Co­me de­fi­ni­re la «qua­li­tà» nel­la cul­tu­ra del­la co­stru­zio­ne?

Per avere una cultura della costruzione di qualità bisogna prima mettersi d’accordo su che cosa si intenda con il termine «qualità». L’Ufficio federale della cultura propone un metodo, basato su otto criteri. Ma questo sistema a punti desta già qualche interrogativo tra i professionisti, soprattutto gli architetti. Si può veramente dare una nota alla cultura della costruzione? E chi esprimerà tale valutazione? Ne abbiamo discusso con Oliver Martin, uno degli autori del Sistema Davos per la qualità.

Data di pubblicazione
21-10-2021

La pubblicazione del Sistema Davos per la qualità nella cultura della costruzione (SDQ) lancia un dibattito di fondo sulla questione di come sia possibile valutare la cultura della costruzione, e suscita già qualche reazione. In occasione di una consultazione preliminare sulla prima versione di questo strumento, la Fondazione Cultura della costruzione Svizzera metteva in discussione il metodo stesso impiegato dal Sistema, sostenendo che non sia possibile valutare la cultura della costruzione con una nota. I progetti hanno infatti tutti le proprie peculiarità, dunque una valutazione andrebbe espressa soltanto nell’ambito di una discussione approfondita.
Di fatto, si è espresso qualche dubbio sulla possibilità di definire la qualità in modo oggettivo. Tuttavia, devo dire che mi giungono sempre meno all’orecchio critiche in tal senso, critiche che, secondo me, sono soprattutto un pretesto per evitare qualsiasi tipo di valutazione. Il nostro obiettivo è quello di chiarire come deve essere un progetto per essere definito «di qualità». A livello politico, infatti, non possiamo pretendere di migliorare la cultura della costruzione senza determinare prima che cosa sia questa qualità a cui aspiriamo. Evidentemente è un concetto molto ampio, che resta aperto. Il nostro strumento non va inteso come un «manuale di istruzioni», nel senso stretto del termine.

La procedura proposta è la seguente: innanzitutto definire la qualità, sulla base di otto criteri che, prima d’ora, non erano mai stati riuniti in questa forma. Tali criteri permettono soprattutto di individuare in un progetto eventuali lacune a livello qualitativo. La procedura mira altresì a promuovere un’idea allargata di qualità, un concetto più ampio che tiene conto di aspetti come le zero emissioni, la sostenibilità, l’accessibilità, la diversità e le peculiari caratteristiche di un luogo, il cosiddetto genius loci, e così via. Come terza cosa, si tratterà di offrire uno strumento che, se lo si desidera, potrà essere utilizzato sul campo, ma evidentemente apportando gli adattamenti necessari, tenendo conto delle condizioni specifiche di ogni situazione.

Un’altra critica concerne l’ambito di utilizzo di tale strumento. Stando alle istruzioni per l’uso, l’SDQ sarebbe rivolto a tutti, sia ai non addetti ai lavori sia ai professionisti del settore. Ma gli esperti hanno davvero bisogno di uno strumento come questo? Non sono forse già abituati a parlare di qualità?
Penso che uno strumento di questo tipo possa servire anche ai professionisti. Di fatto, oggigiorno, molti programmi di concorso fissano criteri sul piano economico, funzionale e ambientale, ma spesso la cosa finisce lì. Con l’SDQ vogliamo andare oltre e includere anche gli aspetti culturali e sociali, che sono altrettanto importanti, senza però definirli prima, nel dettaglio, per ogni situazione.

La maggior parte dei criteri che abbiamo proposto figura nei rapporti della giuria. Tuttavia, formulandoli esplicitamente ne mettiamo in luce l’importanza e facciamo sì che possa nascere un discorso sulla qualità che non dipende da una giuria prestabilita, né da una cerchia ristretta di architetti o professionisti del ramo, spesso considerati più idonei a parlare di qualità rispetto ad altri.

