Ri­sar­cire la la­cuna per con­ser­vare la me­mo­ria

Il mancato restauro del Ponte Morandi

Il 14 agosto 2018 un tratto del viadotto sul Polcevera di Genova è crollato causando la morte di 43 persone. Nonostante l'importanza storica di quest'opera e del suo autore, l'ingegnere Riccardo Morandi, l'ipotesi di un restauro non è mai stata presa in considerazione: si è subito optato per la demolizione. Perché questo accanimento?

Date de publication
24-06-2020
Sergio Bettini
Architetto, docente all'Accademia di architettura di Mendrisio

Il 14 agosto 2018 un tratto del viadotto sul Polcevera di Genova, opera del grande ingegnere Riccardo Morandi – uno dei riferimenti imprescindibili per la storia delle strutture italiane del secondo Novecento – è crollato causando la morte di 43 persone. L’8 febbraio 2019 iniziava la sua totale demolizone che si completava il 28 giugno successivo.

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Molte sono state le voci autorevoli che si sono dichiarate contrarie al suo abbattimento, portando argomentazioni tecniche ed economiche assolutamente condivisibili, rimaste però del tutto inascoltate. Ricostruire il moncone collassato e consolidare il resto della struttura sarebbe stato fattibilissimo, anche perché in parte già si era iniziato a farlo nei primi anni Novanta con il retrofitting degli stralli della pila 11. Riparazione che si sarebbe potuta continuare, magari mettendo in campo soluzioni tecniche improntate a un minore impatto estetico e alla conservazione dei profili morandiani, sull’esempio del restauro effettuato sull’omologo viadotto di Wadi al-Kuf in Libia, tra il 1996 e il 2000.

Rispetto al nuovo viadotto di Piano, il consolidamento e il restauro del Morandi avrebbero avuto un costo enormemente inferiore, con tempi di esecuzione più brevi, evitando lo sgombero e la demolizione di abitazioni e attività sottostanti, nonché l’impatto ambientale causato dallo smaltimento delle macerie ad alto contenuto di amianto. È quanto sostenne il prof. Enzo Siviero in un esposto presentato alla Corte dei Conti, firmato da una cinquantina tra ingegneri, architetti, docenti universitari e liberi professionisti di diverse città italiane, cui seguì una proposta progettuale per la ricostruzione, in acciaio, del solo tratto collassato. Esposto e progetto vennero completamente ignorati.

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A ciò si aggiungano i problemi del nuovo tracciato, la cui geometria ricalca quello precedente ma con uno spostamento di una ventina di metri, per cui si hanno complicazioni causate da un tratto rettilineo troppo lungo in rapporto alle curve, dagli svincoli di collegamento con l’A7 e in generale dal raccordo con il tracciato esistente. Problemi ai quali si è ovviato con una deroga sull’applicazione delle norme del codice stradale, previo parere del Consiglio di Stato.

L’ipotesi conservativa, invece, non è mai stata presa in considerazione. Si è propagandata da subito quella demolitoria, punitiva, facendo leva sulla pericolosità della struttura amputata e sull’emotività generale, promossa da una politica giustizialista, caldeggiata anche dall’opportunismo del settore delle costruzioni. Neppure la commissione del Ministero dei trasporti, istituita per stabilire le cause e le responsabilità del crollo, ha contemplato la demolizione del viadotto sul Polcevera. La lunga relazione del 19 settembre 2018 affermava di non aver tratto «definizioni conclusive» sulla «causa prima e sulla dinamica del crollo» e che invece «l’occasione potrà essere utilizzata per mettere a punto tutti quegli aggiornamenti sul piano conoscitivo della scienza dei materiali, della progettazione e sicurezza, della analisi e gestione dei dati e sulle azioni di standardizzazione dei metodi di indagine» e dunque prefigurando un laboratorio per istruire protocolli di indagine e di monitoraggio per la conoscenza e la sicurezza di strutture analoghe.

