Ripensare lo spazio pubblico
Quale sarà lo spazio pubblico di domani? In cerca di risposte, Matteo Moscatelli traccia una piccola storia dello spazio pubblico, dall'agorà ai vuoti della città moderna, fino alla ricerca contemporanea della città inclusiva.
Grazie al compimento di alcune trasformazioni urbane di questi anni, il confronto sul ruolo e sul significato dello spazio pubblico è tornato al centro del dibattito contemporaneo. Come facilmente si può rilevare, tuttavia, non sempre gli esiti di questi processi hanno offerto risposte adeguate alla domanda di un luogo di incontro per il vivere quotidiano e, allo stesso tempo, di un’interfaccia flessibile per l’avvicendarsi delle molteplici attività in cui si manifestano le interazioni sociali.
Questi mesi di emergenza sanitaria, oltretutto, non hanno fatto altro che rafforzare la percezione della sua importanza facendoci vivere situazioni mai sperimentate prima. Lo spazio pubblico svuotato e irraggiungibile dei lockdown, la cui mancanza non poteva essere certo colmata da connessioni a distanza e riunioni virtuali, ha reso ancora più evidente la necessità di un luogo dove poter interagire in modo diretto e disintermediato. Lo spazio pubblico allargato e rivitalizzato delle riaperture parziali, in cui le attività culturali e commerciali hanno potuto temporaneamente occupare aree di norma destinate al traffico o alla sosta, ci ha fatto toccare con mano gli effetti che un ripensamento qualitativo di strade, aiuole e marciapiedi potrebbe potenzialmente generare.
La fase che oggi si apre, in cui il quadro si fa progressivamente più stabile, richiede quindi uno sforzo più condiviso e risoluto per riportare la qualità della vita pubblica al centro delle politiche urbane, contrastando quell’impoverimento per riduzione in cui il progetto del vuoto sembra esaurirsi nel semplice cambio di pavimentazione, nell’addizione di arredi scelti frettolosamente da un catalogo, nel solo aggiornamento impiantistico e delle dotazioni immateriali appartenente a quel modello di città (iper)connessa che pretende di sostituire – invece che integrare – la città fisica intesa come dispositivo della socialità e delle relazioni.
Ritorno all’agorà
Un possibile punto di partenza, in un itinerario storico che ci permetta di apprezzarne le variabili e i valori,1 è la rilettura di alcune riflessioni di Hannah Arendt che, in un saggio del 1958, ha individuato nella dimensione pubblica – insieme a quella lavorativa che assicura la sopravvivenza, e a quella produttiva che è alla base del mondo del consumo – una delle attività fondamentali della vita dell’uomo, definendola come la sola capace di generare interazioni dirette senza la mediazione delle cose materiali.2
Espressione paradigmatica di questo legame, secondo la storica e filosofa tedesca, è l’agorà della città greca. Questo antico luogo di relazione – ancora oggi evocato come il porto sicuro verso il quale indirizzare una cultura del progetto sempre più alla ricerca di nuovi riferimenti – costituiva il centro della città dal punto di vista religioso, politico e (solo successivamente) commerciale, ponendosi come intersezione anche simbolica tra sfera pubblica e individuale, tra la ekklesìa – il consiglio dei cittadini che si prendeva cura degli affari comuni – e l’oikos – il nucleo familiare che individuava le necessità private e valutava i modi per soddisfarle.
L’esigenza di una centralità così organizzata riecheggia, pur naturalmente con diversi assetti morfologici e aggregazioni funzionali,3 anche nelle rielaborazioni dei secoli successivi, materializzandosi in epoca romana nel foro – attorno al quale, oltre alla curia con le magistrature locali e ai maggiori templi, trovavano posto anche i banchi commerciali tra i quali gli abitanti si incontravano e interagivano – e nel Medioevo in tre tipologie complementari: la piazza sacra, corrispondente al sagrato delle chiese, la piazza civica, correlata alle attività politiche e amministrative, e la piazza del mercato, strategicamente collocata in prossimità delle porte di accesso attraverso le quali transitavano i visitatori e le merci.
