bernhard, L’imitatore di voci, 1978

Francesca Belloni – Yvonne Farrell e Shelley McNamara, in marzo vi è stato assegnato il Pritzker Prize. Dopo più di quarant’anni di attività, pensate che il premio possa influire sul vostro lavoro, sul vostro modo di intendere il progetto o più in generale sulla possibilità di incidere positivamente a livello culturale?
Yvonne Farrell – Sia io che Shelley siamo profondamente onorate per l’assegnazione del Pritzker. È stato inaspettato sia per noi che per il nostro team. È meraviglioso, anche perché noi siamo il risultato dell’educazione architettonica del nostro paese e questo è un riconoscimento di carattere generale. L’assegnazione del Pritzker Prize accresce in noi il coraggio e la convinzione che sia necessario capire quanto l’architettura influisca sulla vita di ognuno.

Il 26 novembre Yvonne Farrell e Shelley McNamara, fondatrici di Grafton Architects, saranno festeggiate dall'Accademia di Mendrisio in occasione del Pritzker, e terranno una conferenza. Maggiori informazioni per seguire la diretta streaming qui

Guardando ai precedenti vincitori del Pritzker Prize, siete la quarta e la quinta donna a ricevere questo riconoscimento. Cosa ne pensate?
Shelley McNamara – Pensiamo di aver ricevuto il Pritzker Prize per la qualità del nostro lavoro e crediamo che l'architettura non sia una questione di genere.
D’altra parte, ho recentemente letto il saggio di Schopenhauer sulle donne, scritto solo duecento anni fa; non è passato tanto tempo e ti rendi conto che non c'è da meravigliarsi che le donne possano avere dei problemi.
Personalmente, io e Yvonne non abbiamo mai avuto problemi di questo genere.

Recentemente Yvonne ha dichiarato: «Tutto ciò che facciamo come architetti influisce sul pianeta. Abbiamo un enorme impatto su questa fragile terra». Immaginando che non si possa ridurre tale questione a standard, indici o buone pratiche, cosa significa per voi sostenibilità?
Farrell – Per la Biennale di Venezia abbiamo scritto il manifesto FREESPACE elencando le nostre principali convinzioni, tra cui quella – ed è una delle più importanti – che la terra è il nostro principale committente.
L’architettura è il gioco di luce, sole, ombra, luna, aria, vento, forza di gravità con modalità che rivelano i misteri del mondo, e tutte queste risorse sono gratuite. Ogni volta che scegliamo un materiale lo prendiamo dalla terra e dobbiamo pensare in modo responsabile, come se fosse un imperativo morale. I materiali non sono qualcosa di tattile applicato a un edificio.
Invece di progettare un edificio per poi renderlo carbon neutral o sostenibile, come se fosse l'ultima questione a cui interessarsi, dobbiamo far sì che l’impatto sociale e ambientale trovino sintesi nell’edificio.
Se la terra è il nostro committente, questo committente è vivo. Questo è il motivo per cui amiamo l’Ospedale Maggiore di Milano, costruito nel 1400; ci parla di sostenibilità attraverso un ottimo uso dei materiali ed è ancora lì, utilizzato dopo molti secoli.

«La terra è il nostro principale committente. Ogni volta che scegliamo un materiale lo prendiamo dalla terra; pensare in modo responsabile è un imperativo morale» 

Seppur con l’ambiguità tipica della tradizione russa, nell’Idiota Dostoevskij afferma: «La bellezza salverà il mondo». In questo senso, quando Yvonne dice: «Quello che facciamo ha l'enorme responsabilità di rendere bello il mondo», a quale idea di bellezza vi riferite?
McNamara – Di recente abbiamo avuto una bella conversazione con Fulvio Irace in merito alla differenza tra perfezione e bellezza. Per lui la bellezza è una somma di imperfezioni. Penso sia una bella descrizione.
Quando fai architettura hai a che fare con malta, cemento e connessioni difficili e cerchi una sorta di perfezione, ma non è tutto questo che produce il bello. È qualcos'altro; in qualche modo è tangibile e al contempo intangibile. La bellezza non è semplice, ma quando è lì puoi avvertirla e ha a che fare con amore, vita, speranza e passione per quello che fai: un materiale senza parole, un materiale fisico, come mattoni e malta, pietra e cemento. Il problema è usare la complessità della funzione e dell’utilità e andare oltre, verso quel regno di bellezza; questa è la nostra lotta quotidiana.

