Il Centro Svizzero di Milano
1947–1952: prototipo e modello di fine serie
L’articolazione classica dell’architettura (zoccolo, piani principali, attico) crea un legame visivo coi fabbricati circostanti più tradizionali. Con il Centro Svizzero, Meili cercò sia il legame con l’architettura internazionale allora in voga sia l’inserimento di quest’ultima nel contesto locale.
Alla fine della seconda guerra mondiale molte città europee si ritrovarono con edifici pesantemente distrutti e notevoli vuoti architettonici. Dal canto loro, architetti e urbanisti avevano i cassetti pieni di idee su come tornare a riempirli in modo inedito. Anche le crepe politiche ed economiche della nuova Europa cominciarono a rinsaldarsi solo tra il 1945 e il 1950. Che questa situazione fosse recepita come opportunità da parte di diversi attori, è ciò che mostra alle pagine seguenti l’interessante storia del Centro Svizzero di Milano. Dopo che il Circolo Svizzero di Milano aveva perso i suoi locali in seguito a un bombardamento, non si parlò di ricostruzione, bensì di un completo rifacimento, finanziato dallo Stato svizzero, sulla prestigiosa piazza Cavour.
Situato in diretto legame urbanistico col Duomo (e con la Madonnina, il punto più alto della città), il grattacielo infine realizzato sovrastava al momento della costruzione tutti gli altri edifici profani della città.
America, America!
Que pensez-vous de New York?» Froidement j’ai répondu: «Les grattes-ciels sont trop petits». (Le Corbusier, Quand les cathédrales étaient blanches, 1937)
Dal 2 al 7 maggio del 1947, una quadrimotore Douglas DC-4 della leggendaria Swissair compì una prima traversata di prova dell’Atlantico. Grazie ai primi voli transatlantici, da un giorno all’altro New York era divenuta molto più vicina. Nell’ottica di chi viaggiava in aereo, non solo le distanze si accorciavano, ma viste dall’alto, le torri del centro di New York apparivano anche ridimensionate a miniatura, ridotte a dimensioni quasi elvetiche.
Per gli architetti svizzeri, comunque, il fascino dei grattacieli non era nuovo. Già nel 1917, conclusi gli studi al Politecnico federale di Zurigo, il ginevrino William Lescaze aveva tentato il grande balzo dell’avventura americana: nel 1929, con il grattacielo della Philadelphia Savings Fund Society PSFS, era riuscito a realizzare un vecchio sogno architettonico.1 Non appena ultimato, il vistoso fabbricato prismatico fu presentato alla leggendaria mostra dell’International Style a New York e salutato come primo grattacielo moderno.2
Così Armin Meili, collega di Lescaze ed ex assistente di Karl Moser al Politecnico di Zurigo, nella primavera del 1947 accettò volentieri l’incarico di progettare a Milano un grattacielo d’impronta europea. Bastarono due anni per allestire il progetto completo: una torre alta per uffici di ditte internazionali, preceduta da un corpo angolato più basso che ospitava istituzioni e agenzie svizzere.
Il Centro Svizzero era in costruzione da sei mesi quando l’architetto, nel gennaio 1950, si recò per la prima volta a New York; vi sarebbe tornato a più riprese negli anni seguenti, dovendo reperire (e poi allestire nel Rockefeller Center) uffici per la Swissair.3
Dato il tipo d’incarico ricevuto nel centro di Milano, era naturale per Meili guardare agli Stati Uniti. In America Meili si interessò dunque particolarmente agli esempi più attuali di grattacieli contemporanei. Visitò quindi i cantieri del palazzo dell’ONU (1947-1953) e della Lever House (1947-1952), entrambi nel vivo della costruzione, emblematici del modernismo postbellico americano, esempi tipici dell’International Style.
I possenti volumi dei due edifici, non più degradanti verso l’alto e a mo’ di «torta nunziale» ma svettanti come lastre di vetro o enormi prismi, avevano destato scalpore su scala mondiale ed erano oggetto d’ampio dibattito anche nella stampa svizzera. A fargli conoscere da vicino l’architettura moderna americana furono gli incontri e i colloqui col suo ex compagno di studi, l’architetto William Lescaze.