A sentirla parlare, ho come l’impressione che l’SDQ potrebbe, come dire, servire a controbilanciare il monopolio degli architetti sulla cultura della costruzione!
Direi di no, si tratta piuttosto di sistematizzare e oggettivare il concetto di cultura della costruzione. Ci chiedono di ancorare nella legge la nozione di qualità, ma dobbiamo prima definirne il quadro. Non possiamo lasciare che la qualità sia determinata unicamente dalla composizione o dall’opinione di una o dell’altra giuria.

Forse, c’è però un problema di misura, legato a chi effettua la valutazione. A prescindere dai criteri proposti e da quanto obiettivo sia il metodo impiegato, il formulario di valutazione sarà compilato in modo molto diverso, a seconda della persona a cui arriverà tra le mani. Ad esempio, il giudizio espresso dal sindaco di un piccolo comune rurale si scosterà da quello dato da un’architetta FAS di Ginevra. Per ottenere una forma di «oggettività», non dovremmo forse riunire un gruppo interdisciplinare? Pur ammettendo che ciò sia tecnicamente possibile (cosa che dubito), si arriverebbe al massimo a un compromesso mediocre, ma non alla qualità.
Il nostro approccio è pensato per effettuare una sorta di autovalutazione che passi in rassegna un insieme di questioni mirate e inviti a riflettere, partendo ciascuno dal proprio vissuto e in funzione del ruolo che riveste. È chiaro che l’autore di un determinato progetto darà una valutazione assai diversa da quella che esprimerà invece l’utente finale dell’opera. Ecco perché si tratta di un sistema aperto, che dovrà essere ulteriormente ampliato se si vorrà utilizzarlo in maniera sistematica.

In che modo sarà ulteriormente sviluppato questo strumento?
Per andare oltre bisognerà definire degli indicatori per ciascun criterio, fissando un benchmarking per ogni compito e contesto specifico. È un metodo che esiste già in altri ambiti complessi, come quello dell’ambiente in cui viviamo. Bisognerà dunque sviluppare degli indicatori, poi fissare per ciascuna situazione specifica dei valori soglia e oggettivare così ciascun criterio. Ci lavoreremo con la prossima tappa, basandoci su varie tipologie di casi.

Sarà difficile creare delle tipologie partendo da casi così diversi. Quello che però è interessante con questo strumento è che ci si concentra sui luoghi e non tanto sugli oggetti. Si mettono sullo stesso piano le infrastrutture e i paesaggi, elementi che prima non per forza venivano considerati allo stesso livello.
È quello che si legge anche nella Dichiarazione di Davos, ovvero che qualsiasi spazio edificato è espressione della nostra cultura della costruzione. Ciò contempla gli aspetti psicologici, sociali ma anche ecologici, economici, funzionali ecc. Sono tutti questi aspetti riuniti che contribuiscono alla qualità.

Lo strumento, tuttavia, non tiene conto dei vari manufatti progettati a livello industriale, come le auto, la segnaletica, le insegne. Anche questi elementi hanno un forte impatto sul nostro spazio di vita. Perché allora non integrarli nel concetto di Baukultur?
È una buona domanda. Ci siamo limitati a ciò che è di nostra competenza, vale a dire lo spazio costruito, e abbiamo scelto esplicitamente di non includere i beni mobili. L’arredo urbano, anche se è costituito da manufatti mobili, potrebbe in effetti essere considerato partendo dalla prospettiva dell’SDQ, in quanto rappresenta parte integrante dello spazio costruito.

Mi pare che i criteri dell’SDQ favoriscano una visione della cultura della costruzione che poggia sul patrimonio costruito e sulle questioni che fanno da corollario. Su otto criteri, due si focalizzano su uno stesso problema, quello dell’identità, mi riferisco qui ai criteri Genius loci e Contesto.
Nel nostro sistema, il concetto di Genius loci è legato agli aspetti sociali ed emotivi, mentre il Contesto riguarda le questioni spaziali e fisiche. Mi sembra normale e giusto che il patrimonio costruito e il suo valore rivestano un ruolo di centrale importanza quando si parla della qualità di un luogo. Di per sé, non è il patrimonio costruito a porre problemi, sono piuttosto le esigenze e le aspettative della nostra società contemporanea a essere problematiche quando vanno a rimettere fondamentalmente in questione ciò che esiste già.

