L’architettura per l’ospitalità
Parlare di immigrazione oggi significa partecipare a un dibattito politico. È da questo ambito, infatti, che arrivano le maggiori retoriche volte a infiammare la scena internazionale, ed è sempre da questo ambito che si auspica possano giungere in futuro soluzioni per risolvere un fenomeno di carattere universale. L’immigrazione può diventare una risorsa o trasformarsi in problema in funzione dei modi in cui i luoghi di provenienza, transito e destinazioni rispondono a questi processi di cui la politica è lo strumento privilegiato (non l’unico e solo) con il quale i governi nazionali e le organizzazioni transnazionali si propongono di condizionare questo fenomeno.
Dentro questo articolato scenario riflettere sul valore architettonico degli spazi destinati all’ospitalità delle popolazioni migranti può diventare un terreno scivoloso che offre il fianco a speculazioni di carattere ideologico. Per tale ragione proponiamo ai lettori una chiave interpretativa che elude ogni retorica e affronta questi temi con uno sguardo unicamente disciplinare, rifuggendo ogni riferimento a ideologie e politiche. Nella consapevolezza che soluzioni strategiche possono arrivare solo da altri ambiti (quello politico), proveremo a ragionare sui motivi per i quali questo tema è interessante da un punto di vista compositivo e urbano e quali siano gli elementi di maggiore rilevanza architettonica. Con questa posizione non pretendiamo di sottrarci alle nostre responsabilità di critici e cittadini, ma rivendichiamo l’autonomia del pensiero disciplinare che su questi temi deve isolarsi dalle pressioni esterne per tornare a riflettere sull’architettura, sullo spazio e sull’ospitalità.
Innanzi tutto, una prima considerazione. È necessario riconoscere questo argomento come opportunità di progetto straordinaria sia per gli architetti che per la città. Fino a ora le forme attuative delle politiche migratorie sono state inserite in una dimensione emergenziale, demandando a tecnici iper-specializzati (quasi mai architetti) la costruzione di soluzioni ridotte alla reiterazione di schemi più o meno collaudati. Questa modalità, se comprensibile sotto molti punti di vista (la ristrettezza di tempo, l’immediatezza della produzione, il difficile coordinamento di molteplici soggetti, la gestione internazionale delle risorse ecc.), sottrae alla riflessione disciplinare un tema che coinvolge i modi d’abitare di milioni di persone, e relega questo ambito all’interno di una sorta di limbo in cui l’emergenza del fenomeno giustifica ogni tipo di architettura. Ciò avviene sia in ambito europeo, sia, con maggiore evidenza, nei contesti della cooperazione internazionale. I campi profughi sono forse l’esempio più eclatante. Costruiti nel drammatico clima dell’emergenza, vengono pianificati attraverso aggregazioni funzionaliste che non considerano il complesso sistema spaziale che regge le comunità coinvolte e la loro evoluzione nel tempo. Vengono organizzati in forma provvisoria pur sapendo che la transitorietà della soluzione nella maggior parte dei casi si trasforma in permanente, condizionando gli abitanti a vivere in un clima di provvisorietà costante. Sempre più spesso, infatti, questi luoghi si trasformano in parti di città in cui le modalità aggregative iniziali si trasformano in vincoli di carattere urbano. Un esempio: nell’evoluzione abitativa di un campo profughi le tende di prima accoglienza vengono quasi sempre sostituite da shelter semipermanenti e questi da case definitive. Le dimensioni e geometrie degli appezzamenti di terra disegnati inizialmente per ospitare soluzioni provvisorie e i sentieri tracciati per accogliere percorsi pedonali si devono adeguare a nuovi usi che trasformano le tende in edifici, i sentieri in strade e i campi in città. È un processo lento, prodotto informalmente dagli abitanti stessi, che vede negli schemi geometrici iniziali i vincoli della «forma urbis» della città di domani. La condizione emergenziale in cui vengono pianificati inizialmente i campi profughi ignora questo complesso fenomeno evolutivo condannando milioni di abitanti a vivere in condizioni disagiate. Questo esempio ci consente di evidenziare come la pianificazione e la progettazione architettonica rivestano un ruolo fondamentale nella definizione qualitativa delle strutture dedicate all’accoglienza delle popolazioni migranti sia per gli utenti che vi abitano, sia per il contesto in cui si inseriscono. Occuparsi di questi territori significa innanzitutto volgere lo sguardo là dove i problemi si mostrano con maggiore crudezza senza rifuggire le difficoltà che l’emergenza pone alle discipline che governano lo spazio. Significa riappropriarsi di un tema che nel passato ha costruito i fondamenti della disciplina architettonica, se consideriamo che il Movimento Moderno ha fatto della ricerca di soluzioni abitative per le nuove popolazioni urbane che migravano nelle città industrializzate uno dei campi di sperimentazione privilegiati.
