Mo­saico ti­ci­nese

Date de publication
08-04-2019
Fulvio Irace
Architetto e critico, professore di storia dell’architettura contemporanea dell’AAM e alla Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano

Quando, a metà degli anni Novanta del secolo scorso, venne gettato il seme dell’Accademia di Architettura a Mendrisio, il clima culturale e geopolitico si presentava a larghi tratti problematico se non ostile alla semina. Erano gli anni in cui era in auge le retorica della globalizzazione e le prime teorizzazioni sull’esistenza di una «società liquida» disegnavano un quadro per alcuni esaltante, per altri sconfortante. La rottura dei confini tradizionali, dei nazionalismi e persino degli statalismi sembrava irreparabile: il liquefarsi degli equilibri del mondo uscito dalla seconda guerra mondiale, dai conflitti di classe, dalle barriere commerciali e dalla mobilità dei saperi, delle competenze e dei lavori, favoriva la mescolanza ma anche l’ambiguità di status sempre più incerti e provvisori. Il tema delle identità che aveva da sempre caratterizzato consuetudini, abitudini, mentalità e di conseguenza gli ordinamenti di ciascun Stato, non era più all’ordine del giorno, sostituito – in versione nobile – da un libero cosmopolitismo di eguali, dall’altro – in versione più realistica – da un’intercambiabilità molto propizia all’accelerazione del vecchio capitalismo.

La proposta dunque di istituire proprio in Svizzera – nazione neutrale che si era tenuta fuori anche dall’associazione della Comunità Europea – una scuola di alta formazione che rivendicava la specificità del territorio, la centralità della tradizione del moderno e la contestazione della specificità tecnica della figura dell’architetto, suonava quasi rivoluzionaria. Una rivoluzione attutita dal contesto geografico di una realtà del territorio svizzero sino ad allora minoritaria (se non marginale) come il Ticino.

Non sarà necessario qui ripercorrere tutte le motivazioni dietro le scelte di un coraggioso manipolo di padri fondatori perché ampiamente dettagliate dalla memoria di Mario Botta che di quel gruppo ristretto fu la punta di diamante, anche in ragione della sua notorietà internazionale. E infatti quello che in queste pagine si cerca di documentare è la resilienza di questa proposta a più di vent’anni dal suo primo ciclo vitale. In che maniera la scommessa di un insegnamento locale e internazionale al tempo stesso ha prodotto significative ricadute attraverso il lavoro dei suoi diplomati? C’è stata una congruenza tra il profilo ambito dagli studi e incoraggiato dalle figure dei singoli docenti e i modi della pratica professionale di quelli che in tale contesto si sono formati per cinque anni fondamentali della loro vita?

Il tema è centrale non solo per un primo, provvisorio bilancio della scuola, ma anche – e forse soprattutto, per una necessaria riflessione sul futuro stesso dell’Accademia che si trova nel pieno mezzo di una fase nuova, in uno scenario radicalmente diverso da quello della fine del XX secolo.

Un compito complesso, che richiede il conforto di dati, statistiche, diagrammi di crescita e di funzionamento cui bisognerà che l’Accademia del XXI secolo ponga velocemente mano se vuole ricalibrare in maniera efficace i suoi obiettivi e stabilizzare la sua rotta. Ma che questa rivista può semplicemente provare a sbozzare, predisponendo materiali che si spera possano aiutare analisi più approfondite nel medio tempo.

Nei 23 anni di attività dell’Accademia si sono succeduti 7 direttori, di cui uno (Kurt Foster) non architetto e uno (Mario Botta) direttore due volte (in due diversi periodi, dal 2002 al 2003 e poi dal 2011 al 2013) e si sono laureati 1634 studenti: di questi solo 346 di nazionalità svizzera (e in particolare 229 ticinesi), 922 italiani e 306 di altre nazionalità. 281 diplomati AAM risultano iscritti all’Ordine degli Ingegneri e Architetti ticinesi (OTIA) – requisito fondamentale di selezione unitamente a un’approfondita indagine dei siti web e a interviste al corpo docente dell’Accademia –; di questi 281, 233 risultano residenti professionalmente in Ticino, mentre altri 118 si sono collocati in fasce di lavoro dipendente o anche collaterali alla loro formazione universitaria, come i fotografi Luca Ferrario, Simone Mengani, gli artisti Francesco Maria Gamba, Luca Coffari e Philipp Vogt, i paesaggisti De Molfetta & Strode, oppure coloro che hanno mutuato l’attività di architetti a quella di designer (Stocker Lee Architetti, Francesco Maria Gamba e Freefox Architecture Studio) o infine gli studi che si sono indirizzati verso la direzione lavori (Filippo Colombo, Gianna Tundo, Christian Palumbo, Federica Botta con Andrea Nava ecc.) mentre altri 118 sono impiegati come dipendenti negli studi professionali.