Un grafico pubblicato da Meili sulla «Neue Zürcher Zeitung» nel 1950, tuttavia, chiariva bene le dimensioni del suo edificio confrontandole con quelle dei grattacieli d’oltreoceano.4 Paragonata alle consorelle americane, in effetti, la casa-torre milanese è di taglia piuttosto modesta. Ma evidentemente il Centro Svizzero sembrava una sfida verticale soprattutto al Duomo, con cui tramite l’asse di via Manzoni stava in stretti rapporti urbanistici.
La situazione che Meili affronta nel 1947 a Milano doveva comunque sembrare quella di una metropoli, e non solo in un’ottica svizzera: anche nella realtà ambrosiana dell’immediato dopoguerra, quello di piazza Cavour era fra i cantieri più cospicui e centrali. Lo dimostrano alcuni progetti, come per esempio quello dell’architetto Giuseppe de Finetti del 1942.
Stando ad Alfred Roth, allora capo redattore della rivista «Werk», vari archietti milanesi vedevano poi proprio nel Centro Svizzero il precursore che spianava la strada per la costruzione di palazzi a molti piani nella metropoli lombarda.5 Con i grattacieli Pirelli, Piaggio, Galfa e la Torre Velasca, costruiti poi verso la fine degli anni Cinquanta, si introduceva ancora un nuovo ordine di dimensioni nell’assetto urbanistico ambrosiano.
Date le circonstanze straordinarie, è strano che Meili stesso non avesse preso in considerazione il panorama architettonico della Milano di quei tempi. Nei suoi diversi scritti non cita un solo edificio moderno della città. Né Giuseppe Terragni o Giovanni Muzio né Piero Portaluppi o Giuseppe de Finetti, tutti attivi nella moderna Milano di allora, vengono menzionati negli scritti dell’architetto di Zurigo.6 Come se dietro il suo progetto del Centro Svizzero ci fossero davvero solo lo sguardo idealizzante verso l’America e lo sfondo della Milano storica.
Eppure, come cerco di provare qui di seguito, sappiamo che il grattacielo di Meili nacque in un contesto urbanistico concreto e in condizioni storiche molto precise e particolari.
Prototipo silenzioso
Come dimostrano diverse fonti, il progetto del Centro Svizzero in piazza Cavour, finanziato con fondi svizzeri, fa parte del piano di ricostruzione di Milano. Il Centro Svizzero era dunque il prodotto, per così dire, che traduceva in modo ottimale gli interessi dei vari ambienti coinvolti: in primo luogo gli interessi economici di una Svizzera che, con l’investimento nel progetto milanese, cercava di uscire dall’isolamento politico in cui si trovava nel dopoguerra.7
Con l’investimento nel progetto la Svizzera riuscì a eludere il divieto di commercio con l’Italia che le era stato imposto dalle forze vincitrici degli alleati. Siccome certi fondi, ossia depositi svizzeri congelati a causa della guerra si trovavano già in Italia, il finanziamento potè procedere grosso modo senza grandi ostacoli burocratici e senza intervento americano.
L’impegno economico svizzero in piazza Cavour, viceversa, sembrava vantaggioso anche agli urbanisti milanesi. La tipologia dell’edificio (torre arretrata e corpo basso a fil di strada) era concepita ab ovo come elemento del nuovo piano regolatore di Milano.8 Al posto dei tradizionali isolati a cortile interno, gli urbanisti dell’immediato dopoguerra prevedevano, in vari punti nevralgici della città, fabbricati multifunzionali tipologicamente affini appunto al Centro Svizzero.9
Non stupisce quindi che uno schizzo dell’architetto Piero Bottoni, eseguito nel 1947 per un edificio multiuso in corso Buenos Aires, si possa leggere come studio preliminare per il Centro Svizzero. Il progetto commissionato da Berna, infatti, fu sviluppato in stretta collaborazione con la commissione urbanistica ambrosiana, presieduta dallo stesso Bottoni: scopo della procedura era attuare al più presto, grazie anche a un edificio rilevante, il nuovo piano regolatore messo a punto negli anni 1946-1948.10 Bottoni non era certo un carneade: razionalista milanese della prima ora, con Giuseppe Terragni aveva rappresentato il gruppo italiano dei Congressi internazionale dell’architettura moderna (CIAM) al congresso ateniese del 1933.11 Nel luglio 1945 egli presentò il piano di ricostruzione degli Architetti Riuniti, fra cui ci furono Albini, Gardella, Peressutti e Rogers, tutti iscritti al Partito d’Azione. Il nuovo piano regolatore per Milano partiva dunque da quelle premesse e si basava, come il detto piano AR, sulle teorie dei CIAM e di Le Corbusier.
