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Editoriale – «Archi» 3/2020

«La superficie di cemento emerge, liscia ed esatta, dalle casseforme ben lavorate e montate; un rivestimento, utile solo a mascherare i difetti, diviene superfluo. Ma al di là di questi vantaggi tangibili, la cassaforma economicamente evoluta offre ulteriori stimoli. Essa perde la sua passività, diviene uno dei fattori che formano gli elementi dell’edificio, fa valere le proprie esigenze già in fase di progettazione» (Emil Roth, 1925).

Publikationsdatum
15-06-2020

È possibile immaginare lo stupore di Madame Ferrari – efficiente concessionaria del sistema Hennebique a Losanna agli inizi del Novecento e «prima donna» dei congressi parigini organizzati dall’impresa – se oggi partecipasse a un convegno sui recenti sviluppi del béton armé. L’incremento esponenziale delle formulazioni dei conglomerati cementizi, che negli ultimi decenni hanno invaso il mercato edilizio ottimizzando ogni genere di prestazione, è direttamente collegato al tema del restauro e quindi alla questione della loro durabilità. Come è noto, per raggiungere questo obiettivo, oltre al corretto dosaggio dell’impasto di acqua, cemento, additivi e inerti, è necessario un controllo attento delle procedure e delle condizioni tecnico-ambientali del cantiere. Un argomento di stringente attualità – vista la quantità e qualità dei manufatti realizzati con il calcestruzzo armato nel corso del secolo scorso – sia nell’ottica disciplinare della conservazione di capolavori del moderno, sia in funzione della manutenzione del materiale di costruzione più impiegato a livello mondiale in virtù della sua iniziale economicità.

Ascolta il co-curatore Stefano Zerbi che presenta il numero ai microfoni di «La rivista» di Rete Due

Privilegiato dai progettisti per le sue qualità intrinseche (plasticità, resistenza meccanica, varietà di applicazioni, potenzialità architettoniche e ornamentali) e originariamente ritenuto affidabile e durevole, con il passo del tempo il cemento armato ha manifestato le sue fragilità (carbonatazione, porosità, sensibilità termica, fessurazione, corrosione delle armature), e quindi l’intervento di restauro – inteso come atto critico, culturalmente orientato nelle scelte tecnico-operative – è diventato necessario nei casi in cui si manifestano danni superficiali o problemi statici.

È in questo ambito – osserva Bologna – che lo storico della costruzione diventa «una figura professionale essenziale: non solo deve essere in grado di svolgere un puntiglioso lavoro tassonomico finalizzato alla ricostruzione della vita del manufatto (dalle varie fasi di progetto alle trasformazioni operate nell’arco del tempo) ma con una visione altamente progettuale deve poter dialogare con l’architetto restauratore per trovare quei compromessi che consentano di prolungarne il ciclo di vita alla luce delle nuove esigenze che il tempo stesso impone (...)». Va sottolineato inoltre che conservare permette un utilizzo sostenibile delle risorse tramite il prolungamento della vita utile degli edifici e delle infrastrutture. In questo senso, l’alto impatto del ciclo produttivo del calcestruzzo richiama la nozione di «energia grigia» e delle molteplici possibilità di recupero tramite sofisticate tecnologie di riciclo tese a innescare processi di economia circolare.

Queste problematiche sono introdotte dai saggi d’apertura, mentre i progetti pubblicati illustrano risposte differenziate a queste istanze, spesso strettamente connesse. «Archi» presenta dunque i due approcci più diffusi: quello del ripristino di superfici faccia a vista deteriorate (di cui il rifacimento dell’epidermide del corpo delle aule nelle Scuole Nosedo a Massagno, di Durisch+Nolli e Giraudi Radczuweit, è un chiaro esempio di conservazione dell’immagine architettonica preesistente) e quello del risanamento e consolidamento delle infrastrutture. Filone esemplificato da alcuni casi particolarmente innovativi, tra cui ricordiamo il restauro di Conzett Bronzini Partner dei ponti Valtschiel a Donat (R. Maillart, 1925) e Vorderrhein a Tavanasa (W. Versell, 1928), progettati per il traffico stradale ma ora utilizzati solo per la mobilità lenta, in cui la conservazione di due testimonianze rilevanti del patrimonio storico elvetico è stato lo scopo principale degli interventi, riparando ed eliminando le cause di degrado e riducendo al minimo le alterazioni della struttura.

Non manca, infine, un caso studio sul ferrocemento (S. Poretti, T. Iori, Padiglione alla Magliana di P.L. Nervi, 1945) e il «dialogo» fra due calcestruzzi nel Ticino dell’ultimo trentennio (Snozzi Groisman & Groisman, casa Morisoli Nydegger, Monte Carasso).

Tutela, restauro, conservazione, manutenzione, sono termini che esprimono diverse sfumature dell’azione di custodire il patrimonio materiale che l’ingegneria e l’architettura dovrebbero tramandare alle prossime generazioni. Oggi più che mai, prendersi cura – dell’ambiente, del territorio, delle città e dei suoi abitanti – dovrebbe essere il punto di partenza di una nuova fase che dia almeno una possibilità a un domani consapevole e sostenibile.

In questo numero:

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