Dia­rio del­l'ar­chi­tet­to, Apri­le 2017

Milo Navone, l'ultimo degli organici

Con la morte di Milo Navone (Torino, 11 marzo 1933 - Viganello, 5 gennaio 2017) scompare l’ultimo architetto che fu tra i protagonisti di quel movimento apparso all’inizio degli anni Sessanta in Ticino: l’architettura organica. 

Data di pubblicazione
12-04-2017
Revision
12-04-2017

Un omaggio a Milo Navone

Un movimento che ha attraversato tutto il Novecento a fianco – o forse è più corretto dire in opposizione – all’altro movimento del Moderno, quello dell’architettura razionalista. Due movimenti, due modi di pensare l’architettura che allora caratterizzarono – e qualificarono direi – le ricerche e i dibattiti durante l’intero secolo, attraversando in diagonale le Avanguardie e sintetizzandosi in numerosi saggi, tra cui quelli pubblicati alla fine degli anni Trenta e Quaranta.

Entrambi, il movimento razionalista e quello organico, hanno quindi radici che affondano nell’inizio del secolo e che – con un abuso di sintesi – hanno avuto soprattutto due protagonisti. Da un lato Le Corbusier (1887 - 1965), svizzero ma parigino di adozione, architetto, pittore, ricercatore, teorico e saggista del razionalismo. Il movimento organico ha invece in Frank Lloyd Wright, nato negli Stati Uniti, nel Wisconsin nel 1867, e morto a Phoenix nell’Arizona a 92 anni, il suo protagonista, architetto, designer, saggista. Due origini quindi profondamente diverse, così come la cultura in cui sono nati e dentro cui sono vissuti: quella europea di Le Corbusier, a contatto e in un intreccio con gli architetti e le avanguardie artistiche della Parigi di allora; quella dell’America profonda di Wright, più chiusa, più individualista, vicino ad architetti e artisti e scrittori della Chicago di allora. Personalità e culture quindi differenti tra loro, così come la loro architettura. Ma entrambi protagonisti dalla forte personalità, entrambi infaticabili ricercatori e innovatori, entrambi promotori e coinvolti in ricerche sui materiali e sui metodi costruttivi.

L’architettura organica di Wright

Frank Lloyd Wright, sul finire dell’Ottocento, con la realizzazione di una serie di case unifamiliari a Chicago e nella vicina Oak Park, inizia un vero e proprio laboratorio progettuale. Dentro il quale passo dopo passo si ancorano quei principi progettuali che sono specifici della sua architettura domestica e del movimento organico. La comunione con la natura, architettura e natura in simbiosi, l’edificio è integrato nella natura. La casa è un luogo di rifugio per l’individuo, è introversa verso un centro, il camino: quale oggetto simbolico del cuore della casa. Ma gli spazi non sono introversi, e proprio dal suo centro (il camino) nasce un’ininterrotta continuità spaziale dilatata in orizzontale, modellata dalla dinamica dei muri interni, che va oltre i limiti dell’edificio, e complici i lunghi tetti e i loro spioventi questa continuità spaziale coinvolge le terrazze esterne, e nell’ideale wrightiano si estende ben oltre il giardino, nel paesaggio. Il tutto controllato, comunque, dall’ordine compositivo della geometria e dall’attenzione per i materiali costruttivi: la pietra, il mattone a vista, il legno.

Questa è – raccontata brevemente – l’architettura organica relativa all’abitazione, che Wright svilupperà ulteriormente, fino a quello che è ritenuto il suo capolavoro e senz’altro il suo edificio più conosciuto: casa Kaufmann (1936) a Bear Run in Pennsylvania, più nota come la Casa sulla cascata. Negli anni successivi realizza anche opere di maggior respiro, tra cui occorre citare almeno due edifici: il Museo Guggenheim (1959) a New York e quello che è il suo capolavoro, l’Amministrazione (1939) e i Laboratori (1950) della Johnson & Johnson a Racine nel Wisconsin. Dove le straordinarie qualità spaziali interne si saldano alle ondulate volumetrie esterne, e dove mattoni faccia a vista, passerelle incluse in tubi di vetro e alti pilastri a fungo confermano l’abilità e l’interesse di Wright per i materiali e la costruzione.

L’architettura di Wright viene conosciuta in Europa nel 1910 specie per il successo della mostra a Berlino e il relativo catalogo Ausgeführte Bauten und Entwürfe. In anni più recenti, si tenne una mostra su Frank Lloyd Wright nel 1952 a Zurigo, preceduta da due conferenze dello stesso Wright nel 1950 e nel 1951.

