Tra l'in­cu­dine e il mar­tello

Intervista a Nicola Colombo, fabbro e «tecnico d'arte» ticinese

Nicola Colombo, fabbro e «tecnico d’arte» ticinese, ha le idee molto chiare a proposito del suo lavoro. Dal 1993 lavora il metallo rispettando un approccio progettuale basato sulla logica dell’assemblaggio, per cui tutto sta nel modo in cui ogni singolo elemento costruttivo – una piattina di ferro, un bullone, un pezzo di lamiera – dialoga con l’altro, dando forma a complementi d’arredo, cancelli, porte, lampade, scale, balconi, scenografie e molto altro. Gli abbiamo chiesto di raccontarci qualcosa di più sulla sua professione e sui «meccanismi» che escono dalla fucina di Bellinzona.

Date de publication
17-12-2013
Revision
12-10-2015
Gabriele Neri
Dott. arch. storico dell'architettura, redattore Archi | Responsabile della rubrica 'Paralleli' per Archi

Gabriele Neri: Come ti sei avvicinato a questo lavoro?
Nicola Colombo: Di formazione sono quello che oggi viene chiamato «polimeccanico», ovvero colui che impara a leggere i disegni tecnici e a costruire dei pezzi mediante la lavorazione meccanica. Potrei definirmi un «figlio della lima» (ride)… perché la lima è stata il mio primo utensile, con tutte le sue conseguenze: la fresatrice, il trapano a colonna, il tornio eccetera. La mia prima formazione è dunque quella di uno che avvita e fa degli incastri… Successivamente invece ho lavorato per due anni a Carrara, da uno degli ultimi fabbri «integralisti» d’Europa, e così sono passato dall’officina tecnologicamente avanzata del polimeccanico a quella del fabbro, dove gli strumenti principali sono la forgia, l’incudine e il martello. Questa seconda formazione è stata fondamentale per l’avvio della mia attività… il lavoro di forgiatura è infatti fantastico, perché assomiglia a una danza con i quattro elementi della natura: terra, aria, fuoco e acqua, gli elementi con cui lavora tutti i giorni il fabbro forgiatore.

Quindi come definisci la tua professione?
Mi definisco un «fabbro», ma nel senso di «faber», «fabbricatore»… anche se quando la gente sente questo termine mi chiede di riparare la porta del garage, oppure confonde la figura del fabbro con il maniscalco o con il metalcostruttore. Per il mio biglietto da visita ho però trovato anche un’altra definizione comoda: «tecnico d’arte»…

Qual è il tuo approccio nei confronti della tecnica? 
Dal mio punto di vista, il meccanico costruisce degli ingranaggi e mette insieme dei meccanismi. L’introduzione generalizzata della saldatura ha invece contribuito a banalizzare il concetto dell’assemblaggio – che per me rimane fondamentale –, facendo diventare apparentemente tutto possibile. Io invece, non avendo la conoscenza del saldatore e del metalcostruttore ho scelto di concentrarmi sulla definizione dei dettagli costruttivi e sulla loro ricomposizione: realizzo dei meccanismi che sono statici, ma che partono con l’idea della meccanica.

In che modo nasce un progetto?
Come artigiano, ovviamente, parto sempre da una richiesta. Ad esempio per il soppalco «Fernando» (vedi Foto, Foto) mi sono trovato di fronte a una situazione complicata, e il disegno è venuto strada facendo. C’erano problemi di altezze, di appoggi (un lato doveva rimanere libero, per guardare il lago) e inoltre il luogo – la casa è ubicata tra le strette stradine di Gandria – poneva problemi logistici di trasporto del materiale. Per questo ho deciso di utilizzare delle semplici lamiere piegate da 3mm, da assemblare sul posto: tutti pezzi singoli trasportati a mano. Il vantaggio di questo sistema «meccanico» è infatti quello di poter costruire i singoli ingranaggi e poi di montarli in opera. In questo caso avevo anche in mente la lezione di Jean Prouvé, il cui lavoro per me è stato una scoperta…

Oltre a Prouvé, chi altri ha influenzato la tua maniera di lavorare?
Sicuramente Carlo Scarpa, che non era né fabbro né meccanico, ma aveva di fianco a sé maestranze eccezionali con cui ha saputo instaurare una collaborazione ottima. Ho visto dei lavori di Scarpa che in sé sono quasi folli, maniacali.

Dettagli bizantini…
Sì, dettagli che erano già fuori dal tempo nell’epoca in cui sono stati fatti. Lavori che, specie quando usa il metallo, mi dicono tantissimo. Recentemente ho poi visto il lavoro di Studio Mumbai, dove il dettaglio raggiunge livelli altissimi, ma lì siamo in un altro contesto…

Puoi descrivere il tuo rapporto di lavoro con gli architetti?
Uno dei miei primi lavori – una croce funeraria chiamata «Girasole» – l’ho fatto con Fabio Reinhart, e lì ho capito come sedersi assieme al tavolo con l’architetto sia fondamentale. Ci sono state litigate furiose, ma anche molto ascolto e dialogo. Lui disegnava con penna e matita, e io provavo a replicarlo «disegnando» con il martello: le foglie, gli steli, la croce, eccetera. Da questi primi abbozzi si proseguiva per migliorare e sviluppare il progetto. È un modello di collaborazione molto difficile, ma che dà i suoi frutti. Il mio approccio necessita infatti di un dialogo continuo e serrato, anche faticoso, che a volte l’architetto non è disposto ad accettare. Molto spesso mi sento dire: «al giorno d’oggi non possiamo più permetterci di disegnare tutto in maniera così dettagliata»… Inoltre, gli architetti devono far fronte a una mole incredibile di normative legate alla sicurezza, e per questo un approccio non standardizzato come il mio a volte spaventa architetti e ingegneri. Ma alla fine, il risultato di un simile dialogo ricompensa ogni sforzo.

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