Per gli architetti della mia generazione, passare per viale Bligny ha un significato particolare che ci riporta alla costruzione di uno dei primi edifici della Milano contemporanea. Eppure, la vostra Bocconi sembra lì da sempre, con quel carattere di solidità e discrezione tipico di una certa stagione milanese. Come siete riuscite a ottenere questo risultato?
Farrell – Quando l’edificio è stato inaugurato, abbiamo incontrato la proprietaria della casa da cui il fotografo documentava il cantiere. È venuta a vedere l'edificio, è scesa fino al livello inferiore e poi ci ha detto: «La struttura è immensa, ma ti abbraccia». Per noi è stata un'incredibile comprensione del senso dell’edificio, che è discreto all’esterno mentre all’interno svela tutt’altro carattere.
Ci interessa lo spazio e non l’architettura come oggetto. Volevamo un edificio urbano, che instaurasse un dialogo profondo con la città. La solidità dell’esterno cela un senso di sorpresa, come in una cattedrale, in Duomo o a Notre-Dame; è un edificio austero e solido, ma quando entri è completamente diverso.

«Quando fai architettura hai a che fare con malta, cemento e connessioni difficili e cerchi una sorta di perfezione, ma non è questo che produce il bello. È qualcos'altro, qualcosa di tangibile e al contempo intangibile, un materiale senza parole»

McNamara – A livello di linguaggio per noi è stata una vera lotta perché nella Bocconi eravamo tra Pagano e Muzio, e in fondo a Corso Italia c'era Moretti; alla fine abbiamo optato per il linguaggio espressivo di Moretti.
Si passano anni a studiare il ritmo di una struttura e cercare un modo razionale per comporre l’edificio e poi succede che l’istinto cerca di liberarsi: una domenica sera, lavorando fino a tardi, abbiamo rimosso la facciata. È stato un momento importante: l’auditorium era collocato nell’altra estremità del sito, in una posizione tranquilla, e quella sera l’abbiamo spostato su viale Bligny.
Durante i progetti, ci sono momenti di scoperta e momenti di assoluta incertezza.

In che modo interpretate lo spirito del luogo e traducete questa intuizione in termini architettonici?McNamara – Prima della Bocconi abbiamo speso molti anni cercando lo spirito del luogo. È stato letteralmente come imparare a vedere. Penso abbia ragione Le Corbusier: «saper vedere» è il novanta per cento dell’essere architetto.
Per esempio, andare a Milano e Tolosa, che sono stati i nostri primi progetti fuori dall'Irlanda, è stato come essere detective e scoprire gli indizi nascosti tra le pieghe della città per nutrire gli aspetti positivi di ciò che potresti fare.

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A Milano, a Lima o a Tolosa il carattere del sito si traduce in fatti architettonici. In che modo la forza espressiva del materiale e il trattamento dei volumi producono un’esperienza spaziale capace di favorire il caso e la possibilità?
Farrell – Durante il farsi del progetto accadono cose fantastiche.
Alla Bocconi ti trovi immerso nel marmo Bianco Lasa, con otto metri di vetro trasparente sopra di te, ventidue metri di struttura a sbalzo e la città di Milano che attraversa tutto ciò: l’architettura ha questa capacità di comporsi come un gioco, queste relazioni producono una magia. Questa sensazione per noi è migliore di tutto quello che possiamo prevedere, perché è una realtà fisica.
Quando io e Shelley siamo arrivate a Lima, camminando sotto gli enormi elementi strutturali abbiamo alzato gli occhi e la sensazione era più forte di quanto avessimo mai immaginato.
A Tolosa ti muovi all’interno, sotto questo incredibile ponte di mattoni, e giri in quell’architettura completamente statica, intanto il sole si muove e ti accorgi che sei un essere umano. Lasci scorrere la natura; la luce e il vento ti ricordano di avere la pelle, l’architettura ti abbraccia e ti conduce con sé.
C'è qualcosa di straordinario nell'architettura, è come essere parte di un balletto, è come se ballassi con un ballerino davvero bravo e pensassi di essere brava come lui.