Proprio per questo va specificato dunque che questa prima indagine sul «dopo» Accademia è incentrata sul contesto ticinese e prende dunque in considerazione solo gli architetti che si sono fermati a lavorare nel Cantone, da soli o in libere associazioni con partner di diversa provenienza – in sintesi, l’eredità dell’Accademia nel suo territorio.

La casistica di queste associazioni riflette la condizione «liquida» della professione pur in un contesto sostanzialmente stabile come quello ticinese e in parte rispecchia anche il carattere internazionale dell’Accademia che, per la composizione sia del corpo docente che di quello studentesco, per sua natura favorisce il clima composito delle collaborazioni: tra i titolari dei vari studi esaminati, infatti, troviamo architetti svizzeri, italiani, coreani, argentini, israeliani... E se alcuni (Otto Krausbeck, Aldo Celoria, Emanuele Saurwein, Mihail Amariei, Luca Coffari ecc.) si qualificano come studi indipendenti, altri sono il diretto risultato di un allenamento di coppia sperimentato nel corso della formazione universitaria: Stocker Lee Architetti (lei svizzero-tedesca, lui coreano), coppia anche nella vita; DF_DC architects, dueA architetti, LOKOMOTIV.archs office, Architetti Bianchi Clerici, tutti diplomati in Accademia. Ma non mancano riferimenti al più ampio sistema formativo del Cantone, da cui prendono forme combinazioni professionali che vedono impegnati diplomati all’Accademia con diplomati della SUPSI, come da esempio, gli studi Inches Geleta Architetti e delorenzi la rocca architetti, un vero melting pot di provenienze, formazioni e culture di diverse latitudini.

Va inoltre sottolineato un altro tipo di legame con la matrice universitaria: molti infatti dei diplomati all’Accademia hanno prolungato per qualche tempo i rapporti con l’università attraverso la pratica della docenza o dell’assistenza agli atelier, in qualche caso anche coniugando la pratica dell’architettura con il suo studio teorico e storico.

Rispetto alle generazioni precedenti, è evidente che quasi tutti questi nuovi studi riflettono i cambiamenti introdotti dalla libera circolazione delle culture professionali in Europa: sia per la loro provenienza che per la loro formazione, sono infatti radicati nel Cantone ma con attività nei loro paesi d’origine e in genere nel mondo.

Rappresentanti di una generazione globale, intrecciano sul solco della tradizione moderna della scuola ticinese fermenti, stimoli, curiosità nuovi: anche al limite dell’eclettismo.

La Mino Caggiula Architects ad esempio, è una chiara dimostrazione di quest’ibridazione curiosa del nuovo, che attraversa con disinvoltura le pratiche del progetto senza schemi ideologici: il Nizza residence a Lugano è la combinazione disinibita di un approccio ambientale che inietta nell’interpretazione di paesaggio considerazioni extradisciplinari e figurative che aprono senza inibizioni al tema del luxury estate, portandolo alle estreme conseguenze formali.

Una generazione, dunque, abile nel mantenere il filo di una realistica professionalità con gli spunti maturati nel corso della formazione accademica: e come questa si è svolta all’insegna del pluralismo dei nuovi maestri, anche la loro ne riflette lo sguardo attento alle diverse realtà.

Non meno significativa la costante presenza sulla scena dei concorsi, anche se in questo caso si tratta di una modalità quasi obbligata dalle condizioni del mercato professionale non solo in Svizzera, come Stocker Lee Architetti, che hanno studio a Rancate e Seul, o DF_DC architects a Lugano e Londra.

