Il progetto urbano interrotto
Le case moderne di Bianconi nella periferia di Bellinzona
«…l’urbanistica ufficiale moderna è piuttosto intenta a soddisfare la gran massa di interessi ed esigenze individuali che ad occuparsi in primo luogo dei grandi problemi in comune». Roberto Bianconi, 1975
Gli architetti che, negli anni Settanta, hanno costruito la modernità in Ticino, nonostante le differenze dei loro linguaggi e delle loro ricerche, condividevano alcuni concetti fondamentali che hanno consentito alla critica di parlare di architettura ticinese. Uno di questi era la tensione per l’urbanità, tensione che Luigi Snozzi aveva magistralmente sintetizzato nel suo aforisma più noto: quando progetti un sentiero, una stalla, una casa, un quartiere, pensa sempre alla città. Lo scenario immaginato dagli architetti più attenti al territorio prefigurava che la domanda di abitazioni indotta dallo sviluppo economico producesse il consolidamento e l’ingrandimento delle piccole città ticinesi, come era già avvenuto nelle altre città. Non avevano previsto che le nuove abitazioni unifamiliari – che molti di loro progettavano sulle colline intorno alle città per la giovane borghesia protagonista di quella fase economica – sarebbero diventate un modello condiviso da tutti i ceti. Non avevano previsto che le compagini edilizie dei vecchi centri delle città rimanessero tali, e che la densità delle loro espansioni si riducesse fino a formare vaste periferie di piccole case. D’altra parte la cultura politica, che pure aveva ispirato grandi programmi di investimento nell’edilizia scolastica e, in generale, nelle infrastrutture pubbliche necessarie a sostenere lo sviluppo economico, ha promosso – riguardo al tema del governo del territorio – le tendenze più liberiste, rinunciando a indirizzare lo sviluppo verso l’uso parsimonioso delle risorse, e a favorire quindi la densificazione edilizia dei suoli delle città, già dotati delle reti e dei servizi.
Il più significativo dei progetti di sviluppo urbano dei tempi moderni, il piano di ampliamento di Locarno, progettato dall’ing. Giovanni Rusca alla fine del XIX secolo, prevedeva di sviluppare la città nella piana a sud di piazza Grande ordinando l’edificazione in isolati, sull’esempio di quanto avveniva nella grandi città di tutta Europa. Il piano, anche allora, fu poi tradito con la costruzione – nei lotti disegnati per fare città – di ville e giardinetti, e comunque di edifici di consistenza insufficiente a realizzare l’effetto urbano immaginato. La profonda contraddizione tra la cultura degli architetti e dei circoli intellettuali più aperti e progressivi – che consideravano la città come il modo più evoluto di abitare – e la cultura politica e degli investitori finanziari e immobiliari – che ha invece assecondato l’avversione per la vita cittadina e la fuga verso la campagna – ha segnato profondamente il pensiero architettonico della modernità ticinese.
Il progetto delle case di Roberto Bianconi, costruite nel 1972 nella periferia nord di Bellinzona, rappresenta con particolare forza espressiva questa contraddizione. Un’architettura interrotta, un’idea di città che non si è concretizzata, lasciando sola sul terreno un’opera esemplare di architettura urbana, che non può esercitare le relazioni con gli altri edifici cittadini per le quali la sua forma è stata attrezzata. Lo spaesamento, che questi bellissimi edifici bianchi provocano nel visitatore, è intenso e poetico. Il contrasto tra la visione di un modo nuovo di abitare collettivo, tra la necessità di fare città che si avverte in quelle mura, e la realtà effettiva del paesaggio circostante che invece la nega, provoca una tensione che mette in moto pensieri sul senso del mestiere. L’effetto emozionale è moltiplicato dal fatto che le case di Bianconi sono colme di cultura architettonica, sono un deposito di immagini di quelle opere fondative della modernità che abbiamo studiato, che ci hanno emozionato e che accompagnano il nostro lavoro, sul fondo della memoria. Dalla attenta analisi che Paolo Fumagalli ha tracciato dei suoi riferimenti culturali, emerge l’altro moderno di Bianconi. Fumagalli parla, infatti, di un’architettura che va per conto suo, rispetto a quelle più conosciute degli anni Settanta.
La costruzione collettiva della modernità ticinese è formata da personalità molto diverse. Gli architetti più noti hanno utilizzato i riferimenti ai maestri europei della modernità e li hanno rielaborati in forme originali, producendo architetture altre e nuove rispetto ai riferimenti che li hanno generati e che soltanto la critica più attenta sa ancora riconoscere. Bianconi ha seguito un altro percorso: ha utilizzato le invenzioni formali del Neues Bauen, dei maestri olandesi, del primo Le Corbusier, e le ha riprodotte nelle sue opere riuscendo a rigenerarne la forza espressiva e la tensione poetica determinata dalla visione di una nuova città, anche se espressa in un contesto del tutto diverso. È possibile che la minore fortuna critica di Bianconi sia dipesa proprio dalla mancanza di quel «realismo», che gli altri sono stati invece capaci di adottare con una materializzazione adeguata al nuovo contesto e alla sua storia.