La scuo­la di Men­dri­sio. Un pro­get­to

Intervista a Marco Della Torre

La mostra presenta i lavori della comunità didattica ma allo stesso tempo vuole essere un’opportunità per riflettere sulla natura dell’insegnamento dell’architettura e sul futuro dell’Accademia di Mendrisio. In una intervista Marco Della Torre, curatore assieme a Manuel Orazi, spiega il senso di quanto esposto al Teatro dell'architettura.

Data di pubblicazione
11-06-2024

Dei giovani arrivano all’Accademia, vogliono diventare architetti, vogliono scoprire se hanno le inclinazioni e le capacità per diventare tali. Cosa trasmettiamo loro anzitutto? Dapprima dobbiamo loro spiegare che non hanno di fronte un docente che pone delle domande di cui conosce già le risposte. Fare architettura significa porre delle domande a se stessi; significa avvicinare, accerchiare, trovare la propria risposta con l’aiuto del docente. E sempre di nuovo”.  

P. Zumthor, Insegnare l’architettura, imparare l’architettura. Conferenza scritta nel settembre 1996, Accademia di Architettura di Mendrisio.

Queste parole ci aiutano a cogliere ed evidenziare lo spirito e l’attitudine di insegnamento che hanno animato, in tutti questi anni, dalla sua fondazione, l'Accademia di architettura dell’Università della Svizzera Italiana di Mendrisio. Da due mesi il Teatro dell’architettura ospita una mostra che presenta i lavori della comunità didattica ed allo stesso tempo, vuole essere un’opportunità per riflettere sulla natura dell’insegnamento dell’architettura e sul futuro dell’Accademia.

Nella mostra si tratteggiano i principi che hanno guidato la formazione di alcune scuole del secolo scorso, importanti punti di riferimento per i programmi didattici del XXI secolo ed anche per quelli pensati per la nascita dell’Accademia, nel 1996, dai fondatori Mario Botta ed Aurelio Galfetti.

Gli insegnamenti e le attività che vengono svolti all’interno del campus di Mendrisio sono tutti finalizzati, nella loro varietà, alla formazione di nuove generazioni di architetti secondo un’impronta didattica umanistica, di trasmissione dei saperi disciplinari, specifica ed inedita. Un progetto innovativo e sperimentale sapientemente impostato dai fondatori, dove gli atelier di progettazione sono affiancati dallo studio di discipline storico-umanistiche, di cultura del territorio e tecnico-scientifiche.

La mostra è curata da Marco Della Torre e Manuel Orazi. Per addentrarci ulteriormente sul senso della mostra abbiamo rivolto alcune domande a Marco Della Torre.

L’auspicio è che queste occasioni costituiscano un meccanismo propulsore per motivare ed avere sempre più consapevolezza del ruolo cruciale della formazione per la disciplina architettonica nel presente e nel tempo che verrà.

Manuel Bellagamba: Nella mostra si tratteggiano in sintesi i principi che hanno guidato la formazione di alcune Scuole del secolo scorso. Nello specifico, quali sono - secondo voi - gli elementi ed i programmi che maggiormente si riflettono e son stati ripresi per l’impostazione didattica dell’Accademia? Come eventi collaterali alla mostra ci sono conferenze a tema sulle scuole di architettura presentate, per esempio lo I.U.A.V. o la Scuola di ULM. Quali le affinità?

Marco Della Torre: Non tutte le scuole presentate all’inizio del percorso espositivo si possono necessariamente riferire direttamente a ciò che poi è stato introdotto con il programma formativo dell’Accademia di architettura a Mendrisio. La mostra ha come obiettivo primario quello di esporre il lavoro prodotto dagli studenti dell'Accademia durante l’anno accademico passato. Abbiamo comunque voluto intendere l’occasione espositiva come opportunità per indurre a una riflessione sulla natura dell’insegnamento in architettura e quindi anche sull’essenza della scuola stessa.

Nella prima sezione della mostra sono stati introdotti in sintesi i principi che hanno sostenuto le scuole di architettura che nel secolo scorso proposero percorsi formativi alternativi ai due principali modelli di riferimento allora vigenti e tra loro inconciliabili, ovvero quelli offerti dall’École polytechnique e dall’École des Beaux-Arts, entrambe latrici di programmi di fondazione e tradizione francese: percorsi che sono in seguito stati introdotti ovunque in Europa e oltre oceano. Da una parte il modello per una uniforme preparazione scientifica e dall’altra, quello di stampo umanistico e artistico. Se già Le Corbusier si era scagliato contro quei modelli di percorsi formativi, sarà poi la Bauhaus a Dessau a metterli in discussione offrendo nuove metodologie di insegnamento. La scuola di Gropius fu chiusa nel 1933 per le note questioni. Molti insegnanti si trasferirono negli Stati Uniti portando con sé le nuove esperienze didattiche sviluppate a Dessau. A Chicago Ludwig Mies van der Rohe, dovendo riprogrammare l’Illinois Institute of Technology, ribadiva l’intenzione di uscire dall’accademismo stilistico, ‘Non gli impartiamo soluzioni, ma cerchiamo di insegnare agli studenti i mezzi per risolvere i problemi’: l’Accademia ha sicuramente guardato in passato come ora a quella intenzione.