Ne deriva un impatto sul paesaggio del territorio assai diverso da quello che negli anni Settanta aveva segnato l’interesse internazionale per il dimenticato Ticino, la Cenerentola dell’architettura svizzera: se allora il concentrarsi in poche figure carismatiche – Snozzi, Galfetti, Vacchini e poi il più giovane Botta – rendeva credibile l’ipotesi di un «regionalismo critico» negli angusti confini del Cantone, molto più difficile, e forse impossibile, definire oggi caratteristiche di uno «stile» comune o di un approccio condiviso alla progettazione: a volte poi, i risultati all’interno di uno stesso studio sembrano infatti più il frutto di una sperimentazione (o di una negoziazione) che statementdi chiara decifrazione. Mentre un legame di continuità con il recente passato è fornito dall’antropologia del contesto ticinese, dove la tipologia largamente prevalente infatti rimane ancora quella residenziale, sia nella versione della villa o della casa monofamiliare che in quella condominiale, soprattutto negli ambiti urbani di maggiore densità, un evidente eclettismo è la vera faccia architettonica dell’incertezza politica e sociale.

In taluni casi questo eclettismo è il corrispettivo di un’oggettiva differenza tra compiti progettuali che includono, ad esempio, il confronto con l’esistente – dall’addizione di nuovi volumi alla trasformazioni di edifici preesistenti – o l’inserimento di spazi ad hoc in contesti già consolidati: come nel caso dell’istituto Miralago a Brissago, dove Elisabetta Clerici ed Erik Bianchi sono chiamati a inserire un nuovo edificio tra i due blocchi dell’Istituto per la cura e l’educazione di bambini colpiti da gravi disabilità cerebrali. Il progetto, frutto di un concorso, introduce nel complesso di cura un forte elemento di carattere urbano: uno spazio piazza che permette agli ospiti con difficoltà motorie una percezione sensoriale della natura sintetizzata dal disegno di un’aiuola verde e da una fontana di cui possono arrivare a toccare il filo dell’acqua, prima di raggiungere il belvedere con la sua rasserenante vista sul lago. Attraverso un gesto volumetricamente minimo, il contesto viene efficacemente riscritto e riorientato in termini di comfort e di sensibilità ambientale e psicologica.

La percezione del territorio come testo entro cui inscrivere segni aggiuntivi e di congiunzione o ridefinizione di ambiti circostanziati accomuna anche altri interventi: dalle case per anziani a Caslano (dueA architetti) e a Canobbio (Lidor Gilad per Itten+Brechbühl) alle minute riscritture di delorenzi la rocca architetti nella ristrutturazione di casa Pellanda a Losone, fino alla delicata invenzione della casa Eiger Mönch Jungfrau di Melanie Stocker e Dong Joon Lee che reinterpreta lo skyline rurale di Rancate facendolo diventare la chiave di volta dell’intera composizione e alla dichiarazione di lealtà all’anima del modernismo testimoniata da Emanuele Saurwein, titolare di LANDS Architetture, nell’ampliamento del nitido edificio scolastico di Vittorio Pedrocchi, dove la nettezza dell’impianto strutturale e formale trova un suo inatteso completamento in un’addizione dichiaratamente contemporanea.

Il minimalismo, consistente soprattutto nell’adozione di un «sottotono» in grado di competere con la consistenza del contesto, modificandolo dolcemente e per tratti, sembra una conferma di quell’insistenza sull’ascolto del territorio che ha caratterizzato l’iniziale impostazione dell’Accademia.

All’insegna di un apparente «quasi nulla», la ristrutturazione di casa Pellanda, un’abitazione esistente di quattro piani con un’annessa stalla nel nucleo di San Giorgio a Losone, ripensa la morfologia contratta dell’abitato con la tipologia delle corti semi private a snodo di stretti e tortuosi collegamenti: l’ampliamento della costruzione principale al primo piano e l’inglobamento della stalla divenuta ora parte integrante dell’abitazione sono i pochi, discreti tratti che si sottomettono alla logica della stratificazione storica senza rinunciare alla missione riparatrice del progetto.

Approfittando dei maggiori gradi di libertà del costruire ex novo, la casa di Rancate è un esercizio di scuola sul rapporto tra corpo costruito e luogo di insediamento: un declivio, un lotto stretto e lungo, un landscape di abitazioni e orti sono i punti di partenza da cui si sviluppa l’idea di Stocker Lee Architetti di lavorare sulle quote (mettendo in evidenza il basamento) e allo stesso tempo di conferire all’«oggetto» architettonico una palese e orgogliosa unitarietà. Funzione assolta dalla definizione del tetto che svolge in maniera originale il tema dominante delle coperture a falde, facendolo diventare un nastro pieghettato o un impressivo origami orizzontale, quasi un commento al profilo lontano dei monti e delle colline.

