Introduzione alla Biennale Architettura 2023
Che si sarebbe trattato di una Biennale politica, lo si immaginava fin dalla designazione della curatrice Leslie Lokko, architetta e scrittrice nata in Scozia, ma di origine ghanese. La sua biografia personale la porta naturalmente a indagare il tema della diaspora africana, orientando la selezione dei partecipanti in modo da presentare in laguna i lavori di giovani practicioners con un’età media di 43 anni ed esterni ai circuiti consolidati della disciplina. La mostra principale, sotto la regia diretta della curatrice, ha il merito di presentare opere che tentano di dare voce a un intero continente in precedenza negletto, nel solco della curatela di Alejandro Aravena, che in questo senso aveva fatto da apripista a Venezia nel 2016. Se si presta attenzione alle didascalie, spesso imprescindibili per capire qualcosa dell’opera, si nota che i partecipanti sono nati nel continente nero, ma hanno studiato in prestigiose università americane o lavorano in studi consolidati nelle capitali europee ed è necessario accostare ai testi una foto tessera per ribadirne le origini. Il viaggio verso l’Occidente non è però semplice: la stessa curatrice ha dovuto rinunciare a tre dei suoi più giovani collaboratori, che non hanno ottenuto dalla Farnesina il visto necessario per raggiungere Venezia, innescando una querelle mediatica che si spera possa diventare una presa di coscienza.
I progetti illustrati sono profondamente occidentalizzati - non tanto nelle geografie o nei temi, ma piuttosto nei processi -, come evidenzia la grande sala in cui David Adjaye dispone i modelli di imponenti edifici pubblici in attesa di trasformarsi in icone, e lasciano intravedere, al di là di un leitmotiv di rivendicazioni postcoloniali, le insidie sottili di un ipercolonialismo. Per scoprire un apporto autenticamente africano alla disciplina bisogna visitare il padiglione del libro e la piccola mostra che viene dedicata in questo spazio a chi riceve il Leone d’Oro alla carriera. Demas Nwoko, classe 1935, è un poliedrico artista, docente e architetto nigeriano impegnato nel costruire impiegando solo risorse locali e in grado di produrre forme plastiche dal carattere espressionista, integrando sistemi semplici di controllo climatico passivo che presentano insieme un valore espressivo. La via mostrata da Nwoko e da pochi altri partecipanti, tra cui Atelier Masōmī, sembra mostrare per l’Africa un’interessante possibile alternativa ai due estremi più praticati dell’adozione di linguaggi e metodi occidentali e del richiamo a elementi vernacolari afro-chic. Un progetto sostenibile e autonomo sembra essere possibile, ma si perde l’occasione di dargli più spazio in mostra.
In Arsenale come ai Giardini, la sensazione è quella che lo slittamento agli anni dispari imposto dalla pandemia fin dalla scorsa edizione abbia confuso la Biennale Architettura con la Mostra d’Arte, generando un profluvio di installazioni, performance, eventi, processi e soprattutto un dilagare di video che trasformano la visita in un’esperienza prossima allo zapping. Il superamento dei confini disciplinari è sicuramente auspicabile in una società liquida, globale e interconnessa, ma il dubbio è che si sia lasciato indietro qualcosa: i fondamenti stessi del progetto. Manca l’architettura in questa Biennale e il Padiglione Italia non fa eccezione: introdotto da un grande vuoto popolato solo da uno schermo gigante, presenta nella seconda sala nove installazioni che rappresentano altrettanti micro-interventi attivi in Italia nel segno della partecipazione. È un tema, quello della partecipazione, che viene indagato dai DAAR (Leone d’Oro per la migliore partecipazione) e anche nei padiglioni nazionali e rappresenta una delle tante tessere che compongono il mosaico delle possibilità oggi offerte al mestiere dell’architetto, ben oltre il classico “dal cucchiaino alla città”. L’architetto può assumere un nuovo ruolo sociale occupandosi di giornalismo investigativo (Killing Architects), diritti e minoranze etniche (Canada), riappropriazione territoriale e ridisegno dei confini (Austria, Svizzera), denuncia dei meccanismi del capitalismo (Lettonia). Chi invece avesse nostalgia dell’architettura fatta di plastici, disegni, schizzi, può trovare soddisfazione nel vulcanico laboratorio creativo di Flores et Prats, una fucina di progetti di recupero dell’esistente che mostrano una grande ricerca della qualità e vengono presentati in scatole da viaggio, pronti a partire.
Tra i grandi filoni tematici che la Biennale indaga vi è quello delle risorse e del loro utilizzo. Molti padiglioni presentano il pavimento ricoperto di terra, tra questi anche il vincitore Brasile, che per il resto offre una stanca rilettura del mito fondativo di Brasilia e un’installazione che dovrebbe guardare al futuro ma non ne mostra traccia. Il pavimento in terra era rivoluzionario sotto i piedi delle ballerine di Pina Bausch o nel teatro shakespeariano di Brook e Ostermeier: qui è solo un odoroso déjà vu. Numerose le ricerche che mirano ad ottimizzare le risorse evitando gli sprechi (Bahrein, Finlandia, Olanda, Spagna), a salvaguardare la biodiversità (Cile) o a produrre nuovi materiali da costruzione naturali e rinnovabili (Belgio). Ricorre in molte ricerche la volontà di studiare un tema che, proprio nei giorni in cui la Biennale festeggiava la sua inaugurazione, si è rivelato drammaticamente attuale: il rapporto tra costruzione e acqua. L’alluvione in Romagna esplicita da vicino l’urgenza dei lavori dedicati allo studio delle foci (Filippine), delle strutture a contatto con l’acqua o sotto di essa (Argentina, Grecia, Georgia), delle città costiere (Danimarca).
Oltre al circuito classico della Biennale, Venezia presenta un ricco ventaglio di offerte diffuse in città: a Palazzo Franchetti la monografica di Kengo Kuma e il padiglione Quatar, sull’Isola di San Giorgio maggiore gli spazi della Santa Sede e la Fondazione Cini, in centro le tre sedi dell’European Cultural Center e molto altro. Approfondiremo i contenuti nei prossimi articoli; a chi va a Venezia in cerca di architettura consigliamo scarpe comode, perché dovrà fare molti chilometri per trovarla.