Gli elementi architettonici che rendono rilevante questo tema sono molti, così come enormi sono le opportunità spaziali urbane che si potrebbero generare all’interno della città. Di seguito si proverà a evidenziare quattro temi di progetto tra i più significativi.
Il primo riguarda gli aspetti tipologici. Molte funzioni connesse ai temi dell’ospitalità per l’immigrazione sono inedite e poco diffuse. Non esistono riferimenti consolidati per la progettazione di un centro di prima accoglienza, un centro di registrazione richiedenti asilo, un campo profughi internazionale o le altre molte funzioni che caratterizzano questo ambito. Spesso le esperienze realizzate ricalcano schemi funzionalisti dedotti dalle normative vigenti e dai regolamenti governativi senza un’adeguata riflessione sullo spazio domestico. È interessante evidenziare come questi luoghi oscillino tra le funzioni residenziali e quelle di servizio integrando spesso le prime con le seconde. In questo senso si apre un enorme campo di sperimentazione in cui verificare e consolidare nuove forme aggregative dedotte anche da tipologie affini. Ad esempio le residenze temporanee, così come uffici e scuole, possono essere dei riferimenti tipologici praticabili nell’ibridazione di categorie totalmente nuove. È un campo inesplorato nel quale l’architettura riveste un ruolo cruciale anche per la capacità di coniugare tra loro regolamenti con spazi e sistemi distributivi con principi insediativi. In questo processo gli aspetti legati alla sicurezza giocano un ruolo centrale poiché condizionano le possibilità di relazionare e ibridare i differenti ambiti. In alcuni casi la libertà di movimento è estremamente limitata assimilando questi luoghi ad aree di detenzione in cui la rigorosa separazione dei comparti e l’impermeabilità del recinto e degli involucri edilizi condizionano gli aspetti planimetrici del progetto. In altri casi le relazioni con l’intorno sono precluse dalla localizzazione scelta per insediare queste funzioni: si constata come nella maggior parte dei casi i luoghi siano aree interstiziali, periferiche e di risulta. Ne consegue che la relazione tra principi insediativi e scelte tipologiche si contrae per estraniarsi dal contesto generando progetti introversi, esito di una segregazione geografica che spesso è il preludio di quella sociale. Questi fattori concorrono tra loro in un percorso del tutto innovativo finalizzato alla definizione tipologica di nuove figure urbane strumentali al funzionamento della città.
