La città, scenario offerto all’alternarsi delle generazioni
Aldo Rossi in mostra al MAXXI di Roma
Il MAXXI di Roma dedica una grande retrospettiva ad Aldo Rossi, architetto che seppe rivalutare «la memoria e il suo riaffiorare dentro la trama della città con l’urgenza dei segni, dei comportamenti, dei ricordi di lunga data». Il commento di Fulvio Irace.
Il 4 settembre del 1997, a seguito di un grave incidente stradale, moriva a Milano l’architetto Aldo Rossi. A 66 anni, era al culmine della sua carriera: nel 1990 gli era stato assegnato il Pritzker Prize e aveva cantieri aperti in giro per il mondo e importanti progetti che aspettavano il vaglio della realizzazione. A dispetto della sua controversa fama in Italia, la sua figura appariva avvolta dall’alone carismatico di un maestro creatore, sostenuto dal prodigioso talento artistico di schizzi e disegni che sfidavano le regole della bellezza consuetudinaria per farsi pensieri dipinti.
Leggi l'intervista di Giulio Barazzetta al curatore della mostra, Alberto Ferlenga
A più di vent’anni dalla sua scomparsa, una grande retrospettiva (Aldo Rossi. L’architetto e le città) giunge opportunamente a proporre se non un bilancio, un rilancio della sua opera teorica e progettuale nelle gallerie del museo nazionale MAXXI a Roma, che da tempo custodisce larga parte del suo copioso archivio. Su grandi tavoli e lungo le pareti, avvolgono i visitatori tavole di progetto, disegni d’invenzione, documenti di vita e d’affezione, e innumerevoli modelli di edifici realizzati o solo progettati nel mondo: una scenografia allestitiva che ai meno giovani può ricordare l’ambiente di studio dell’architetto milanese, una Wunderkammer più simile (anche allora) all’antro di un artista-filosofo che al laboratorio di un tecnico del progetto. Il libro di storia sul tavolo da disegno fu la fortunata metafora con cui negli anni Settanta Costantino Dardi segnalava l’urgenza delle giovani generazioni di riconciliarsi con lo studio del passato e di riportare la figura dell’architetto dentro gli ampi confini di quella dell’intellettuale: preoccupazione costante che era stata avanzata a Milano da Ernesto N. Rogers nella sua direzione di «Casabella Continuità», la rivista-laboratorio dove il giovane Rossi era approdato nel 1955, prima ancora della laurea al Politecnico di Milano.
Nato nel 1931, Rossi apparteneva alla generazione che aveva mosso i primi passi nel secondo dopoguerra ma che nel giro di poco tempo avrebbe monopolizzato la scena ponendosi al centro del dibattito sulla ricostruzione. Nel 1966 pubblica l’esito di una ricerca avviata molti anni prima – L’architettura della città – che diventerà presto libro di culto non solo in Italia, visto il grande numero di traduzioni. Qual era la novità – per alcuni l’eresia – delle posizioni di Aldo Rossi? La grande novità era forse la rivalutazione della memoria, il suo riaffiorare dentro la trama della città con l’urgenza dei segni, dei comportamenti, dei ricordi di lunga data: nello stesso anno – val la pena di ricordare – esce in America Complexity and Contradictions di Robert Venturi che, significativamente e a modo suo, ripropone il tema della città come palinsesto e dell’architettura come elemento di continuità nella storia a dispetto delle ideologie e delle interpretazioni storiografiche.
Per Rossi la città è un palinsesto, un affresco forse incompiuto e parzialmente eroso, sulla cui superficie però è ancora possibile leggere i depositi, accanto alle figure visibili degli edifici costruiti, e le tracce più profonde custodite nei progetti mai realizzati. Più volte nei suoi scritti e nelle sue memorie riaffiora perentoria l’immagine della città come scenario offerto all’alternarsi delle generazioni: i luoghi – diceva – sono più forti delle persone; come i monumenti del passato, sono immutabili scene di pietra, fossili depositati dal tempo dentro il cui magma roccioso si possono ancora intravvedere, come intrappolate, le morie di vite passate.
È il tema – anche iconografico – della Città Analoga che assume nella poetica di Rossi il significato profondo ed evocativo di una compressione del tempo nello spazio così ben testimoniato dalla sua ossessione per il Teatro scientifico, che a Venezia si tradurrà nel fantasma galleggiante del Teatro del Mondo, la creazione che nel 1980 gli attirerà l’attenzione di un pubblico internazionale, catturato dal magnetismo di quel gesto «effimero» che, come proposto da Manfredo Tafuri su «Domus», assume le caratteristiche dell’«eterno».
Se negli anni Sessanta Superstudio aveva immaginato l’utopia del Monumento Continuo – l’espansione di una «cosa» neutrale che avvolgeva il globo in una visione compatta e univoca –, la Città Analoga di Aldo proponeva l’illusione di una città condensata nel possibile grumo di suoi compatibili frammenti: era la previsione di quella che Colin Rowe chiamerà «collage city», ma di essa la città analoga non condivideva la stessa libertà di un mondo di frammenti felice di ritrovarsi senza un vero e proprio centro.
Per Rossi il centro rimaneva l’autobiografia emozionale più che teorica – «scientifica» come i suoi teatrini da camera e il suo famoso libro del 1981 – il cui fulcro risiedeva nella sperimentazione dell’apparentemente simile in contesti diversi e spiazzanti, dal forte carattere sperimentale. Non pare un caso infatti che l’ultima delle sue opere – che la morte gli impedì di vedere conclusa –, l’isolato berlinese in Schützenstrasse, possa considerarsi la versione tridimensionale della Città Analoga degli anni Settanta: un collage (non privo di una sua provocatoria ironia) di frammenti a simulazione di una instant history nel cuore della città – Berlino – che più mostrava la sofferenza di una condizione sospesa (e oscillante) tra memoria e censura.
Dove e quando
Aldo Rossi. L’architetto e le città
Mostra a cura di Alberto Ferlenga
MAXXI Museo nazionale delle arti del XXI secolo, Roma
Dal 10 marzo 2021 al 17 ottobre 2021