Nella pianura intensamente edificata di Caslano, la casa per anziani di Lorenzo Fraccaroli e Silvia Barrera Meili (dueA architetti) è il gesto difensivo e al tempo stesso definitivo di un argine all’invasività dell’intorno.

La casa per anziani è un edificio programmaticamente semplice nell’impostazione planimetrica e nella volumetria contenuta che rimanda in maniera quasi istintiva alla dimensione protetta e domestica della residenza come grande casa comune. Ha invece le caratteristiche di un edificio urbano la casa per anziani di Lidor Gilad dello studio Itten+Brechbühl: sia a motivo della complessità funzionale (oltre alla residenza medicalizzata, sono previsti reparti protetti, un asilo nido e un rifugio per la protezione civile), sia per la particolare localizzazione, alla testa di un nuovo comparto residenziale. Il motivo centrale della composizione infatti è quello di uno spazio pubblico che filtra gli accessi pedonali e isola al piano superiore la sezione abitativa. Questo spazio flessibile e trasparente rende permeabile una struttura altrimenti introversa, conferendole il carattere più proprio di un edificio a sostegno della comunità.

Con le opere dei suoi anni giovanili, Mario Botta ha introdotto nel costume sociale del Cantone un tema sino ad allora quasi del tutto inedito: la monumentalizzazione del tema domestico e poi di quello – assai diffuso – dell’edificio collettivo come segno identitario a scala territoriale. Con linguaggi espressivi di una propria sensibilità, l’insegnamento sembra essere stato accolto e rielaborato dai progetti di LOKOMOTIV.archs office, studio andreani architetti, celoria Architects, Krausbeck Architetto, DF_DC architects e Inches Geleta Architetti, LANDS Architetture, Mihail Amairei, Guy Muntwyler e Luca Coffari.

La casa monofamiliare è un tema messo a fuoco da Dario Franchini e Diego Calderon (DF_DC architects): sin dalla sua denominazione, la Concrete Villa a Comano sembra indicare una continuità con la moderna tradizione ticinese del beton, materiale, come è noto, che qui ha assunto un valore simbolico che travalica di gran lunga il suo mero significato costruttivo. La casa è riassunta nella metafora visiva di un grande muro abitato: un gesto deciso – di quelli cari sia ad Aurelio Galfetti, che agli Aires Mateus, mèntori del loro diploma – che deriva e allo stesso tempo conferisce unità al lotto trapezoidale allungato. Il cemento armato di color grigio diventa medium di un grande sforzo plastico che lo assimila a una materia elastica che definisce le pareti chiuse, la scansione dei pilastri a vista e il nastro-telaio di chiusura: allo stesso tempo, la varietà del trattamento della miscela consente ai progettisti di differenziarne la topografia, come nei tamponamenti che utilizzano una miscela di sassi e cemento lanciati a mano con la cazzuola, nell’idea che in fin dei conti il cemento possa considerarsi per la sua duttilità un materiale del luogo, assimilabile alle tecniche artigianali dello strollato.

Pur con diversa sensibilità, è questo il tema messo a fuoco dalla «casa-scultura» di Luca Coffari a Giubiasco, che sfida il senso comune dell’abitare in una proposta certamente eccezionale per la complicità con la committenza, risolvendone le aspirazioni in una gestualità controllata ma determinata, che quasi ricorda, per la baldanza del suo voler essere, l’iconicità delle prime case ticinesi del giovane Botta.

Aspira a una dimensione eroica anche il palazzo Pioda a Locarno di Matteo Inches e Nastasja Geleta, dove la struttura in beton si assimila direttamente al manufatto, lasciando emergere lo scheletro osseo con il leggero arretramento del tamponamento in sottile lamiera microforata. La sovrapposizione degli alloggi viene interpretata come una serie di vassoi resi continui dalla prevalenza visiva dei pilastri sagomati a triangolo, quasi una reminiscenza di certe strutture per parcheggi dei milanesi anni Sessanta come l’autorimessa dell’arch. Tito B. Varisco e dell’ing. M. Guerci in via De Amicis a Milano (1948-1949). Un gesto abbastanza coraggioso che stressa al limite la naturale ritrosia del senso comune verso forme ritenute poco consone agli stereotipi di una tradizione passiva, ma ritrova proprio per questo uno spazio d’azione che dà un significato propulsivo all’insegnamento della scuola.