I grandi vuoti della città moderna
Il momento in cui lo spazio pubblico vede un sostanziale indebolimento di queste molteplici valenze coincide invece con l’avvento del Movimento Moderno, quando la crescente tendenza all’inurbamento spinge la riflessione teorica a concentrarsi sulla cogente domanda abitativa, alimentando la ricerca sulla sperimentazione tipologica e costruttiva in ambito residenziale ma relegando il vuoto tra gli edifici a componente secondaria del disegno urbano.
Questo passaggio è testimoniato da una serie di piani e studi formulati negli anni Venti e Trenta, tra questi la Ville Contemporaine (1922) e la Ville Radieuse (1931) di Le Corbusier – i cui spazi aperti, pur dotati di chiari principi insediativi, risultano privi di una strategia funzionale basata sulla mixité e sull’alternanza degli usi nel tempo – o le ricerche di Walter Gropius sui vantaggi economici e igienici degli edifici bassi, medi e alti, in cui gli stessi spazi sono intesi come la semplice proiezione geometrica delle costruzioni che li fiancheggiano. Alcune grandi opere degli anni Cinquanta e Sessanta – pensiamo al Piano di Chandigarh (1953) di Le Corbusier o alla piazza dei Tre Poteri a Brasilia (1956-1963) di Oscar Niemeyer – sembrano incrementare il divario rispetto a un’idea di luogo condiviso capace di attivare nuove relazioni, riducendolo a quelle desolate esplanade paragonabili, per riprendere le parole di Franco Purini, a «gigantesche nature morte fatte di oggetti architettonici diversi disposti magistralmente su un piano».4
La prima strutturata opposizione a questa dilagante deriva emerge solo durante l’ottavo CIAM di Hoddesdon (1951), in un momento che vede maturare la finalmente esplicita consapevolezza, convalidata da Josep Lluís Sert, che la città è nata nei suoi spazi pubblici, che questi ne rappresentano il cuore, e che il compito di chi progetta dovrebbe limitarsi a individuarne la più adatta collocazione, affidando ai cittadini la possibilità di deciderne le linee di sviluppo.5 L’abbattimento in quegli stessi anni del quartiere Pruitt-Igoe a Saint Louis (1954-1955) – identificato da Charles Jencks come il drammatico epilogo dell’architettura moderna6 – sembrerà in tal senso rappresentare non solo un’operazione di demolizione edilizia come altre, ma anche la simbolica cancellazione di un’idea di città in cui lo spazio pubblico è ridotto fondamentalmente a un vuoto indefinito e privo di vitalità.
Dagli spazi chiusi e isolati ai luoghi della ricostruzione e della rigenerazione
La nuova visione del rapporto tra città, servizi e infrastrutture che si afferma a partire dagli anni Sessanta, prima negli Stati Uniti e poi nelle maggiori realtà europee, non genera tuttavia l’auspicata rinascita. Il proliferare di shopping mall, parchi tematici, centri sportivi e office park che lo accompagna, infatti, favorisce la diffusione di grandi contenitori monofunzionali lontani dal centro e isolati dal contesto, in cui la vita si svolge in aree delimitate e protette, in spazi chiusi e isolati, in quei non luoghi che Marc Augé definisce significativamente come territori dell’anonimato, scenari dell’incrocio e non dell’incontro, mondi in cui l’assenza di identità, relazione e storia portano alla perdita del senso di appartenenza e allo svuotamento dell’individualità.7
La rinnovata attenzione alla sinergia tra città e abitanti degli anni Ottanta e Novanta, primo segnale della graduale inversione di tendenza, è stimolata dalla necessità di ricostruire interi comparti e quartieri che – grazie alle risorse veicolate dai grandi eventi internazionali e dalle altrettanto decisive iniziative locali tese allo sviluppo culturale e sociale – permette di plasmare quei luoghi della ricostruzione e della rigenerazione urbana dove l’esistente e l’antico diventano testimonianze da tutelare e valorizzare.