Milo Navone

Milo Navone arriva a Lugano da Torino – dove è nato nel 1933 e  ha conseguito il diploma di geometra nel 1954 – e nel 1955 entra nello studio di architettura di Tita Carloni e Luigi Camenisch, dove rimane fino alla fine d’aprile del 1956, lavorando agli esecutivi dell’Albergo Arizona e ad altri progetti. Rientra poi in Italia per gli obblighi militari e compie poi lunghi soggiorni di studio a Roma, Napoli, Parigi. Rientra in Ticino nel 1960 e lavora nello studio di Rino Tami per due anni, e dal 1962 al 1968 nello studio di Alex Huber. Navone è poi assunto nello studio di Leonardo Mosso, a Torino, dove si occupa dei progetti di Alvar Aalto che Mosso è chiamato a realizzare in Italia, e in particolare il Centro civico di Dronero. 

Il 1° agosto del 1969 Milo Navone si associa con Franco Ponti – che conobbe quando lavorò da Carloni – fondando lo studio Ponti e Navone, con cui negli anni successivi realizza la maggior parte delle sue opere.

Quando si associa con Ponti, Navone ha alle spalle un’esperienza di lavoro straordinaria: lavorare in quei due decenni da Carloni, e poi da Tami, e ancora da Huber e infine da Mosso significa immergersi nelle discussioni, nei dibattiti e confronti attorno all’architettura di quel periodo, anni di straordinaria energia e vitalità. Il 1968 è una data che dice qualcosa, in questo senso. 

Nello studio Ponti e Navone nascono importanti progetti, di cui molti giungono a realizzazione, come – per citarne alcuni – casa Tettamanti a Castagnola (1971) e casa Tognola a Breganzona (1972) oggi sfigurata, come la magnifica casa Boillat a Vezia (1972), e poi casa Masoni ad Arogno (1975), casa Marchi a Porza (1973), casa Maurino a Biasca (1975), casa Cattaneo ad Aldesago (1976) e la casa dello stesso Navone a Viganello (1976). Architetture sensibili alla cultura e al contesto locale, tutte declinate nell’organicità dell’architettura domestica le cui radici affondano nei concetti di Wright. Architetture con la pietra a dettare gli elementi fondanti il progetto, e il legno a esprimere le facciate e ad avvolgere gli spazi interni. E il legno ancora per gli arredi fissi interni – parti costituenti il progetto. E tutto con straordinaria cura dei dettagli e sapere del costruire. 

Il 31 maggio 1979 si scioglie il sodalizio professionale con Franco Ponti, e Navone avvia un’attività indipendente, prima a Lugano, poi a Viganello. Dove muore, nella casa che ha costruito per sé e la sua famiglia, il 5 gennaio 2017.

Nelle Eolie, sull’isola Vulcano

Un progetto che Milo Navone, quando ancora era associato a Ponti, sviluppò nel 1975, e che deriva da una sua iniziativa e va ascritto in gran parte alla sua mano, è quello delle case di vacanza sull’isola Vulcano, nelle Eolie. Mai realizzato, del progetto rimangono i magnifici disegni, dalla pianta e facciate dell’insieme delle 10 case previste – cinque per lato in una disposizione a L – alle piante e sezioni e facciate delle due tipologie abitative, l’una più ridotta per ospitare fino a quattro persone, l’altra con una superficie più generosa, per otto persone.

Emergono dal progetto con estrema chiarezza i temi propri dell’architettura organica, così come privilegiata da Navone – in tandem con Ponti. È un progetto di grande valore, dire che è esemplare è la parola giusta: per il concetto che lo sorregge, per l’idea spaziale che contiene. Il muro ne è il protagonista: è massiccio, in pietra,  dove la pietra non è solo il radicamento dell’edificio al suolo, ma è ben di più. Perché è proprio il muro nelle sue diverse declinazioni che determina il progetto, ne è l’ossatura, l’impalcatura, fissa l’ordine geometrico attorno a cui tutto si svolge. È un progetto costruito sul minimalismo concettuale, quello di due muri a U e quattro pilastri (nella casa piccola), oppure di due muri a U, due pilastri e quattro frammenti murari (in quella grande). Con sopra un tetto. Fatto, il progetto è concluso.

Dentro questo minimalismo concettuale si nasconde l’idea spaziale: se i muri a U avvolgono al loro interno l’intimità del singolo, essi definiscono anche (nell’edificio maggiore) un unico spazio che si estende fino ai due estremi, un «corridoio spaziale» che attraversa l’intera abitazione, che spalanca l’interno verso l’esterno, verso i due lati opposti, verso il portico e la terrazza e il paesaggio, e il mare lontano. 

Le utopie sono oramai tramontate da un pezzo

Oggi non si discute più di razionalismo o di architettura organica, il tempo delle teorie e delle visioni e delle utopie è oramai tramontato da un pezzo. E poi, l’architettura organica, così come intesa allora, è scomparsa. E probabilmente oggi non avrebbe nemmeno più senso discutere dei temi di allora, di razionale e organico. I temi oggi sono – o dovrebbero essere – altri. Perché quella natura, quel paesaggio dentro il quale le architetture dovevano confrontarsi o immergersi, non esiste più. Non solo i dintorni, non solo la valle, ma anche il monte lontano sono antropizzati, nulla è più naturale. O forse anche allora la natura naturale non esisteva, era solo dentro di noi.

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