Perché allora questo accanimento? Perché demolire era «un dovere morale», ci ripetevano quotidianamente i telegiornali, mentre scorrevano le riprese delle lentissime e delicatissime operazioni di smontaggio delle solette in appoggio, la cui vera e propria demolizione avvenniva solo una volta che toccavano terra.

«Il ponte Morandi in quanto responsabile della perdita di 43 vite umane andava dunque punito e abbattuto senza appello»

Il Morandi non era certo il primo ponte crollato nella storia delle costruzioni. In Italia, durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale, vennero abbattuti diversi ponti e sempre ricostruiti «com’erano e dov’erano»: come il ponte Santa Trinita a Firenze, eretto da Bartolomeo Ammannati tra il 1567 e il 1571, distrutto nella notte tra il 3 e il 4 agosto 1944 e ricostruito (con un'anima in cemento armato) nel 1958; come il ponte di Castelvecchio a Verona, abbattuto il 24 aprile 1945 dai tedeschi in fuga, assieme a tutti gli altri che attraversavano l’Adige, ricostruito nel 1950-1951. Analoga sorte toccò a quello di Mostar distrutto nel 1993, durante la guerra nella ex Yugoslavia. Ponti feriti che andavano ricostruiti per il loro valore testimoniale e come segno di rinascita dei popoli oppressi dopo anni di guerre. Anche il gemello del Polcevera, costruito nel 1962 da Morandi sul Lago di Maracaibo, colpito nel 1964 da una petroliera, fu subito ricostruito. In tutti questi casi le cause dei crolli erano estrinseche all’opera.

Nel caso invece del ponte genovese le cause sono state ritenute intrinseche alla struttura, insinuando addirittura il sospetto che l’opera fosse stata progettata male. È la tesi sostenuta dalle parti avverse nella causa, lo Stato e la Società Autostrade, dove la rimozione del corpo del reato consentirà di prorogare ulteriormente i tempi del contenzioso processuale.

Il ponte Morandi in quanto responsabile della perdita di 43 vite umane andava dunque punito e abbattuto senza appello per scongiurare che l’evento non si ripetesse e per colpirlo in quanto simbolo della tragedia.

A volte la rimozione sembra essere l’unico antidoto alla sopravvivenza, il primo meccanismo di difesa della psiche umana, se non l’unica cura. Ma la rimozione dei simboli ha spesso generato anche l’effetto opposto: quello di ripetere più rapidamente gli errori del passato. A titolo di esempio valgano le scene di abbattimento delle statue dei tiranni che si ripetono a furor di popolo ogniqualvolta assistiamo al rovesciamento di un regime: uno spettacolo che si è sviluppato con la rivoluzione francese (anche se la decapitazione delle statue era molto praticata nell’antica Roma) e che ha riguardato in epoche recenti le statue di Ceaușescu a Bucarest, di Saddam a Bagdad, di Mengistu ad Addis Abeba e che si è ripetuta negli anni scorsi in Egitto, Siria, Ucraina. Alla vandalizzazione di questi simboli del potere non è seguita tuttavia una stagione di rinascita in quei paesi. Secondo il sociologo Stanley Cohen la rimozione è una condizione umana del nostro tempo, che ha preso forma in differenti «stati di negazione», le cui proporzioni sono sempre più preoccupanti: singole persone e intere comunità evitano di confrontarsi con realtà scomode e dolorose, mettendo in atto meccanismi di diniego consapevoli o inconsapevoli.

Anche Renzo Piano ha tentato di attribuire al suo progetto un valore commemorativo proponendo 43 «lanterne» luminose in ricordo delle vittime, salvo poi eliminarle per ragioni «tecniche» e di «sicurezza stradale». La loro eliminazione è in realtà il segno, più profondo e inconfessato, di quanto sia difficile trasformare un ponte in un monumento, cioè in un’opera adibita alla memoria e in questo caso alla memoria di una tragedia.

