Da "house" a "home"
Ospite del Festival di Locarno, Diébédo Francis Kéré racconta cos’è, per lui, "casa"
«Cosa rende “a house” “a home”?» è stato chiesto a Diébédo Francis Kéré nel corso del ciclo di incontri dedicato al tema "casa".
«Cosa rende “a house” “a home”?» è stato chiesto a Diébédo Francis Kéré nel corso del ciclo di incontri che, nella cornice del Festival di Locarno e per iniziativa del suo sponsor la Mobiliare, hanno portato un architetto, una magistrata, una cantante e un astrofisico a riflettere sul tema “casa”. Il cinema, nonostante il contesto, è rimasto sullo sfondo, con il festival che si è limitato a offrirsi come semplice “casa” per le loro riflessioni.
Cosa rende "a house" "a home"?
Cosa rende, allora, “a house” “a home”? La domanda parrebbe impossibile da tradurre in italiano, sebbene non sia difficile capire cosa significhi: cosa fa di un edificio quel posto che chiami “casa”, quel luogo dove nella migliore delle ipotesi ti senti al sicuro e stai bene, o che almeno percepisci come “tuo” per abitudine e familiarità?
Se in inglese, come in tedesco, la distinzione è affidata a due vocaboli (house/home, Haus/Heim), in italiano i due sensi convergono in una sola parola. Ma basta un gioco di preposizioni per recuperarli: io mi trovo “in casa” (nell’edificio fisico) ma mi sento “a casa” (nel posto a me familiare); posso pensare che “È bello essere a casa” mentre mi stiracchio in giardino, ma alle prime gocce di pioggia inizierò a desiderare di essere “in” casa. E se dopo averlo comprato posso legittimamente dichiarare un edificio “la mia casa”, neanche il più cavilloso dei giuristi avrà nulla da eccepire se presenterò la mia stanzetta in subaffitto come “casa mia” (chissà perché, ma affetto e familiarità sembrano rifuggire gli articoli, quasi che trasformino “la” casa in nome proprio: “Sono a casa” come “Sono a Locarno”).
La domanda da cui siamo partiti si potrebbe quindi tradurre: «Cosa rende una casa casa mia?» o ancora meglio: “Cosa fa di una casa casa?»
Considerando che Kéré è innanzitutto un costruttore di houses, bisogna dire che, nel corso della conferenza, il moderatore Finn Canonica, caporedattore della rivista svizzero-tedesca Das Magazin, ha mostrato una bizzarra inclinazione per le homes, con una sventagliata di domande incentrate sul retroterra migratorio di Kéré e, di conseguenza, su quale luogo lui preferisse chiamare “casa”. È vero che la storia dell’architetto è suggestiva: nato a Gando, un villaggio del Burkina Faso, si è recato diciottenne in Germania per un apprendistato («Sentivo parlare della Germania come del posto da cui venivano gli attrezzi più moderni; per me era un luogo da sogno»). Qui ha poi studiato architettura e ingegneria, fondando al contempo la Kéré Foundation, grazie alla quale ha costruito scuole ed edifici pubblici nella sua terra d’origine. Insignito di numerosi premi, Kéré lavora tuttora tra l’Europa (il suo studio ha sede a Berlino) e l’Africa, con incursioni in Asia e negli Stati Uniti.
Di fronte a una biografia tanto interessante, il rischio è trasformarla nell’epopea hollywoodiana del giovane africano che conquista l’Europa senza dimenticare il suo paese. Con le sue insistenti domande sulla vita privata di Kéré, Canonica si è avvicinato pericolosamente a darne una visione del genere, ma per fortuna l’intervistato non si è lasciato incasellare: invece di abbandonarsi a filosofeggiare sulla condizione dello sradicato, ha preferito raccontare con humour le inevitabili differenze tra le sue due terre: «Quando sono arrivato in Germania, per pranzo mi hanno messo nel piatto mezzo pollo. Io sedevo e aspettavo che arrivasse la gente con cui condividerlo. Ma anche gli altri sono arrivati con mezzo pollo nel piatto, e hanno iniziato a mangiarlo; allora ho capito che il piatto era solo per me. Mezzo pollo! Devi pensare al Burkina come a un posto dove mezzo pollo è per dodici, quindici persone…».
Anche alla domanda cosa fosse, per lui, “casa”, ha risposto con concretezza: «Quando mi avete invitato mi sono chiesto: ecco, cos’è “casa”? È dove sono nato? È Mendrisio, dove siedo a discutere con gli studenti? O è Berlino, il luogo dove vivo? O è quando vai in un posto e ti metti a pensare: “È bello essere qui di nuovo”? È una domanda delicata, ma credo che abbia a che fare con un sentimento: sentirsi i benvenuti. È questione di memoria, anche. Vado in Burkina: sono le otto di sera, sto con i miei parenti e c’è questa specie di polenta che arriva… ah, il profumo! Ogni volta ne mangio un sacco. Mi sveglio il giorno dopo, mi sento pesante e mi dico: ma perché qui mangio sempre così? È questo il senso di casa: a volte ti mette in difficoltà, ma è il senso delle cose che conosci».