Due illustrazioni nell’antologia di Bottoni sugli edifici moderni ambrosiani – le casette a schiera nel noto quartiere sperimentale del QT8 del 1947 e il Centro Svizzero – unite al relativo commento, non potrebbero esplicitare meglio i poli entro cui si svolse la ricostruzione milanese.12 Se il quartiere dell’ottava Triennale, iniziato da Bottoni, illustrava bene, a mo’ di Weissenhof italiano, condizioni postbelliche da «minimo esistenziale», il contemporaneo Centro Svizzero corrispondeva ai requisiti massimi ipotizzabili in quella situazione per un palazzo commerciale urbano.
Bottoni aveva buone ragioni per accelerare l’esecuzione del progetto di piazza Cavour. Le prime elezioni nazionali del dopoguerra (18 aprile 1948) segnarono una sconfitta disastrosa per la sinistra. La massiccia campagna anticomunista finanziata dagli Stati Uniti, anche a Milano contribuì a scacciare gli architetti razionalisti dalle sedi amministrative che occupavano sin dalla Liberazione.13 Vennero abbandonate, così, anche le loro idee in campo urbanistico: ad esempio gli sforzi per disimpegnare il centro storico con nuclei commerciali sugli assi principali della città. Il Centro Svizzero, in quanto parte di questi progetti, diventò quindi testimone quasi solitario e prototipo di concetti di ricostruzione in fondo caduti nel vuoto.
Per Meili, invece, con il Centro Svizzero si realizzò a livello urbanistico un sogno che aveva espresso già da anni: da pioniere della Pianificazione del territorio svizzera, fin dai primi anni Quaranta aveva diffuso l’idea dell’accentuazione di situazioni urbanistiche attraverso grattacieli e compattazioni puntuali.14
Zurigo-Milano
Anche se non è possibile rintracciare nei dettagli il passaggio dal progetto di Meili a Bottoni e viceversa, il filo diretto Milano-Zurigo era assicurato dalla persona dell’architetto Giovanni Romano. Membro del gruppo di architetti razionalisti milanesi, molto amico di Albini e Gardella, Romano aveva collaborato ai vari concorsi per piani urbanistici prima e dopo la seconda guerra mondiale. Nel 1947 egli aveva partecipato anche ai congressi dei CIAM.15 Poiché negli anni Trenta, inoltre, aveva già costruito la scuola Svizzera di Milano, fu naturale chiedere a Romano di disegnare anche il Centro Svizzero.
In principio, effettivamente, candidati come progettisti della nuova sede del Schweizerverein di Milano furono sia Meili sia Romano. La scelta di commissionare il progetto a Meili e di far dirigere la costruzione a Romano risale solo all’estate 1947, quando le maggiori decisioni urbanistiche erano già prese. Nominando l’architetto svizzero Meili, il committente pubblico svizzero operò una scelta precisa, ben poco casuale, non solo in materia politica e strategica, ma anche in materia d’iconografia architettonica. Il confronto fra gli studi preliminari eseguiti da Romano nel 1947 e quelli di Meili è perspicuo: una Svizzera che mai aveva assegnato incarici ufficiali al suo architetto moderno più celebre, Le Corbusier, ora non poteva certo entusiasmarsi per un’architettura d’impronta palesemente lecorbusiana come quella proposta da Romano!16
Reminiscenze del «Landi-Stil»
In effetti lo schizzo di Meili non ha il rigore da razionalista: la massiccia torre è sormontata da una piattaforma aerea. Nei tratti romantici del progetto preliminare si scopre uno sguardo a ritroso sul periodo precedente la seconda guerra mondiale.