Presso la Hochschule für Gestaltung di Ulm, il cui motto “Dal cucchiaio alla città” era tornato in auge per ri-democratizzare la Germania nel dopoguerra, sotto la direzione di Max Bill, le discipline erano raggruppate intorno ad argomenti come il design industriale, la comunicazione visiva, la costruzione, l’informazione e il cinema. Il lato umanistico della scuola era dunque bilanciato con quello tecnico non secondo una antitesi, ma piuttosto secondo una sintesi armonica o, meglio, ‘una vera unità plurale’ come Tomás Maldonado ha definito lo stile di Bill. Il bilanciamento tra materie storico-umanistiche e tecnico-scientifiche contraddistingue sicuramente ancora oggi l’offerta formativa dell’Accademia.

Le affinità con lo IUAV sono meno evidenti, però negli anni ‘70 si pose la questione della differenziazione disciplinare e infatti fu la prima scuola a introdurre, sotto la direzione di Carlo Aymonino, i dipartimenti: quello di urbanistica, di analisi critica e storica, quello di progettazione. Polarità che troviamo comunque anche a Mendrisio, con l’Istituto di Storia e teoria dell’arte e dell’architettura, l’Istituto di studi urbani e del paesaggio, le cattedre di Costruzione e Strutture e gli Atelier di progettazione. Allo IUAV la scientificità era garantita dal metodo elaborato insieme con Aldo Rossi e Costantino Dardi fra il 1963 e il 1966 e perfezionato dopo il 1968. ‘Analisi urbana’ indicava un nuovo metodo che consisteva nello studio del rapporto tra morfologia urbana e tipologia edilizia. I ruoli accademici erano ben delineati e distinti. Voglio ricordare che Mario Botta ha studiato a Venezia e nei primi anni di attività dell’Accademia ha invitato a insegnare parte delle personalità della scuola veneziana, come Leonardo Benevolo, Francesco Dal Co, Massimo Cacciari e altri.

Ci sono poi state scuole che hanno promosso per esempio un’idea di partecipazione dove il ruolo degli studenti è stato riconosciuto come rilevante e antagonista rispetto a quello dei maestri. Come la Facoltà di Firenze negli anni della direzione di Leonardo Ricci tra il 1971 e il ’74 e l’Architectural Association di Londra grazie agli impulsi portati tra il 1971 e gli anni ‘80 da Alvin Boyarsky. Fra i tanti illustri ex alunni e docenti di quegli anni a Londra, Rem Koolhaas ricorda che «probabilmente all’Architectural Association la formula era che non c’era una formula».

Fin dalla sua fondazione nel 1967 lo IAUS, l’Institute for Architecture and Urban Studies a New York diretto da Peter Eisenman, doveva rimanere invece indipendente da ogni istituzione accademica, in modo da poter sviluppare una forma unica di struttura didattica, il cui obiettivo era dunque quello di colmare il gap tra ricerca accademica e le reali dinamiche urbanistiche, collocandosi cioè a metà strada tra accademia e professione. Uno strumento aggregante fu senza dubbio la creazione della rivista ‘Oppositions’, dove i contenuti erano filtrati, oltre che dal direttore, da quattro editor europei d’eccezione come Kenneth Frampton, Anthony Vidler, Rafael Moneo e Giorgio Ciucci.

L’intuizione di chiamare delle autorevoli personalità e dar vita ad un nuovo concetto di scuola sicuramente l’avevano avuta anche Mario Botta ed Aurelio Galfetti: e questo appunto hanno fatto, con Leonardo Benevolo, Harald Szeemann, Peter Zumthor, Oliviero Toscani ecc.

MB: Pensate si possa parlare di una “Scuola di Mendrisio” come modo di fare o come punto di vista sul progetto? Anche se gli insegnamenti progettuali non sono mai stati accumunati da un unico approccio linguistico e formale, il tratto comune risulta forse essere una particolare sensibilità interdisciplinare?

