Im­pres­sioni dalla mos­tra «Dia­lo­ghi» di Hé­lène Bi­net

Date de publication
15-04-2015
Revision
19-08-2015

La mostra «Hélène Binet, Dialoghi», allestita fino al 12 aprile nello spazio della Galleria dell’Accademia di architettura dell’Università della Svizzera italiana a Mendrisio, e a partire dal 2 giungo al Bauhaus-Archiv di Berlino, costituisce la prima retrospettiva dedicata a una protagonista assoluta della fotografia di architettura, da poco insignita del prestigioso premio Julius Shulman a Los Angeles. L’esposizione, concepita dalla stessa Hélène Binet, offre la documentazione di venticinque anni di attività attraverso 81 stampe di diversi formati, per lo più in bianco e nero.

Come rileva Juhani Pallasmaa nella pubblicazione a corredo della mostra, di fronte alle immagini proposte si evince che «Hélène Binet non cerca di documentare la struttura architettonica nella sua compiutezza fisica o nel suo contesto, aspira piuttosto a evocare l’atmosfera e l’ambiente creati da ogni particolare edificio». L’intento della fotografa di esprimere la qualità compositiva dello spazio, si declina attraverso una sensibilità che a livello stilistico tende a interpellare l’oggetto secondo prospettive inconsuete, privilegiando alla visione di insieme l’attenzione al singolo dettaglio. Colta da uno sguardo fortemente selettivo, ogni sua inquadratura si rivela una chiave d’accesso possibile a una nuova ermeneutica dello spazio costruttivo, filtrata dalla personale interpretazione dell’autrice.

Gli scatti presenti nell’esposizione (che sarà riproposta presso il Forum Schlossplatz di Aarau) sono inseriti in un percorso che si articola in quattro diversi parallelismi. L’itinerario ha inizio con il confronto fra l’architettura di Peter Zumthor e quella di Sigurd Lewerentz basato sul rapporto tra le superfici degli edifici e i rispettivi contesti; si prosegue con «l’energia geologica» dei progetti di Zaha Hadid messa in relazione con la fisionomia delle montagne svizzere e del deserto cileno. Gli edifici religiosi del tardo Le Corbusier sono poi associati all'osservatorio settecentesco Jantar Mantar di Jaipur, in una lettura che pone al centro il ruolo dell’ombra; l’ultimo accostamento avvicina infine le opere berlinesi di John Hedjuk all’«Umlauftank II» di Ludwig Leo.

L’unitarietà dell’allestimento dello spazio espositivo, l’assenza di rilevanti soluzioni di continuità tra gli accostamenti binari e la mancanza di una direzionalità particolarmente marcata del percorso suggeriscono al visitatore una fruizione aperta, decisamente non vincolata delle fotografie. Egli dunque è portato a transitare liberamente da un gruppo di stampe all’altro, all’interno di un contesto in cui coabitano immagini appartenenti a un ampio catalogo di soggetti, ritratti attraverso un repertorio linguistico decisamente eterogeneo.

L’effetto complessivo è quello di un autentico caleidoscopio di immagini, al di fuori del quale difficilmente si sarebbero potute riconoscere analogie formali tra le ombre gettate dai riquadri del convento di Santa Maria de la Tourette di Le Corbusier e quelle proiettate sulla facciata della Kreuzberg Tower di John Hejduk; oppure tra la veduta dall’alto della scala presente nel medesimo edificio di Hejduk e la cupola della cappella di San Nicolao della Flue vista dal basso. In questa nuova dimensione antologica, infatti, fotografie fra loro irrelate in quanto relative a costruzioni differenti, partecipano coralmente alla costituzione di una testualità inedita e multiforme. Un fenomeno di straordinario interesse sia per lo studio dei soggetti architettonici ritratti, sia per l’indagine della poetica visiva di Hélène Binet.

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