Un tetto come si lo vede nel progetto meiliano del 1948 può sembrare piuttosto strano, specie ove si tenga presente il contesto internazionale dell’architettura moderna. Diventa ben comprensibile, invece, se si considera la realtà iconografica svizzera dei tardi anni Trenta, da cui Meili cercava di sviluppare il proprio linguaggio architettonico. Sullo sfondo di un’architettura moderna di stampo tipicamente elvetico o, come disse Jacques Gubler,17 di una «giapponeseria funzionale» il giardino pensile della torre meiliana appare piuttosto semplice e prosaico.
Questo stile semiludico si manifestò nella forma più esplicita all’Esposizione nazionale svizzera di Zurigo (1939): nel padiglione della moda la forma del tetto ricordava addirittura una gonnella dall’orlo lievemente sollevato. Quale ex direttore e figura carismatica dell’Expo 39, Meili era molto propenso a questo «dolce stil moderno» tipicamente svizzero.
Nell’edificio poi realizzato l’elemento fantastico latita quasi del tutto: ne resta qualche traccia, forse, nel cornicione pensile del corpo basso.
Verso un’architettura dell’International Style
Al più tardi una volta visto il progetto preliminare del rivale milanese Giovanni Romano, Armin Meili si rese conto che a Milano la lingua architettonica del Landi-Stil, estremamente popolare in Svizzera, non avrebbe avuto presa. Nell’ulteriore elaborazione del progetto, l’architetto svizzero si orientò dunque, per quanto riguardava sia la volumetria del complesso sia il repertorio di forme, ai già citati esempi dell’edificio dell’ONU e della Lever House di Manhattan.
Mentre il palazzo dell’ONU – risalente, com’è noto, a un progetto di Le Corbusier – coi suoi due lati completamente chiusi dimostrava una certa affinità strutturale col Centro Svizzero, la Lever House di Skidmore, Owings e Merrill doveva averlo colpito perché interamente rivestita di vetro (Meili ne riportava infatti una foto su cui annotava: «purtroppo non un’opera mia»). A Milano in quegli anni, una struttura in vetro e acciaio era invece fuori discussione, per la carenza e il costo eccessivo dei materiali necessari.
Paragonato agli edifici vicini, il Centro Svizzero, terminato poi nel 1952, si presenta innanzitutto come architettura di riserbo, che non rivela le sue qualità in modo eclatante. Nonostante l’alto livello tecnico, il Centro Svizzero non intende rappresentare l’ultimo grido e rinuncia alla retorica chiassosa. Il suo aspetto straordinario sta poi nell’eleganza discreta, apparentemente senza tempo: il reticolo della facciata riveste armonicamente quasi l’intera superficie, risolvendosi solo negli ultimi piani in una vetrata del tipo curtain wall. Corpo antistante e torre presentano, pur nella loro diversa volumetria, dimensioni analoghe; all’intero complesso ne deriva una tensione di estremo interesse.
L’articolazione classica dell’architettura (zoccolo, piani principali, attico) crea, nonostante le dimensioni dell’edificio, un legame visivo coi fabbricati circostanti più tradizionali. Con il Centro Svizzero, Meili cercò sia il legame con l’architettura internazionale allora in voga sia l’inserimento di quest’ultima nel contesto locale.
Caratteristica di fondo della prima architttura postbellica di Armin Meili sono il suo senso delle proporzioni, il particolare impiego dei materiali e infine l’attenzione dell’effetto complessivo di soluzioni in grande scala. Con l’astrattismo, fino a questo momento piuttosto estraneo all’architettura di Meili, combinato con il gusto per le dimensioni spaziali nuove, l’architetto svizzero sembra voler dare una risposta alle esigenze di una nuova monumentalità.18
L’edificio adiacente al Centro Svizzero, il Palazzo del Popolo dell’architetto Giovanni Muzio risalente agli anni Trenta, pareva a Meili di una retorica sguaiata: sorto in un periodo che aveva «perso il senso della misura» in architettura come in politica, secondo lui influiva negativamente sull’intera piazza Cavour.19 Occorreva quindi, a suo avviso, affrontare quell’architettura «non democratica» con mezzi architettonici moderni depurati in senso americano. Nel 1957, infine, Meili elaborò un piano che prevedeva di eliminare del tutto il Palazzo del Popolo e di sostituirlo con un secondo grattacielo, ancora più alto e in «stile internazionale». Il progetto, naturalmente, restò sulla carta.
