Grat­ta­ca­pi ar­chi­tet­to­ni­ci

Data di pubblicazione
26-10-2023
Gabriele Neri
Dott. arch. storico dell'architettura, redattore Archi | Responsabile della rubrica 'Paralleli' per Archi

Sono ben note le seccature che due dei più celebri edifici del Novecento – il Guggenheim di New York e la Sydney Opera House – diedero ai loro progettisti. Frank Lloyd Wright fu osteggiato da ogni parte per la bizzarra forma del suo museo, che negava fieramente l’edilizia convenzionale newyorkese. Jørn Utzon, qualche anno dopo, fu addirittura costretto a dimettersi per questioni economiche (costi lievitati), politiche (il nuovo governo criticava lo spreco di risorse del precedente) e strutturali (tribolarono a lungo, lui e Ove Arup, per far stare su quella fantasia).

Eppure, le due architetture sono presto diventate parte inscindibile delle rispettive città, loro simbolo e marchio distintivo, come dimostra la traduzione di quelle inconfondibili silhouette in ogni tipo di cartolina, gadget, souvenir e persino… cappello. Dal grattacapo al copricapo, insomma, come raccontano gli esempi che qui riportiamo.

Il «Guggenheim hat» fu disegnato nel 1960 da Sally Victor, nota modista americana. Nata a Scranton, Pennsylvania, Sally si trasferì da bambina a New York dove la zia aveva un negozio di cappelli, che la piccola cominciò a cucire per le sue bambole. A diciotto anni fu assunta nel reparto cappelli nei grandi magazzini Macy’s, prima di sposare Sergiu Victor, direttore della fabbrica di Serge, di cui diventò head designer (in tutti i sensi). Nel 1934 fondò la sua etichetta personale, con sede sulla East 53rd Street, che ne decretò il successo: le sue creazioni furono indossate dalle stelle di Hollywood, dalle First Ladies Mamie Eisenhower e Jacqueline Kennedy, e pure dalla regina Elisabetta II.

Il cappello ispirato al Guggenheim dimostra i suoi ampi riferimenti, che andavano dall’arte orientale a Henri Matisse, da Mondrian ai nativi americani. Oggi parte della collezione del MET, il copricapo è fatto di paglia: mentre le forme riprendono alla lettera la spirale del museo, il colore se ne distacca visibilmente, così come l’effetto materico. Fu il fotografo Tony Vaccaro a scattarne il ritratto più efficace, con una modella in posa davanti al capolavoro di Wright un poco sfocato per sottolineare il dialogo di vuoti e pieni tra il colosso di cemento e il cappellino.

Alla Sydney Opera House venne invece dedicato più di un copricapo, ognuno ispirato alla selva di vele spiegate al vento che sembrano costituire le coperture dell’edificio australiano. Tra i tanti ne ricordiamo due. Piuttosto elegante è l’Opera House Hat, del modista Peter Morton, finito sulla copertina di The Australian Women’s Weekly nel 1962, quando il progetto dell’edificio era ancora in alto mare (sarà inaugurato nel 1973). Il cappello dimostra perciò come l’immagine dell’Opera fosse già entrata nell’iconografia popolare molto prima che la sua sostanza venisse concretamente realizzata.

Il secondo cappello australiano è invece del 1976, quando l’edificio era ormai una «icona» nota in tutto il mondo, simbolo inconfondibile del remoto continente. Fu indossato dall’attore australiano John Barry Humphries nelle vesti di Dame Edna, celebre personaggio da lui inventato, coi capelli lilla e vistosi occhiali. Nata nel 1956 (proprio l’anno del concorso per l’Opera) come parodia della casalinga della suburbia australiana, Edna si è aggiornata progressivamente ai fenomeni sociali del tempo, diventando famosa grazie alle sue performance nella Londra degli anni Sessanta.

La signora lo sfoggiò in occasione di una corsa di cavalli ad Ascot, tra i più consueti cilindri e cappelli a tesa larga vestiti dall’aristocrazia britannica. Un’immagine la ritrae mentre ostenta l’esuberante copricapo, con sorriso compiaciuto ma anche con i segni visibili dello sforzo fisico per tenere sulla testa, un giorno intero, una simile struttura.

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