Un caso emblematico è la «ricostruzione critica» di Berlino, ispirata durante l’IBA (1984-1987) a criteri per molti aspetti antitetici a quelli proclamati dalla Carta di Atene – grazie a un atteggiamento favorevole alla ricostituzione di una coerenza tra strade, edifici di servizio e residenze, e contrario a una concezione autonoma del singolo oggetto architettonico – e poi ancor più decisamente rivolta, nel Planwerk di Hans Stimmann, alla costruzione di una «struttura urbana differenziata» volta a configurare un centro nuovamente riconoscibile nelle sue stratificazioni, nella sovrapposizione tra lotti e tracciati storici e nel mix di funzioni.8
Un ulteriore piano che ha saputo apportare una trasformazione qualitativa degli spazi aperti in un tessuto consolidato è quello attuatosi negli anni delle Olimpiadi (1992) a Barcellona. L’interesse della proposta di Oriol Bohigas, secondo il quale «la città è essenzialmente il suo spazio pubblico, a condizione che sia uno spazio in cui il cittadino possa decidere di collocarvi le sue attività e il consolidamento delle sue differenze»,9 consiste nella priorità attribuita all’intensificazione delle relazioni. I principi su cui si è fondata – la concezione della città come somma di frammenti, del piano come esito di una visione unitaria e non di una sovrapposizione disarmonica di settori specializzati e, soprattutto, del ritorno della vita pubblica al centro del progetto – hanno favorito il dispiegarsi di una diffusa omogeneità strutturale, facendone riverberare i benefici attraverso operazioni anche dimensionalmente limitate come il recupero di un terreno residuale della periferia disgregata (Plaza de Sóller), di una cava abbandonata (Parque de la Creueta del Coll), di un vuoto attorno ad una stazione dismessa (Parque de la Estación del Norte), di un’area dalle forti connotazioni simboliche vicina a un luogo di preghiera (il memoriale del Fossar de les Moreres).
Tre parole per lo spazio pubblico contemporaneo
L’esigenza di ricalibrare gli strumenti teorici e operativi del progetto urbano emersa in questi ultimi anni discende dal concomitante esercitarsi di mutamenti a diversi livelli, che riguardano l’aggravarsi della crisi ecologica, il dilatarsi delle distanze etniche, religiose e generazionali, le disparità economiche globali e locali, la maggiore sensibilità verso la tutela e la valorizzazione delle identità.
Un contributo significativo alla ricostruzione di questo orizzonte problematico deriva dalle diagnosi critiche di autori come Zygmunt Bauman e Richard Sennett, che a più riprese hanno cercato di raccontare le conseguenze, non solo psicologiche e sociologiche, delle trasformazioni pianificate e spontanee della città contemporanea. Il primo si è soffermato sull’importanza dell’identità, ritenendola «la questione all’ordine del giorno» della meditazione filosofica, sottolineando la necessità di una condizione di equilibrio tra due valori indispensabili dell’abitare collettivo come la sicurezza e la libertà – la cui mancanza può produrre da una parte incertezza, dall’altra una condizione analoga a quella della schiavitù o del carcere10 – e constatando come la trasformazione dei luoghi (lavorativi, familiari e di vicinato) in cui in passato si sviluppava il senso di appartenenza abbia decretato la sostanziale impossibilità di «placare la sete di socialità» e di «calmare la paura della solitudine e dell’abbandono»11 sollevata dall’accumularsi dei problemi individuali. Il secondo ha invece ripreso una illuminante distinzione tra due tipi di confini – i bordi (dove più gruppi interagiscono) e i limiti (dove le relazioni finiscono) – per dimostrare come la deleteria corrosione degli scambi culturali e sociali sia dovuta al moltiplicarsi delle gated communities determinate dalla segregazione funzionale, proponendo una nuova logica di sviluppo fondata su uno spazio urbano più aperto, flessibile e poroso.12
Questioni così articolate, che investono varie forme di convivenza e attività sociale, non possono che essere fronteggiate attraverso un modello composito e polivalente, e l’idea di città sostenibile, intelligente ed inclusiva – promossa qualche anno fa dalla Commissione Europea,13 ma ormai condivisa seppur con qualche differenza nelle politiche urbane di altre realtà14 – sembra essere un plausibile punto di riferimento per la reimpostazione di programmi e finalità di questo tema fondamentale del progetto e della ricerca. Il fatto che alcuni recenti pratiche di ridefinizione dei vuoti si siano mosse all’interno di questa stessa matrice di valori, esplorandone la validità in molteplici scale e forme di intervento, ci consente di valutarne una serie di possibili variazioni.