MDT: Come è noto a Mendrisio si rivendica sempre la centralità del progetto, cosa che poi si traduce in termini di offerta formativa e nel fatto che ciascun anno di corso il 50% dei crediti formativi (ECTS) vengono raccolti dagli studenti e dalle studentesse negli Atelier di progettazione, dove appunto i differenti saperi disciplinari vengono messi a sistema nel progetto. Per quanto riguarda il tema dei differenti approcci al progetto che portano i differenti docenti di atelier (ci tengo a dire che la questione non riguarda solo i possibili differenti ‘linguaggi’) la tendenza dell’Accademia è sempre stata quella di garantire un interessante pluralismo di visioni e ‘tendenze’. Le studentesse e gli studenti dell’Accademia di fatto possono accedere ogni semestre ad Atelier di progettazione dove vengono sviluppati metodi di trasmissione dei saperi e dunque di pensiero spiccatamente differenti, sempre all’interno di una piattaforma di dialogo e pensiero comune, che in ultima analisi risulta essere la vera ricchezza dell’offerta formativa della scuola di Mendrisio. La sfida delle scuole oggi, in questo periodo storico avviato verso la post-globalizzazione dovrà essere quella di riuscire a comprendere per tempo, ovvero anticipando, la corretta impostazione didattico-formativa da fornire ai futuri giovani architetti.

MB: In un mondo dove gran parte del costruito non sempre è coordinato dagli architetti con chi dialoga l’Accademia? Oltre a questa mostra, cosa si cerca di fare per avvicinare e far capire la qualità del ruolo di architetto? A Milano, per esempio, è in corso la mostra con tutti i lavori di Diploma dello scorso anno accademico concentrati proprio sul capoluogo lombardo: cosa significa mettere in mostra questi lavori che sono delle proposte reali per la città di Milano?

MDT: Il percorso didattico dell’Accademia intende formare architetti che definiamo ‘generalisti’, aperti ad una visione olistica dei possibili approcci alla modificazione dello spazio che ci circonda. Ecco, se la domanda è sulla possibile futura committenza, la risposta è che se la scuola forma ad una capacità critica nei confronti dell'atteggiamento predominante della cultura e del mercato globalizzato, il futuro architetto ‘generalista’ potrà predisporre degli strumenti per indirizzare la committenza, anche con grande consapevolezza, verso scelte utili alle condizioni, al contorno, come anche alle circostanze di produzione locali. 

I lavori di diploma del 2023 esposti a Milano sono progetti carichi di visione e di una giusta dose di utopia e penso sia importante che un ateneo produca progetti all’insegna della ricerca e della sperimentazione, perché l’università è il luogo appropriato per farlo. 

MB: Sempre maggior attenzione sarà posta sul costruito, sul suo recupero e su un uso parsimonioso e cosciente delle risorse. A livello di formazione, questo probabilmente richiede uno sforzo di lettura e di dialogo con l’intorno e con il contesto ancora più raffinato. Quali sono i mezzi dati agli studenti per questo? 

MDT: Sono convinto – e non sono il solo ad esserlo – che la questione del riuso consapevole delle risorse disponibili oggi sia centrale, non solo nella formazione dei futuri architetti, ma di tutti gli individui. Il settore edilizio è il più energivoro dei paesi industrializzati sia in termini di risorse e di materiali utilizzati, sia per i rifiuti e le immissioni dei gas serra che produce. Siamo però anche consapevoli che oggi la ricerca offre possibilità per ridurre il consumo di risorse del pianeta ma anche l’attitudine e il pensiero sono fondamentali: infatti, oltre alle tecnologie, bisogna trovare pratiche olistiche e sostenibili per recuperare e riutilizzare o rigenerare il patrimonio edilizio esistente. In Accademia, per esempio, le tecniche costruttive sono trattate anche da un punto di vista storico, con particolare riguardo alle pratiche costruttive sviluppate nel XX secolo, importanti per comprendere i principi veramente innovativi che le hanno ispirate. Questo permetterà ai futuri architetti di essere in grado di operare in maniera consapevole anche sul patrimonio esistente, su tutta l’edilizia e non solo sulle architetture storicizzate. D’altro canto in Accademia vengono offerti insegnamenti sulle tecniche costruttive più aggiornate, sia a livello Bacherol che a livello Master, come anche quelle legate alla fabbricazione digitale che anche possono permettere una progettualità più consapevolmente sostenibile, senza tuttavia inseguire un approccio puramente tecnicista. A Mendrisio cerchiamo di mettere a disposizione il capitale cognitivo accumulato nei decenni come strumento chiave, ma non univoco, per poter agire in modo più efficace nei metodi di valutazione degli impatti ambientali, di intervento sull’esistente e sulle nuove edificazioni; anche in questo caso la scuola di Mendrisio intende offrire un equilibrio tra saperi, ovvero tra pratiche costruttive tradizionali e istanze contemporanee, tra memoria e presente, tra pratica e pensiero. Queste modalità potranno indicare una strada percorribile non solo a breve termine, ma anche nel lungo periodo. 

La mostra rimarrà aperta fino al 30 giugno 2024. Sono previste visite guidate con i curatori.

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