Gae Au­len­ti e il suo dop­pio

Giovanni Agosti assieme a Nina Artioli e Nina Bassoli curano una una mostra dedicata a Gae Aulenti al Palazzo dell'Arte a Milano. Hanno risposto al difficile quesito di come esporre l'architettura tramite la logica del collage, dell’elenco – stratagemma postmoderno, perciò coerente con il periodo in esame – e soprattutto tramite una dimensione teatrale, molto cara alla Aulenti. 

Publikationsdatum
22-10-2024
Gabriele Neri
Dott. arch. storico dell'architettura, redattore Archi | Responsabile della rubrica 'Paralleli' per Archi

Un rocambolesco inseguimento prima di un sorpasso «all’italiana», degno del celebre film di Dino Risi con Jean-Louis Trintignant e Vittorio Gassman (1962), congelato su pedane d’acciaio, inclinate per rendere più adrenalinica la scena, moltiplicata sul metallo di pareti e carrozzerie mentre ampie strisce gialle mimano le curve di un autodromo dove correre a tutta velocità. 

Grazie a Gae Aulenti (1927-2012), il concessionario FIAT sulla Beethovenstrasse a Zurigo, aperto nel 1973, trasformava l’ordinaria esperienza commerciale in un set cinematografico, spiazzante per chi s’aspettasse di trovare soltanto auto da comprare. Dopo poco tempo, di quello spazio effimero non rimase però traccia, a parte i disegni, una maquette e le fotografie di Gianni Berengo Gardin. Almeno fino a quest’anno, quando una parte di quella scenografia è stata ricreata nel Palazzo dell’Arte di Milano per la mostra sulla grande progettista, curata da Giovanni Agosti insieme a Nina Artioli e Nina Bassoli. 

Esporre l’architettura, si sa, implica una frustrazione (che è anche stimolo) di fondo, ovvero l’impossibilità di mostrare l’opera reale: come portare un edificio in un museo? Invece di raccontare la storia della Aulenti puntando sui tradizionali «surrogati» (piante, schizzi, foto ecc.), come di solito si fa, la mostra ha puntato tutto sulla riproduzione in scala reale di alcuni spazi scelti. L’allestimento, disegnato dallo studio Tspoon, è infatti costituito da 13 ricostruzioni di progetti, quasi tutti perduti: un percorso a scatti tra spazi, luoghi e tempi diversi, forzatamente giustapposti. Si entra attraversando le figure picassiane che Gae Aulenti volle in Triennale nel 1964 e un brandello dello showroom Olivetti a Buenos Aires (1968); si scartano le automobili FIAT di Zurigo per entrare in Casa Brion a San Michele di Pagana (1973); poi in un angolo della chiesa milanese alla Rotonda della Besana, dove espose il lavoro di Christo (1973), prima di finire tra le Baccanti di Euripide (1977), a Palazzo Grassi (1986), nella Galleria dei disegni della Triennale (1994), al Musée d’Orsay (1986), nello scenario dell’Elektra di Richard Strauss (1994), nello Spazio Oberdan di Milano (1999), in piazza Cavour a Napoli (2001) e infine nell’aeroporto di Perugia (2012). 

Che cosa ci dice una simile messa in scena? La ricostruzione differita – in scala al vero – dello spazio architettonico perduto è un’operazione intrigante, ma delicata e pericolosa. Il déplacement genera infatti un simulacro ancora più ingannevole perché si propone come realtà, privando invece di senso buona parte del progetto originale. Ma la mostra milanese fa di questa ambiguità il motivo portante, scansando la filologia per proporre una più libera logica del collage, dell’elenco – stratagemma postmoderno, perciò coerente con il periodo in esame – e soprattutto una dimensione teatrale, molto cara alla Aulenti. 

Non è un’operazione semplice: l’adattamento di ogni progetto ha implicato la scelta chirurgica del singolo frammento e il suo riproporzionamento, tra analogia e sineddoche (la parte per il tutto), come nel caso del museo parigino, evocato da una porzione di panca lineare. Non senza pecche: incomprensibile è ad esempio lo spazio di Christo alla Besana, per chi non conosce l’originale. Caso raro per una mostra del genere, si dimentica per un po’ l’architettura come vista dagli architetti – con il raffinatissimo, ma pure morboso e spesso poco decifrabile, linguaggio specialistico – per immergersi invece nello spazio (ir)reale, stringendo un tacito patto con il visitatore, che è chiamato a partecipare attivamente come attore/abitante di tale rappresentazione.

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