Il secondo tema riguarda le potenzialità legate alla prefabbricazione di moduli abitativi. Alle diverse scale e condizioni insediative si registra un rinnovato bisogno di soluzioni abitative che siano velocemente realizzabili, trasportabili anche in contesti svantaggiati (post disastro naturale), facilmente assemblabili (anche da mano d’opera non specializzata) e smontabili a fine uso. Oltre a queste caratteristiche di base, negli ultimi anni si sono registrate due ulteriori aspirazioni: che siano ecologicamente sostenibili e riutilizzabili per futuri usi. Queste soluzioni sono necessarie sia nei contesti di cooperazione internazionale, in cui l’immediatezza della produzione edilizia è resa possibile solo dall’uso di strutture prefabbricate, sia nei contesti europei in cui la temporaneità dell’intervento impone sistemi costruttivi rimovibili. Nel primo caso si tratta di shelter come possibili alternative alle tradizionali tende. La trasportabilità di questi elementi è una delle chiavi di successo del progetto che si ripercuote nella scelta dei materiali, nel peso delle strutture e nelle capacità di stoccaggio nei container di trasporto. All’interno di questo ambito le più recenti ricerche stanno sperimentando l’uso di strutture che favoriscano processi incrementali in cui un modulo base adatto alla prima emergenza possa essere ampliato e la qualità della costruzione incrementata attraverso ampi gradi di flessibilità (anche utilizzando materiali locali come terra o fibre vegetali). L’idea è quella di realizzare un nucleo iniziale che garantisca la qualità statica della costruzione, demandando a processi di autocostruzione e capability building la personalizzazione del manufatto edilizio. Questo approccio consente di integrare all’interno dello stesso progetto sia processi industrializzati sia quelli informali che caratterizzano questi contesti, integrando la dimensione temporale nel processo evolutivo del progetto e offrendo inedite possibilità di appropriazione dei luoghi da parte di chi vi abita.
Anche in contesti molto differenti, come quelli europei, l’uso di strutture prefabbricate dedicate all’ospitalità delle comunità migranti è ampiamente diffuso. Le diverse soluzioni possono essere riconducibili a due differenti tipologie. La più radicale prevede l’uso di moduli abitativi finiti (anche con arredi interni), trasportati in loco, e semplicemente assemblati in poco tempo per la realizzazione di centri di accoglienza transitori. La questione temporale è la chiave del progetto poiché non necessita di proprietà di suolo e le strutture consentono il totale montaggio e smontaggio in pochi giorni. I maggiori vincoli sono rappresentati dai limiti per il trasporto su strada (larghezza e lunghezza dei bilici) e dal peso di sollevamento delle gru che condiziona la geometria, la dimensione, i materiali e le tecniche costruttive dei singoli moduli.
Di questa tipologia gli interventi più estremi sono quelli che adattano i container industriali per il trasporto a usi abitativi in modo da ottimizzare il trasporto del modulo sperimentando inedite forme aggregative e di riuso degli elementi industriali. Una seconda tipologia mostra l’uso di componenti prefabbricati assemblati in cantiere con l’obiettivo di rendere più veloce la costruzione e rispondere con maggiore efficienza agli aspetti emergenziali del progetto. In questo secondo caso l’uso dei materiali è riconducibile a una più tradizionale filiera edilizia nella quale si riscontra il sempre più diffuso uso di strutture in legno.
Questi esempi nella loro diversità evidenziano un aspetto comune di estremo interesse: la rilevanza dell’industria della prefabbricazione nel progetto architettonico che, anche in questo caso, offre molteplici opportunità di ricerca e sperimentazione nella connessione architettonica tra composizione e costruzione.