Ciò sarebbe stato possibile solo restaurando il ponte per conservare la materia originale che è l’unica depositaria concreta della memoria. Eliminando la materia originaria dell’opera si cancella definitivamente l’opera in quanto tale. Non si restaura infatti l’immagine o il ricordo di un’opera, si restaura la materia. Si sarebbe poi dovuta integrare l’opera ricostruendo la parte mancante, colmando la lacuna non solo per motivi funzionali, ma anche per restituirne l’unità figurativa. Il risarcimento della lacuna avrebbe dunque portato con sé l’evento delittuoso che l’aveva prodotta, perché riconoscere il valore della lacuna significa cercare il senso di ciò che è rimasto e sopravvissuto. Ogni lacuna innesca nell’animo umano il sentimento e la volontà di completarla. Le diverse modalità di come attuare il suo risarcimento sono materia di confronto fra i progettisti, la comunità scientifica e la società che promuove il progetto. «La lacuna partecipa alla rappresentazione: è un motore essenziale della forma e del significato», scrive Nicola Gardini in un saggio sul non detto in letteratura che potremmo applicare anche alle forme dell’ingegneria. La storia del restauro non ruota forse attorno a questo nodo concettuale? Ai modi di risarcire le forme e ciò che contengono (lo spazio) da ciò che è andato irrimediabilmente perduto? Non sempre la lacuna è risarcibile, ma altre volte, come nel caso di un ponte, dove l’uso è determinante, non ci si può esimere dal completarla. E non necessariamente il risarcimento presuppone tout court un intervento di ricostruzione mimetica (com’era) ma può invece essere riconoscibile, esplicitando il confronto fra antico e nuovo.

«Nessuna opera d’arte vive in sé. Vive in un contesto spaziale e temporale che si è modificato come effetto della sua presenza. La rimozione è estranea alla cultura della conservazione» 

Tutte ragioni che avrebbero reso il crollo del ponte Morandi meritevole di essere affrontato con gli strumenti del restauro e il suo consolidamento avrebbe potuto segnare una significativa inversione di tendenza rispetto a un qualsiasi nuovo ponte. Il processo metodologico che anima il progetto di restauro impone un confronto profondo con la tragedia, imponendo una riflessione culturale, sociale, che genera e rafforza il senso di una comunità perché il progetto di restauro, che coinvolge molte discipline, dall’architettura all’ingegneria, dal paesaggio alla tecnica delle costruzioni all’urbanistica, è un atto culturale prima che tecnico o economico. È un processo «metabolico», potremmo dire, che esige necessariamente il coinvolgimento di molte forze tra loro coese.

Nessuna opera d’arte vive in sé. Vive in un contesto spaziale e temporale che si è modificato come effetto della sua presenza. La rimozione, l’occultamento dei segni sono estranei alla cultura della conservazione e del restauro che, ricordiamolo, sono punti di eccellenza e di riconoscibilità della cultura italiana nel mondo. I principi e le istanze del restauro – conservazione della materia originaria, riconoscibilità, reversibilità, compatibilità, durabilità – sono applicabili a ogni opera d’arte e di architettura, anche moderna, e potevano essere estese al viadotto sul Polcevera di Morandi.

Non c’è infatti distinzione tra opera moderna e antica, opera «funzionale» e opera «figurativa». «Ogni opera dell’arte e dell’ingegno umano – abbiamo scritto con Matteo Grilli in un articolo apparso su «Il Foglio» del 14 dicembre 2018 – è meritevole di una riflessione sulla sua conservazione e trasmissione al futuro, anche – e forse soprattutto – quando incarna, malgrado il progettista, malgrado le istanze per cui è nata, un momento storico, anche tragico, di una comunità».

Bibliografia

Qui è possibile acquistare Archi 3/2020. Qui si può invece leggere l'editoriale con l'indice del numero.

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