Nel gruppo di lavoro internazionale che ha concepito l’SDQ ci sono soprattutto persone attive nell’ambito della protezione e della salvaguardia del patrimonio culturale. Sembra che non ci sia alcun rappresentante dei progettisti (architetti, ingegneri). Non è un po’ un controsenso?
No. Nel gruppo editoriale si trovano effettivamente personalità che lavorano nel settore del patrimonio culturale, ma anche rappresentanti della pianificazione del territorio, dell’architettura e della cultura della costruzione. Abbiamo lavorato con lo stesso gruppo editoriale che ha stilato la Dichiarazione di Davos, collaborando anche con gli architetti, e in particolare con l’Unione internazionale degli architetti.

Certo, anche la Dichiarazione di Davos nasce dal contesto legato alla protezione del patrimonio costruito, ma con il concetto di «cultura della costruzione» essa difende e porta avanti una visione moderna che accorpa la creazione contemporanea. Ed è in questa stessa ottica che proponiamo di inserire la cultura della costruzione nella legge federale sulla protezione della natura e del paesaggio, nell’ambito del controprogetto all’Iniziativa biodiversità.

Vorrei puntualizzare che, contemporaneamente, l’SDQ è anche stato discusso in seno al gruppo di esperti della Commissione europea chiamato Open Methods and Coordination (in breve OMC Group). Questo gruppo, composto soprattutto da ingegneri, architetti e pianificatori del territorio, ha ripreso i criteri dell’SDQ e la Commissione europea li cita in un rapporto pubblicato questo autunno che mira a migliorare in tutta Europa la qualità del costruito. Questa eco a livello europeo è naturalmente molto positiva.

Ci sono delle architetture del tutto eccezionali, al punto che la loro qualità va al di là di questa logica di valutazione. Prendiamo un’opera come il Rolex Learning Center del PFL, peraltro criticata e considerata smodata sotto molti aspetti. Un’opera di questo calibro va ben oltre i criteri fissati dall’SDQ. Mi sembra insomma che questo strumento manchi di un criterio che tenga conto delle qualità intrinseche dell’architettura, dell’essenza stessa del progetto, la cui natura non può essere riassunta attraverso semplici criteri.
Forse, e in questa critica echeggia quello stesso sentimento che possono provare gli architetti nel perdere nel dibattito la propria «egemonia interpretativa». È così quando l'architettura non tiene conto degli altri criteri che determinano la qualità di un’opera. Se un edificio è molto interessante sul piano architettonico, ma consuma una quantità spropositata di risorse, inquina e non apporta nulla al tessuto costruito, oggi non deve più essere considerato frutto di una cultura della costruzione di qualità.

La Fondazione Cultura della costruzione Svizzera ha espresso il timore che l’SDQ, con i suoi otto criteri, rischia di causare una sorta di livellamento della qualità, dato che stabilisce una media. Come tenere conto della creatività? Come dare il giusto valore ai progetti originali, innovativi ed esplorativi? Facciamo un esempio: la scuola di Leutschenbach, opera di Christian Kerez (2009). Anche qui si potrebbe discutere di ciascun criterio, ma la domanda di fondo è un'altra: l’approccio suggerito dall’SDQ riuscirebbe a tenere conto della qualità eccezionale di questo progetto? Parliamo di un’opera che ha apportato un contributo sostanziale, sia per la sua struttura che per il suo sistema di ventilazione, aprendo nuovi orizzonti in termini di edilizia scolastica. Non pensa che implementando, nell’ambito di un concorso, uno strumento come l’SDQ, c’è forse il rischio che progetti così avveniristici non vedano mai la luce?
No, per nulla. Oggi un luogo che non è assolutamente in grado di soddisfare i requisiti posti a livello sociale, sostenibile e di accessibilità senza barriere, non potrà, effettivamente, essere considerato come esemplare di una cultura della costruzione di qualità. Potrà forse restare nella storia, come un’«opera architettonica d’eccezione», ma bisogna separare bene le due cose. Ad ogni modo, il progetto di Kerez avrebbe certamente passato l’esame anche con l’SDQ. In altre parole, lo scopo dell’SDQ è innanzitutto quello di aprire il dibattito sulla gran moltitudine di edifici costruiti nella nostra quotidianità, per discutere anche a questo livello e non soltanto per parlare di opere faro che sorgono ogni cinquant’anni in qualche grande città. Abbiamo testato questo strumento prendendo luoghi e opere di vario tipo, e i criteri si sono dimostrati pertinenti.

