La Pyramide di Abidjan
Archeologia del Moderno in Costa d’Avorio
Gabriele Neri viaggia ad Abidjan per visitare la Pyramide, costruita tra il 1970 e il 1973 dal veronese Rinaldo Olivieri. Trova una rovina. Eppure è possibile che, misteriosamente, la rovina finisca per rivelare aspetti nascosti del progetto.
Era metà gennaio ma sembra un secolo fa: poco prima del lockdown, quando ancora il mondo sembrava piccolo e (quasi) ogni regione a portata di mano. Un edificio mi ossessionava e ho deciso di andare a visitarlo: per la sua strana fisionomia, per il contesto particolare, per il suo stato di conservazione e per quell’architetto italiano che da Verona era andato fino in Africa, alla fine degli anni Sessanta, per dare forma a uno spazio capace di mischiare l’impronta di culture diverse in maniera non scontata.
La Pyramide, questo il suo nome, fu costruita tra il 1970 e il 1973 ad Abidjan, capitale economica della Costa d’Avorio che l’allora presidente Félix Houphouët-Boigny – padre dell’indipendenza del paese ma promotore di uno stretto dialogo con la Francia – stava trasformando in una città moderna e cosmopolita, grazie alle ricchezze naturali del paese. L’architettura era parte fondamentale di tale programma, e la Pyramide ne fu uno degli emblemi. Incastonata nel mezzo del Plateau, la zona di Abidjan che si voleva convertire in una Manhattan ivoriana, era pensata come un edificio polifunzionale, ibrido e orientato a modelli di consumo occidentali: un centro commerciale con una grande hall al centro su cui si affacciavano uffici ai piani superiori, un ristorante panoramico sulla vetta, un nightclub e un supermarket negli interrati.
A trovare la forma adatta fu l’architetto Rinaldo Olivieri (1931-1998), che all’epoca aveva già realizzato opere degne di nota, influenzate dai maestri dell’epoca (specie per l’uso del cemento a vista) ma dotate di grande confidenza compositiva e strutturale. Pur molto legato alla sua città, Olivieri fu rapito dalla Costa d’Avorio dopo i primi contatti quasi casuali, fino a trasferirvisi. Nel 1969 progettò il padiglione del paese africano all’Expo di Osaka del 1970, composto da tre torri che alludevano alle capanne tradizionali, impostate su di una planimetria organica.
Anche nel Plateau di Abidjan il riferimento alla tradizione costruttiva locale è evidente (nella sagoma complessiva a spiovente, consapevole delle forti piogge; nei frangisole che proteggono dal clima equatoriale), ma c’è dell’altro. Assecondando i cortocircuiti della creatività, Olivieri s’ispirò ad esempio alle pareti inclinate della Conference Hall di Kyoto di Sachio Ōtani, visitata in Giappone durante l’esperienza all’Expo. Se la possente torre in cemento a vista che sostiene il complesso ricorda l’imprinting brutalista già dimostrato in patria, un’analisi più attenta svela poi dettagli colti come il basamento a bugnato, che sembra una citazione del Palazzo dei Diamanti di Ferrara (e in effetti le bugne sono piccole piramidi).
Gli spazi interni rivelano la sfida strutturale lanciata da Olivieri in questo progetto, raccolta da uno dei migliori ingegneri dell’epoca. Fu infatti il romano Riccardo Morandi (1902-1989) a valorizzare razionalmente le traiettorie diagonali e gli squarci prospettici voluti dall’architetto, riequilibrando il sistema statico grazie a solide cerniere e a un sistema di travi e supporti inclinati.
La Pyramide ha avuto la sua fortuna: nel 1979 fu esposta al MoMA di New York nella mostra Transformations in Modern Architecture, unico edificio del continente africano! Più di recente, il rinnovato interesse per il modernismo subsahariano ne ha resuscitato l’immagine. Ma purtroppo l’edificio è oggi un rudere chiuso al pubblico che si esplora – allungando una mancia all’assonnato guardiano – come la rovina di una civiltà antica, facendosi largo tra detriti, macerie e residui ormai esanimi della vita che qui si svolgeva.
La storia recente della Costa d’Avorio – dopo il boom economico ci fu la crisi, una guerra civile iniziata nel 2002 e durata oltre 10 anni; ora una ripresa impetuosa minata dalle lacerazioni politiche e tribali – ha segnato profondamente l’edificio, inutilizzato da tempo. Fa effetto confrontare i dépliant dell’epoca, che sfoggiavano visioni composte ed eleganti degli spazi interni, orientati a canoni occidentali stimolati dal miracolo ivoriano, con l’aspetto attuale, segnato da incendi e vandalismi. Tuttavia, paradossalmente, l’esperienza odierna rivela ciò su cui i rendering commerciali non potevano indugiare, ovvero quella dimensione perturbante generata dalla scomposizione prospettica di un antro ricavato nella piramide, che Olivieri – non solo architetto ma anche scenografo – recuperò dalla passione per Giovanni Battista Piranesi. E in effetti le due scenografiche rampe di scale che tagliano la hall, oggi ridotte a scheletri pericolanti, entrano in risonanza con quelle delle Carceri incise dal più noto collega, veneto anche lui.
In un colpo d’occhio, allora, la distanza tra modernità e archeologia si annulla e la percezione si adatta. Salendo al buio le scale – una volta la luce pioveva da lampadari composti da decine di piramidi rovesciate – e approdando ai piani superiori si moltiplicano i punti di fuga e le diagonali accelerano, quasi decostruttiviste nella geometria ma di fatto decostruite dall’incuria. Gli spazi vetrati degli uffici sono sommersi da cumuli di documenti cartacei sfrattati a forza da armadi e cassettiere ormai utili altrove: un mare di carta ad altezza uomo visibile anche dalla strada. Un murale rosso sangue, tracciato da qualcuno di passaggio, raffigura un Gesù salvatore, spostando ulteriormente il senso di questa rovina architettonica: il miracolo che l’edificio evoca non è più quello economico di Houphouët-Boigny, ma quello invocato da chi utilizza la Pyramide come riparo di fortuna. Di fronte a questo altare improvvisato, la Pyramide si tramuta in tempio, svelando del resto quella componente sacrale impressa fatalmente nel suo nome e nella sua geometria. Tragicamente, l’architettura torna all’origine arcaica del suo significato, vincendo e perdendo allo stesso tempo sui piani fatti dai suoi promotori, per divenire una tomba il cui tesoro risiede in un ricordo ormai lontano.