Tale fatto chiarisce, del resto, che anche l’architettura modernistica del Cento Svizzero, in questo momento, era già considerata un «modello di fine serie». La Torre Velasca degli architetti BBPR, stupendo grattacielo eretto nello stesso periodo e anche esso in breve distanza dal Duomo, fu infatti espressione di concezioni diametralmente opposte. La sua era un’architettura programmaticamente antimodernista e carica di retorica.
Ella risolveva il problema della monumentalità moderna in mezzo alla trama urbanistica medievale in termini formali fortemente storicizzanti e postmoderni.
Note
William Lescaze, con scritti di C. Hubert, L.S. Shapiro, Rizzoli, New York 1982.
Cfr. H.-R. Hitchcock, P. Johnson, The International Style: Architecture since 1922, W.W. Norton & Company, New York 1932, p. 15, 158-159.
A. Meili, Erinnerungen, vol. IV, dattil. 1957, p. 119.
A. Meili, Braucht Zürich Hochhäuser?, «Neue Zürcher Zeitung», 8 dicembre 1950.
A. Roth, Das Centro Svizzero in Mailand, «Werk», 1952, 11, p. 354.
Cfr. A. Meili, Loorbeeren und harte Nüsse, Zurigo-Stoccarda 1968; id., Das Centro Svizzero in Mailand, «Schweizerische Bauzeitung», 35, 1 settembre 1951, pp. 484-494; id, Erinnerungen, vol. IV, dattil., 1957.
Il seguente capitolo si basa su materiali conservati nell’Archivio Statale di Berna così come sulla ricerca sempre fondamentale dello storico W. Spahni, Ausbruch der Schweiz aus der Isolation nach dem Zweiten Weltkrieg. Untersucht anhand ihrer Aussenpolitik 1944-1947, Huber Verlag, Zürich 1977.
Per il piano regolatore di Milano si veda il numero speciale di «Urbanistica», 18-19, marzo 1956.
M. Grandi, A. Pracchi, Milano. Guida all’architettura moderna, Zanichelli, Bologna 1980, p. 281.
P. Gabellini, C. Morandi, P. Vidulli (a cura di), Urbanistica a Milano 1945-1980, Edizione delle Autonomie, Roma 1980, pp. 28 sgg.
Cfr. G. Consonni, L. Meneghetti, L. Patetta, Piero Bottoni: 40 anni di battaglia per l’architettura, «Controspazio», V, 1973, fasc. 4, pp. 40–50.
P. Bottoni, Edifici moderni in Milano, Milano 1954, reprint Editoriale Domus, Milano 1990, pp. 32 sgg., pp. 215 sgg.
P. Gabellini, C. Morandi, P. Vidulli (a cura di), Urbanistica a Milano, cit., pp. 26 sgg.
A. Meili, Braucht Zürich Hochhäuser?, cit.
Cfr. I. Gardella, Ricordo di Giovanni Romano, 1905-1990, «Domus», n. 724, febbraio 1991, p. 17; S. Protasoni, The Italian Group and the Modern Tradition, «Rassegna», n. 52, 4 dicembre 1992, pp. 28-39; così come diversi atti ciam presso l’Istituto gta all’eth di Zurigo.
L’archivio Giovanni Romano si trova al Centro Studi e Archivio della Comunicazone csac presso l’Università di Parma.
J. Gubler, Nationalisme et internationalisme dans l’architecture moderne de la Suisse, 1988 (1975), pp. 229 sgg.
Cfr. G.R. Collins, Ch. Collins, Monumentality: A Critical Matter in Modern Architecture, «Monumentality and the City», 1984, pp. 14-35.
Cfr. A. Meili, Das Centro Svizzero in Mailand, cit., p. 487.