Um­berto Riva: forme senza fine

Una figura geometrica ricorre nelle opere di Umberto Riva, tra gli ultimi eredi di quella generazione che inventò l’architettura moderna e allo stesso tempo la mise in discussione. La si intravede in lampade, finestre, corti, opere a pastello. Gabriele Neri si mette sulle sue tracce.

Date de publication
10-05-2021
Gabriele Neri
Dott. arch. storico dell'architettura, redattore Archi | Responsabile della rubrica 'Paralleli' per Archi

«Alle volte mi sembra di fare sempre lo stesso progetto», ripete spesso Umberto Riva, architetto classe 1928, Medaglia d’oro alla carriera della Triennale di Milano, tra gli ultimi eredi diretti di quella generazione che inventò l’architettura moderna e allo stesso tempo la mise in discussione. Molti sarebbero gli esempi per avvalorare tale affermazione. Dalla pittura al design, dagli edifici agli interni, dagli allestimenti agli spazi pubblici, la sua opera mostra la continua e ostinata esplorazione di un personale universo geometrico e progettuale, da oltre sessant’anni.

Un dettaglio, tra i tanti, ci colpisce: una figura ricorrente che troviamo cristallizzata nel paralume di una sua lampada (la E63, del 1963) e che poi riapparirà alle scale più diverse. Una leggenda familiare (smentita categoricamente) fa derivare la lampada dal ritratto di una vecchia zia – incurvata come il paralume – eseguito in giovane età. L’origine dovrebbe invece essere individuata nei primi esperimenti nel campo dell’arredo, intorno al 1960: una chaise-longue in giunco, ad esempio, in cui le linee sinuose preludono a quella forma.

Mancava però un passaggio fondamentale: in poco tempo, le curve neoliberty lasceranno il posto prima alla fascinazione per l’angle droit di Le Corbusier e Kahn, poi a un’inquietudine fatta di diagonali, angoli acuti e linee spezzate. Si sarebbe allora tentati di intravedere in questa figura una sorta di «cicatrice» formativa, memoria di due tracce: l’espressività della linea fin de siècle (alternativa alla rigidità del Moderno) e un espressionismo d’altro tipo, basato sulla triangolazione, che Riva non abbandonerà più. Che cos’è tale figura, se non un triangolo con l’ipotenusa incurvata?

Intorno al 1965 il paralume diventa architettura. Riva lo utilizza per disegnare una stranissima finestra nel suo appartamento in via Paravia a Milano (1965-1967). In pianta il profilo è lo stesso; in alzato questo «cuneo» è una sequenza di serramenti che formano una specie di serra affacciata sul balcone inaccessibile, che diventa una grande lampada di cemento.

Impiegata anche nelle lampade Lem e Dilem (1973-1975), nel Bar Sem (1975-1977) e in Casa De Paolini (1985), la figura ricomparirà a ben altra scala negli anni Novanta. Casa Miggiano a Otranto (1990-1996) presenta una corte della stessa forma, che penetra nel sedime dell’abitazione rompendone l’elementarità. Ini­zia­ta alla scala dell’arredo, la peregrinazione della forma continuerà nell’attività pittorica. Nelle opere a pastello degli anni Novanta riemerge in pezzi (triangoli a fianco di ogive, nella serie Specchio di Narciso) o in forma coesa (Ventaglio di Géricault, 1994-1996), riprendendo vecchi esperimenti (Nello Spazio, 1976), di recente trasformati in tappeti.

In questa reiterazione della stessa geo­metria, è quasi paradossale sottolineare come in realtà la forma – intesa nel suo apparire sensibile – sia per Riva un punto d’arrivo, e non di partenza, anche perché all’individuazione di una traccia dovrà necessariamente seguire l’incontro con la tecnica e la materia, che la trasformerà in spazio, luce, emozione. Quando gli chiedo di questo passaggio, Riva sottolinea un momento critico, che lo affascina e impegna ogni volta: la risoluzione del punto in cui si incontrano l’arco di cerchio e la retta inclinata. Un luogo geometrico che si carica delle tensioni di una vita.

«Alle volte mi sembra di fare sempre lo stesso progetto», ripete Riva, ma in realtà fa sempre qualcosa di diverso, affrontandolo con lo spirito di Samuel Beckett: «Try again. Fail again. Fail better».

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