«Andare a Milano e Tolosa è stato come essere detective e scoprire gli indizi nascosti tra le pieghe della città per nutrire la nostra progettazione»

La riflessione di Frampton sul Critical Regionalism ha influito nella definizione del vostro approccio? Come è possibile coltivare una cultura della diversità all’interno dell’attuale panorama architettonico globalizzato?
Farrell – Quando costruisci, lavori in un punto particolare della terra; se fossi un uccello che migra dal Canada all'Irlanda ti affideresti alla gravità e alle stelle per sapere dove ti trovi. Con la globalizzazione, ogni luogo rischia di essere percepito allo stesso modo. In ogni luogo c’è un'attrazione gravitazionale diversa, una luce diversa, stagioni diverse e siamo soddisfatte quando i nostri edifici catturano queste differenze.
Quando stavamo costruendo a Tolosa, che è una città di mattoni bellissimi, abbiamo cercato gli stessi mattoni che facevano i romani, con Shelley che si preoccupava della consistenza e delle dimensioni delle fughe di malta. Penso che ciò che accade a molti edifici contemporanei – ma non all’Architettura – sia che l'edificio diventa il prodotto di un processo in serie. Invece la sua complessità è una componente culturale. Quando le persone si preoccupano dello spessore della malta e cercano il mattone giusto, è molto probabile che l'edificio raggiunga un'eleganza che tutti, non solo gli artisti, possono riconoscere.
Pensiamo davvero che l’architettura alla fine non sia che una specie di sfondo neutro della vita.

In un’intervista avete definito le università come «laboratori dell’immaginazione». Perché considerate importante il rapporto con gli studenti?
McNamara – Le vite parallele di insegnamento e pratica sono uno scambio fecondo. Esercitiamo la professione e portiamo con noi, nella scuola, la pratica in tutte le sue sfaccettature.
Quando parliamo di «laboratori dell’immaginazione» intendiamo che a scuola si è relativamente liberi dai vincoli della professione e si può lavorare con gli studenti per aiutarli a immaginare il mondo. C’è una compresenza di libertà e serietà: possiamo affrontare i problemi, le responsabilità e le sfide dell’architettura e al contempo lasciare liberi gli studenti di sperimentare.

«Quando le persone si preoccupano dello spessore della malta e cercano il mattone giusto, è molto probabile che l'edificio raggiunga un'eleganza che tutti, non solo gli artisti, possono riconoscere»

Perché, dopo diverse esperienze di insegnamento in altre importanti università, avete scelto l’Accademia di architettura di Mendrisio?
Farrell – Quando siamo state invitate a insegnare a Mendrisio, abbiamo riconosciuto un ambiente stimolante. Innanzitutto la vicenda dell’architettura in Ticino fin dagli anni Settanta. Poi i colleghi: tutti i professori sono architetti che costruiscono in tutto il mondo. E infine gli studenti, che sono incredibilmente impegnati.
Mendrisio è come un monastero, lontana dalle distrazioni delle grandi città, è una comunità di studiosi interessante in un posto particolare della Svizzera, ma con una forte influenza della tradizione italiana. Per me e Shelley è come se fosse il luogo naturale in cui insegnare perché ci permette di pensare e lavorare nel modo che ci piace.

Qual è il vostro metodo di insegnamento?
McNamara – Si deve insegnare agli studenti a pensare, a porsi le domande, ad affrontare le sfide.
Di recente è stata ospite del nostro atelier Françoise Fromonot, che ha esortato gli studenti a disobbedire, a pensare autonomamente. Da studente devi letteralmente imparare il linguaggio dell’architettura; per questo noi cerchiamo di insegnar loro i modi per esprimere un insieme di valori attraverso l’architettura.

Farrell – Incoraggiamo gli studenti anche a un profondo rispetto per la dimensione ordinaria delle cose, li incoraggiamo a trovare la “componente architettonica” di ogni progetto; la differenza tra edilizia e architettura è culturale ed è solo ponendosi in questa particolare ottica che si può andare al cuore della questione.


Un sentito ringraziamento a Shelley e Yvonne per l’entusiamo nel raccontarsi e a Francesco per aver contribuito a questo lavoro.

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