Di fatto, nella Dichiarazione, si specifica in modo chiaro che la questione della qualità non si pone tanto nei centri urbani, che sono sovente ben costruiti e anche preservati, ma piuttosto nelle aree periferiche, nelle regioni in cui si registra un calo demografico, dove il paesaggio è tarmato e gli investimenti sul fronte della cultura della costruzione sono mediocri. Stando a tali osservazioni gli architetti non hanno insomma di che preoccuparsi, poiché l’obiettivo è soprattutto quello di agire proprio lì dove non si presta sufficiente attenzione.
Effettivamente, in generale, nei centri urbani si cura di più la qualità del costruito, mentre in periferia si dà molta meno importanza a questo aspetto. Non dobbiamo però dimenticare che anche le aree periferiche sono espressione della nostra cultura della costruzione, e qui c’è carenza di qualità. Queste zone hanno un impatto importante che non si può trascurare, poiché costituiscono parte integrante dell’ambiente in cui gran parte della popolazione trascorre la propria vita.

Da quanto risulta da un sondaggio condotto nel 2018 sulla percezione della cultura della costruzione, sembra che la maggioranza degli Svizzeri prediliga un’architettura di tipo tradizionale, in campagna, o in quel che ne resta. Questa concezione non desta forse qualche perplessità?
Penso che si debba smetterla di condannare il sogno di una casa in campagna, ma piuttosto impegnarsi per far sì che il tema della cultura della costruzione di qualità si diffonda, si faccia largo tra la popolazione e se ne discuta molto di più. Da un lato ci si fa un po’ beffa del sogno svizzero della casetta nella natura, ma dall’altro è pur vero che questo genere di progetti continua a venir celebrato anche dalle nostre riviste di architettura, dove troviamo regolarmente l’immagine di placide villette circondate da immensi spazi verdi, su superfici del tutto sproporzionate. Questo è un aspetto che merita altresì di essere discusso e approfondito.

Oliver Martin, ha conseguito la laurea e il dottorato in architettura presso il Politecnico federale di Zurigo. Oggi riveste il ruolo di caposezione Patrimonio culturale e monumenti storici in seno all'Ufficio federale della cultura ed è uno degli autori del Sistema Davos per la qualità nella cultura della costruzione (SDQ).

Il Sistema Davos per la qualità è uno strumento concepito dall’Ufficio federale della cultura per valutare la qualità di un luogo in termini di cultura della costruzione. I diversi «luoghi» (opere architettoniche, complessi edilizi, quartieri ecc.) possono essere valutati in base a otto criteri, passando in rassegna un elenco di domande e assegnando una nota da 1 a 8. La nota complessiva risulta dalla media delle note assegnate per ciascun criterio.

 

Gli otto criteri del Sistema Davos per la qualità

  • Diversità: una cultura della costruzione di qualità connette le persone.
  • Governance: una cultura della costruzione di qualità è guidata da una buona Governance.
  • Ambiente: una cultura della costruzione di qualità preserva l’ambiente.
  • Contesto: una cultura della costruzione di qualità si traduce in coerenza spaziale.
  • Funzionalità: una cultura della costruzione di qualità è adatta allo scopo.
  • Bellezza: un luogo che esprime una cultura della costruzione di qualità è bello.
  • Genius loci: una cultura della costruzione di qualità rafforza il Genius loci.
  • Economia: una cultura della costruzione di qualità genera valore economico.