Pensare allo spazio pubblico di una città sostenibile, ad esempio, vuol dire porre tra i primi obiettivi uno sviluppo basato sulla riconversione di aree abbandonate o sottoutilizzate che, dal punto di vista funzionale e insediativo, possono presentarsi con caratteri differenti. Possono essere insediamenti industriali autonomi come è stato per l’MFO Park a Zurigo (2001-2002) di Burckhardt + Partner / Raderschall, frutto della sovrascrittura di un’area occupata da una fabbrica di macchinari tramite la realizzazione di una struttura per attività ricreative dimensionata sulle tracce del precedente edificio. Possono essere interi quartieri come nel caso di Hafen City ad Amburgo, dove la riqualificazione degli spazi pubblici (2002-2014) ricavati da EMBT nella zona portuale a sud della Speicherstadt ha permesso la complessiva ricucitura delle aree interessate dall’intervento. Possono essere anche preesistenze infrastrutturali come la High Line di New York (2006-2015) di Diller Scofidio + Renfro, costituita da un parco lineare su una ferrovia sopraelevata dismessa che vede ora un armonico intreccio, secondo una logica «agri-tettonica», tra zone selvatiche, aree coltivate e luoghi per la socialità.
Un’idea di città inclusiva mira invece alla rimozione di barriere di carattere sia fisico che culturale e – per riprendere una efficace analisi di Salvatore Settis15 – alla riduzione di quei tre tipi di «lontananza» che possono interessare chi è lontano da noi nel tempo (le generazioni future), nello spazio (per differenze culturali, religiose ed etniche) e per condizioni di vita (per situazioni fisiche, economiche o sociali).
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Note
- Sull’evoluzione dello spazio pubblico nella città moderna e contemporanea cfr. P. Favole, Piazze nell’architettura contemporanea, Federico Motta, Milano 1995 e P. Pellegrini, Piazze e spazi pubblici, Federico Motta, Milano 2005.
- Cfr. H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 2000, p. 7 (ed. orig. 1958).
- Per un’analisi delle componenti dell’agorà e della loro evoluzione nel tempo, anche in un confronto con il foro romano, cfr. S. Giedion, I precedenti storici, in E. N. Rogers, J. L. Sert, J. Tyrwhitt (a cura di), Il cuore della città: per una vita più umana delle comunità, Hoepli, Milano 1954, pp. 17-25.
- F. Purini, La piazza tra continuità e discontinuità, in D. Nencini, La Piazza. Significati e ragioni nell’architettura italiana, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2012, p. 9.
- J.L. Sert, Conversazione, in E.N. Rogers, J.L. Sert, J. Tyrwhitt (a cura di), Il cuore della città, cit., p. 38.
- «Modern Architecture died in St. Louis, Missouri on July 15, 1972 at 3.32 pm (or thereabouts) when the infamous Pruitt-Igoe scheme, or rather several of its slab blocks, were given the final coup de grace by dynamite». C. Jencks, The language of Postmodern Architecture, Rizzoli International Publications, New York 1977, p. 23.
- M. Augé, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Elèuthera, Milano 2009, p. 81 (ed. orig. 1992).
- H. Stimmannn, La nuova Gründerzeit, «Lotus», 80, 1994, p. 28.
- O. Bohigas, Barcellona: un’esperienza urbanistica. La città Olimpica e il fronte mare, in La città europea del XXI secolo. Lezioni di storia urbana, Skira, Milano 2002, p. 73.
- Z. Bauman, Vita liquida, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 29.
- Z. Bauman, Intervista sull’identità, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 33.
- R. Sennett, Incompleta, flessibile, senza confini. La città ideale è un romanzo aperto, «Corriere della Sera», 13 aprile 2013.
- Una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva, Comunicazione della Commissione Europa 2020, Bruxelles 2010
- Si veda ad esempio la trasformazione degli spazi pubblici abbandonati in alcune città statunitensi della costa atlantica o la riqualificazione dei waterfront in Cina, di cui due casi recenti sono riportati in M. Moscatelli, La rinascita del lungofiume / La memoria dell’industria, «Casabella», 894, 2019, pp. 6-19.
- S. Settis, Il mondo salverà la bellezza?, Adriano Salani Editore, Milano 2015, pp. 24-25.