L’ar­chi­tet­tu­ra del­le ab­i­ta­zio­ni sta­gio­na­li

Il nostro territorio, parzialmente corroso da interventi spudorati o, a volte, abbandonato a se stesso all’avanzare dei boschi e alla solitudine, riserva anche paesaggi sorprendenti dedicati a quella parziale solitudine che molti anelano. La ricerca di spazi per il riposo, il sogno o l’avventura ha portato diversi architetti a progettare o recuperare rifugi solitari, baite lontane, eremi distanti dal caos e dal rumore; nuove forme di luoghi abitati che definiamo con un termine univoco «case secondarie».

Publikationsdatum
24-04-2014
Revision
08-10-2015

L’immersione quasi completa nella natura delle valli alpine distingue queste abitazioni temporanee dalle sorelle più mondane, abbarbicate fra mille altre sui fianchi dei paesaggi lacustri e da cui l’unica natura percepibile è quella «vista» che, se si ha fortuna, si intravede da un terrazzo ricavato a fatica sovrastando quello sottostante.

La ragione non ha nulla a che vedere con la scelta di abitare questi luoghi, ma bastano pochi giorni di realtà silenziosa, spezzata da scoppi di voci o rumori e luci il cui suono resta a lungo nella memoria e rimbomba nel silenzio che segue ogni evento, per curare la nostra mente sottoposta a continue sollecitazioni. Già salendo in quota con gesti automatici e quasi inconsapevoli, apriamo i finestrini delle auto spegnendo la radio, quasi a preparare mente e corpo a nuove abitudini. Ci accolgono aria tersa e rumori inconsueti, rami che si spezzano, neve e ghiaia sotto i piedi, qualche saluto scontroso e paesaggi e architetture che sono spesso risultato di continui aggiustamenti a modi di vita contemporanei o, a volte, interventi esemplari. Come questi progetti elaborati da architetti di cui la Fondazione aat conserva gli archivi, che interpretano due concetti fondamentali, la protezione e il focolare.

Si tratta di architetture misurate, case adagiate su declivi naturali, recuperate da ruderi dismessi o elaborate a partire da un tema e da bisogni essenziali; sono abitazioni temporanee disegnate con attenzione al contesto e al dettaglio. Seguendo in punta di matita il disegno o osservando la perfezione del gesto di questa casa di Franco Ponti a Dalpe del 1963, percepiamo quel sottile dolore legato alla pura bellezza. Lo zoccolo in pietra naturale, ben ancorato al terreno con un intervento di scavo quasi invisibile, le aperture calibrate e precise, le geometrie così studiate da apparire completamente naturali, le sottili solette in legno solo là dove necessario: il gesto spontaneo di un bambino che con pochi mezzi deve ricavarsi un riparo e lo fa adagiandosi sulla montagna e aprendosi alla luce.

Possiamo poi apprezzare in queste immagini l’accurato recupero di un rustico contadino, operato dall’architetto Bruno Bossi nel 1967, dove i percorsi pedonali ci avvicinano all’edificio senza muri di contenimento o appiattimenti innaturali ma solo donando al passo un sostegno stabile e rimandando all’andamento naturale della topografia e del paesaggio circostante con il disegno e il leggero accostarsi dei tetti.

Gli schizzi dell’architetto Tita Carloni riportano invece accurate riflessioni su temi base, per il progetto di una casa di vacanza in un contesto alpino come Maloja, dove le condizioni climatiche convivono con il desiderio di accessibilità, relativo isolamento, vista e condivisione degli spazi con un certo numero di persone.

È poi ancora Franco Ponti a mostrarci la sua capacità di creare un dialogo continuo fra natura e architettura con il progetto di casa Laube a Carì, dove il grande tetto geometricamente essenziale, accoglie le funzioni primarie dell’abitare, per poi protendere lo zoccolo con due corpi laterali ed estendere gli spazi interni verso il paesaggio circostante solo là dove l’orografia naturale lo permette, mantenendo l’affaccio verso valle misurato e preciso. 

Lo spopolamento delle valli alpine costringe oggi questi territori a reinventarsi a fatica un uso e una frequentazione a partire da bisogni che non sono più quelli primari di una sussistenza povera legata ad agricoltura o pastorizia, ma quelli di una maggioranza indaffarata, con un tempo frammentato a disposizione e ancora legata alla montagna, ai suoi ritmi e ai suoi paesaggi, per nostalgia o semplice piacere.

Sempre Tita Carloni nel 2002, a proposito delle nuove norme per la trasformazione dei rustici, si chiede: «… se non è meglio prendere atto della realtà, descriverla senza pregiudizi, smetterla di parlare di conservazione e pensare a due possibili alternative culturalmente decenti. Prima: la caduta in rovina pura e semplice…», – una morte lenta, sicura e poetica di manufatti ormai abbandonati, riconsegnati a un territorio che non è più necessario sfruttare e abitare –. «Seconda: la trasformazione in modeste case attrezzate per il tempo libero, con interventi sobri, qualificati e manifesti, che rivelino onestamente la circostanza, che lì non soggiornano più poveri pastori, donne pie e qualche vaccherella, ma bancari più o meno miscredenti, in regolare stato di ozio».

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