Ar­chi­tet­tura e po­li­tica

Editoriale archi 06/2014

Dappertutto enormi schegge, punte aguzze, piani inclinati, superfici sghembe... Ora le proposte e il consumo di forme sono diventati enormi, frastornanti e disorientanti, quasi ci trovassimo in un grande supermercato dell’architettura, dove colori, luccicori, barbagli ci avvolgono da ogni parte senza remissione. (Tita Carloni, 2004)

Date de publication
22-12-2014
Revision
08-10-2015

Alle frasi sopra richiamate, che scrisse a proposito delle opere esposte alla Biennale veneziana del 2004, Tita Carloni aggiungeva che quelle architetture così di moda non erano in generale durature, che sarebbero sopravissute al tempo solo con «una manutenzione continua, con apporti di energia straordinari, con strutture e impianti che devono essere sorvegliati in permanenza, anche con apparecchiature automatiche, pena il sopraggiungere lento o improvviso di guasti costosi...».

Alla rilettura di queste riflessioni, non ho potuto fare a meno di pensare all’immagine, pubblicata sulla copertina di «Tracés» 21/2014, del dito medio alzato da Frank Gehry durante un recente dibattito, come risposta a un interlocutore critico che gli chiedeva conto della sostanza spettacolare della sua architettura. La relazione tra lo scritto di Carloni e quell’immagine non deriva solo e tanto dal fatto che Carloni si riferiva proprio alle opere di architetti come Gehry, quanto a considerazioni sulla radicale, opposta diversità dello stile degli uomini, della loro etica, del loro concetto di relazione tra il mestiere e la società.

Per capire dove vorrei portare l’attenzione del lettore, lo invito – se ancora non lo ha fatto – a leggere il Diario dell’architetto di Paolo Fumagalli, un testo che voglio considerare a tutti gli effetti come parte integrante del tema di Archi 6/2014 dedicato a Tita Carloni, e cioè della questione della relazione tra architettura e politica. Il tema, in generale, è tra i più complessi e importanti, ma quello che ci interessa qui e oggi è l’urgenza di recuperare a un impegno pubblico di esercizio della critica gli architetti e gli ingegneri, di portarli fuori dai loro studi e dai loro cantieri.

Il modello di sviluppo edilizio dominante, che sotto gli occhi di tutti sta sconvolgendo la geografia e il paesaggio dei fondovalle ticinesi, disseminandoli di edifici senza un progetto, viene difeso da coloro che ne traggono profitto e che contano sulla solidarietà di altri – ancora moltissimi, una maggioranza – che per ignoranza si sono fatti irretire dall’attesa illusoria di partecipare in qualche modo delle briciole di quel profitto o che utilizzano i vantaggi, anch’essi illusori, di quel modo di abitare a spese della collettività, che regge questo modello pagando costi molto alti. Ci sono, tra questi ultimi, tanti esponenti delle generazioni più giovani, che rifiutano di abitare in città, o comunque in condizioni di densità più elevata, perché nessuno gli ha ancora dimostrato che sono possibili modi di abitare alternativi alla casetta isolata, modi che consentano di soddisfare la domanda di privatezza, di relazione con il verde, di distribuzione innovativa e di costi inferiori. E che non sono veramente consapevoli delle spreco di risorse che lo sviluppo diffuso comporta, risorse sottratte agli impieghi sociali e culturali, a favore di tutti.

Chi può partecipare con qualche efficacia a questa battaglia pubblica squisitamente culturale, per spostare il consenso da un campo all’altro, se non gli architetti e gli ingegneri, con la loro ricerca, i loro progetti, e con la loro colta partecipazione al confronto pubblico su questi temi? Questa è la politica.

La storia di Tita Carloni è un esempio di questo impegno. Certo, Carloni, in una parte della sua vita, è stato anche impegnato in politica in senso più completo e professionale, come membro di un partito e come eletto nel Gran Consiglio, ma vogliamo qui riferirci alla sua attività di cittadino architetto, di architetto cioè sempre consapevole dell’effetto e delle conseguenze del suo lavoro sul territorio, e alla sua intensa attività di partecipazione a ogni questione dibattuta, con gli scritti e con la parola.

La partecipazione alla vita politica – nel senso della partecipazione civile, della cittadinanza attiva, di cui abbiamo accennato – e l’esercizio della riflessione, la produzione di un pensiero civile nel contesto del quale prende forma il progetto, conferisce significati e qualità al medesimo progetto. L’esercizio della capacità di comprensione della realtà che il progetto va a modificare è un plusvalore del processo progettuale. La Casa del Popolo, realizzata da Tita Carloni in via Balestra a Lugano nel 1970-1971, è un’opera la cui straordinaria urbanità, alimentata dalla ricchezza di riferimenti, non deriva soltanto dalla cultura architettonica dell’autore, ma anche dalla sua capacità – acquisita nella sua attività politica – di mettere in relazione attiva e creatrice l’esperienza del carattere della città, di come si è formata, attraverso quali contraddizioni e conflitti, con la conoscenza e l’esercizio della disciplina e della cultura della costruzione.

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