Assistente per qualche anno dei fratelli Aires Mateus nei corsi di diploma, l’argentino Otto Krausbeck ne ha recepito la lezione del volume come strumento primario per il carattere dell’architettura: la casa torre d’angolo a Mendrisio è perentoria nel definire la condizione urbana dell’angolo e la dimensione pubblica di un edificio che vuole essere una vetrina sociale delle attività che svolge la Fondazione Paolo Torriani. Un edificio austero e al tempo stesso aperto agli sguardi dalla strada come un vero centro d’accoglienza con gli spazi della libreria e della tea room. Parte di un programma sociale e architettonico più ampio che si svolge come un campus dentro la cittadina, la torre insegna un modo d’uso collettivo dello spazio pubblico, determinando una sorta di marciapiedi allargato che funziona da piazza-sagrato, arrivando ad includere lungo i lati interni una sistemazione a giardino.

Austera e al tempo stesso incisiva nella sua lezione urbana la casa a Mendrisio di Guy Muntwyler, dietro la cui apparenza laconica si manifesta una proposta di metodo sulla funzione dell’edilizia residenziale nel rinnovamento controllato dello skyline della città.

Con la stereometria di un grande cubo a sezione rastremata, la Banca Raffeisen a Savosa, tra le colline del Ceresio, di celoria Architects aspira a diventare il centro significativo del paese, ribaltando l’idea della banca come forziere chiuso in quella di una nuova piazza, a congiunzione del centro edificato e l’intorno rurale. Una positura «rinascimentale» al di sopra di uno zoccolo-piattaforma rinforza la giacitura della costruzione in testa al corso San Gottardo: lo sviluppo trasparente dei piani funge da calibratore della funzione privata degli uffici, conferendo all’edificio il ruolo di lanterna urbana.

La pratica dell’architettura anche in un ristretto contesto come quello del Cantone Ticino richiede al progettista una notevole flessibilità e adattabilità alle richieste della committenza, rendendo necessari continui processi di negoziazione che – diversamente da quanto accade nelle esercitazioni della scuola – non sempre consentono la piena esplicazione di una chiara e innovativa visione. Non di meno, la validità di un metodo e l’affinamento di una sensibilità a percepire o intuire le scappatoie dietro i vincoli del contratto, costituiscono la prova del fuoco della professione nel suo senso più nobile: quello cioè di professare l’appartenenza a una cultura sociale del progetto. Può così accadere che anche tempi apparentemente ostici a una rielaborazione al di fuori di certi schemi – come le istituzioni funerarie, ad esempio – possano rivelarsi vie d’uscita impreviste verso la riqualificazione dell’ambiente. Il Crematorio di Chiasso di studio andreani architetti ne è una perfetta dimostrazione: la scelta dell’area, al centro di due viali ortogonali, dà consistenza all’interfaccia tra la città dei morti e quella dei vivi, facendosi occasione di una piazza coperta e di centro di accoglienza. La nettezza della stereometria riflette l’austerità del tema che ne risulta più che definito, enfatizzato: un grande portale che accoglie e offre riparo, grazie anche all’invenzione dei due patii alberati laterali che danno spazio alla consolazione del dolore.

Di altro tenore invece la casa funeraria di Bellinzona degli argentini, trapiantati in Cantone, Alberto J. Fresco e Juan M. Campopiano (LOKOMOTIV.archs office): qui a prevalere è la piegatura del rivestimento in sottili lastre di cemento: un origami inaspettato che conferisce alla costruzione il tono di una indecifrabile macchina urbana. Un oggetto introverso, all’esterno ermetico come un guscio d’uovo e all’interno articolato in spazi di raccoglimento e di cerimonia culminanti nella sala da commiato, confortata dall’illuminazione diffusa che cola dal lucernario.

Case e residence, uffici, cimiteri, scuole, edifici pubblici e privati si dispiegano come una irregolare costellazione di punti, ora forti, ora flebili su un territorio di densi brani urbani e di estesi squarci naturali: dietro ognuno si nasconde una storia e una visione irriducibili a un unico denominatore. In altri tempi si sarebbero chiamati segni di un regionalismo critico incaponito a declinare su basi locali spiriti vaganti nel mondo internazionale del progetto. Ora questa indicazione si rivela insufficiente a comprendere lo sminuzzarsi di un pensiero sempre più diffuso e particolareggiato, dietro il quale è difficile ricostruire una trama forte e dominante.

 

Qui sono pubblicati i profili dei 12 studi selezionati da Archi 2/2019.

 

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