Mo­delli: 'man ma­de' o di­gi­tale?

Editoriale – «Archi» 6/2020

Questo numero di «Archi» esplora il ruolo del modello come strumento di progettazione nell’architettura e nell’ingegneria svizzere, chiedendosi: esiste una specificità svizzera nella cultura del modello architettonico contemporaneo? E come si confronta questo dispositivo progettuale con le straordinarie possibilità della modellazione digitale?

Date de publication
07-12-2020

«[...] il modellino possiede un attributo supplementare: è costruito man made e, quel che più conta, è ‘fatto a mano’. Non è dunque una semplice proiezione, un omologo passivo dell’oggetto, ma costituisce una vera e propria esperienza sull’oggetto: nella misura in cui il modello è artificiale, diviene possibile comprendere come è fatto, e questo apprendimento del suo modo di fabbricazione procura una dimensione supplementare al suo essere»
Claude Lévi-Strauss, 1962

Esiste una specificità svizzera nella cultura del modello architettonico contemporaneo? In quali campi disciplinari il modello ha trovato terreno fertile per teorizzare la pratica costruttiva? Con quali obiettivi e modalità è stato utilizzato? Che implicazioni emergono dall’affermata diffusione dei plastici a scala ridotta nella didattica degli atenei elvetici degli ultimi decenni? Come si confronta questo dispositivo progettuale con le straordinarie possibilità della modellazione digitale? Sono queste alcune delle domande che si pone questo numero di «Archi» esplorando il ruolo e gli sviluppi recenti nell’uso del modello come strumento di progettazione nell’architettura e nell’ingegneria svizzere, tentando di individuare tracce significative che possano contribuire a definire uno specifico orizzonte di ricerca.

Modello, plastico, maquette, relief, mock-up, diverse sfumature distinguono queste denominazioni secondo la loro concezione e applicazione. Distinzioni che la dicotomia tra modello reale e virtuale rende palese nella riflessione sui concetti di costruzione e riproduzione: «il primo identifica quell’azione tettonica di montaggio e di assemblaggio di parti imprescindibile – avverte Bologna – sia per la realizzazione di oggetti fisici che virtuali, mentre il secondo individua il modello quale manufatto in grado di descrivere in maniera soggettiva e interpretativa (…) l’idea di uno spazio fisico, senza il fine o l’ambizione di simularne la realtà ma di stimolare l’immaginario critico dell’osservatore (...)». In campo progettuale sarà quindi il termine maquette a condurre il modello alla dimensione di artefatto materiale in grado di «cristallizzare un’idea» o un «processo generativo», attivando la percezione sensoriale e anticipando una visione parziale dell’opera.

Da secoli gli architetti utilizzano la maquette come strumento di verifica dell’iter progettuale e della stessa costruzione. Questo oggetto tridimensionale è ritenuto indispensabile per illustrare le proprie idee al committente, testare alternative e perfezionare soluzioni (da Vitruvio alla trattatistica rinascimentale e settecentesca, fino alla rottura epistemologica delle avanguardie del Novecento che, con l’adozione di nuove tecniche di rappresentazione quali il collage e l’objet trouvé, producono un ribaltamento del modus operandi della modellazione architettonica). «Dal riprodurre un edificio esistente o prefigurato – osserva Neri – si giunse così a concepire l’opera a partire dalle suggestioni del modello stesso».

I modelli fisici possono infatti rendere tangibili all’osservatore le volumetrie e le strutture che descrivono, lo spazio e la luce, le tecniche e i materiali, ma oggi il loro compito non si limita all’anticipazione visuale di una proposta in nuce ma diventa esso stesso un elemento autonomo, risultato di una logica interna capace di generare un flusso di pensiero creativo teso a muoversi senza confini precisi tra progettazione e indagine artistica. Diversi antecedenti possono individuarsi in questo ambito di sperimentazione formale extra-disciplinare (basti ricordare figure come Le Corbusier e Max Bill per esemplificare un legame ormai consolidato tra l’arte e l’architettura svizzera); non a caso, astratti modelli di studio come quelli di Herzog & de Meuron, Peter Zumthor, Peter Märkli o Angela Deuber – con declinazioni differenziate e peculiare espressività materica – diventano veri e propri feticci nella narrazione mediatica del lavoro d’atelier illustrato in esposizioni e pubblicazioni internazionali.

Molti sono gli aspetti che interessano queste tematiche nelle prossime pagine: plastici topografici e urbani analizzati come congegni identitari o polifunzionali, modelli sperimentali idonei a riprodurre in scala il comportamento statico della struttura, mock-up in scala reale per istruire le maestranze del cantiere, prototipi per la produzione in serie, senza dimenticare le inedite potenzialità generate dall’interazione del modello fisico con strumenti virtuali di simulazione (modelli ibridi o processi di stampaggio 3D). La specializzazione dei diversi tipi di modelli e la loro centralità a livello pedagogico evidenzia – non solo in Svizzera – la valorizzazione del loro ruolo all’interno della cultura progettuale in tutte le sue manifestazioni. Differenti approcci all’impiego del modello nel processo progettuale sono dunque presentati attraverso l’interpretazione di Christian Kerez, Karamuk Kuo, Buchner Bründler, Stefano Moor e Meili & Peter.

«Archi» 6/2020 può essere acquistato qui.

In questo numero, a proposito della cultura del modello:

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