Tener presente cosa le persone percepiscano come casa, come rifugio, diventa anche cruciale, ha spiegato l’architetto, quando si tratta di progettare un edificio. Raccontando il suo lavoro per il Lycée Schorge a Koudougou, in Burkina Faso (maggiori informazioni qui), ha spiegato che intendeva «creare un’area protetta, una struttura che fosse accogliente. Se per arrivarci una persona deve camminare 10 km con 45 gradi di temperatura, magari senza scarpe, il mio desiderio è creare un’oasi, un luogo con ombra e posto dove sedersi, così che chi arriva si senta abbracciato, accolto. Come si raggiunge questo? Provando a interpretare l’insediamento tradizionale, che può avere la forma di una corte; la corte in questo caso diventa l’area pubblica della scuola attorno a cui si dispongono le aule. Questo è ciò che cerco di fare con la mia architettura: creare uno spazio dove ti senti a tuo agio».
L’aspirazione a creare un luogo in cui ci si trovi bene torna anche quando, su invito del curatore Hans Ulrich Obrist, lo studio di Kéré viene invitato a progettare un padiglione per la Serpentine Gallery di Londra: «Quando ho ricevuto l’invito di Hans non ci credevo. Tra l’altro in Burkina Faso ogni documento deve avere firma e timbro per essere reale, e visto che lì c’era solo la firma avevo dei dubbi… Poi ho ricevuto la proposta di partecipare a una specie di mini-concorso per il padiglione. Mi sono detto: vediamo se sono in grado di offrire qualcosa. Cerchiamo di fare una struttura ispirata a un albero; una struttura che, come il grande albero che c’è a Gando, faccia sentire al riparo. Un albero protegge dagli elementi, ma non ti chiude fuori del tutto dal mondo esterno: in Burkina è importante essere in grado di vedere lontano. Lì gli alberi sono parte dell’architettura: durante il giorno, quando è davvero caldo, tutti siedono alla loro ombra. È lì che si svolge la vita della comunità. Con il progetto volevamo creare una struttura inclusiva che desse a gente che vive a Londra la possibilità di stare insieme. La costruzione è semplice ma hi-tech: usiamo conoscenze di ingegneria, design, struttura provenienti dall’Occidente per raccontare una storia che viene dall’Africa. È il mio modo di collegare le culture in cui vivo».
Il progetto è alimentato da una vena di ottimismo e fiducia nelle persone (e se ne deve avere davvero molta se si spera di riuscire a far chiacchierare i londinesi…) che percorre tutto il lavoro di Kéré, e che è forse proprio ciò che gli permette di far diventare realtà idee che si sarebbero dette irrealizzabili. Come quando costruì il suo primo edificio, la scuola elementare di Gando, coinvolgendo tutto il villaggio in un cantiere che lottava contro il clima avverso, le poche risorse disponibili e il budget limitato.
Anche l’ultimo progetto di cui l’architetto ha parlato a Locarno, quello del parlamento del Burkina Faso (descritto qui), rappresenta un grande sogno, al punto da essere, forse, destinato a restare un’utopia. Elaborato a seguito della rivolta che ha portato, nel 2014, a deporre il presidente-dittatore Blaise Compaoré, da 27 anni in carica, e nel corso della quale il parlamento è stato distrutto, aspira a proporre un’architettura che sia già in sé stessa promessa di democrazia: «Abbiamo pensato di creare una nuova forma di parlamento, che sia aperta, accogliente e educhi la gente. Gli esempi vengono dalla vostra cultura, dalla Francia. Come architetto, io rappresento dei valori: creare spazi dove la gente si possa esprimere. Voglio realizzare una specie di utopia, un parlamento che diventi un grande spazio pubblico; un posto dove la gente si possa sentire protetta e a casa».
A questo punto non possiamo che tornare alla domanda dell’inizio: cosa rende una casa, semplicemente, casa? «È una domanda molto difficile. Tu puoi costruire una casa, una house, una struttura. È una questione tecnica. Ma poi c’è altro. In francese si dice ensouffler la vie: far sì che una struttura diventi un luogo in cui le persone amano stare. Tu puoi creare uno spazio, ma home è qualcosa che ha bisogno di crescere. Deve confrontarsi con delle tracce: come ci viviamo?, come l’usiamo?, come ci permette di esprimere noi stessi?, come ce ne appropriamo? Tutto questo fa sì che la casa che costruiamo diventi “casa nostra”; solo in relazione con chi la abita una casa diventa casa. È una cosa che ha a che fare con le emozioni, con i ricordi; piano piano maturi una relazione con la casa e diventa un luogo dove davvero ti senti a tuo agio, perché trovi te stesso dentro la sua struttura».