Il terzo tema riguarda la relazione tra utenti e spazio. Gli aspetti identitari delle comunità migranti sono di difficile classificazione, così come le culture di provenienza poiché vincolate a un complesso mosaico etnografico in continua mutazione. I flussi portano soggetti provenienti da luoghi differenti tra di loro e mutevoli nel tempo. Se, ad esempio, fino a pochi anni fa prevaleva in Europa una migrazione proveniente dall’est, nel recente passato si è riscontrata una forte affluenza di popolazioni originarie della Siria e del Nord Africa. Le statistiche internazionali mostrano come il fenomeno sia in continua evoluzione in termini sia quantitativi che qualitativi. Questa indeterminatezza (non sapere per chi si progetta) si riverbera inevitabilmente sull’architettura dello spazio domestico e sposta l’attenzione dagli aspetti identitari a quelli fenomenologici. In questo senso acquista maggiore rilevanza focalizzarsi sulle caratteristiche e sulle esperienze che accomunano questi soggetti, piuttosto che aspirare a ricomporre il mosaico di un’identità collettiva dalla quale inevitabilmente qualcuno rimarrà escluso. Ciò che unisce queste persone è la natura traumatica del viaggio e lo stato emergenziale dei luoghi di provenienza. Questi ospiti sono soggetti fragili, che hanno subito esperienze disumane. Come avviene per altre fragilità sociali (anziani, bambini, malati ecc.), questa condizione impone una maggiore attenzione alla qualità spaziale privilegiando ambienti in cui i beneficiari possano ritrovare la serenità perduta. Diventa cruciale, quindi, ricercare quello che Gino Strada (presidente dell’ONG italiana Emergency) definisce «diritto al bello» riferendosi alla necessità di architetture di qualità, curate e belle anche nei contesti estremi, dove soggetti traumatizzati possano trovare un nuovo equilibrio. Inoltre questi spazi devono rispondere a una sempre maggiore domanda di flessibilità: non potendo definire in forma univoca le culture di provenienza vale la pena ragionare su spazi flessibili, adattativi, evolutivi e facilmente trasformabili. In questo senso si riesce da una parte a rispondere al bisogno di non connotare in maniera univoca le architetture, e dall’altra di assicurare un senso di appartenenza agli abitanti che poco alla volta trasformeranno in luoghi d’uso. Ripercorrendo l’esempio dei campi profughi la relazione tra architettura e beneficiari si manifesta nel progetto di shelter adatti a contesti e comunità differenti, ma al tempo stesso trasformabili nel tempo in modo che possano evolvere in case definitive attraverso il coinvolgimento degli abitanti stessi. In queste riflessioni si riconosce come il progetto architettonico si nutra di un inedito rapporto tra spazio e beneficiario, con un’attenzione particolare agli aspetti di maggiore fragilità.
L’ultimo tema da evidenziare si connette al precedente e riguarda il progetto degli spazi comuni. Considerando la natura dei beneficiari, il contesto di estraneità nel quale si ritrovano, il confluire di gruppi etnicamente disomogenei, i centri d’accoglienza nelle loro varie forme e articolazioni possono essere considerati da chi vi approda come un rifugio sicuro. Probabilmente il primo luogo di pace dopo un percorso traumatico e doloroso. In questo senso il progetto si carica di una forte valenza simbolica che inevitabilmente ha ricadute sull’architettura. In particolar modo, nei pochi esempi realizzati si può osservare una maniacale attenzione agli elementi che concorrono alla costruzione degli spazi comuni. Come avviene nella città consolidata in cui lo spazio pubblico (il parco o la piazza) rappresenta il luogo in cui l’immigrazione si ritrova, si incontra e si identifica, nelle funzioni dedicate all’ospitalità gli spazi comuni sono i dispositivi in cui la comunità si può innanzi tutto costruire e successivamente riconoscere. Non a caso è ricorrente la disposizione planimetrica di corpi di fabbrica intorno a uno spazio centrale, un cortile o un patio, che funge da catalizzatore identitario della comunità stessa. La classica corte, declinata in varie forme, simboleggia e riunisce la comunità che vi abita. Gli spazi aggregativi (cortili, cucine e lavanderie) diventano i luoghi preposti alla «ricostruzione» della quotidianità domestica dei beneficiari sui quali si concentrano maggiormente gli sforzi progettuali. Ad esempio, il Centro per richiedenti asilo di Cadro - Lugano a opera dell’arch. Calori – pubblicato qui – presenta un edificio a U con un cortile centrale che ospita le aree di gioco e orienta i sistemi distributivi. Nel braccio corto del corpo di fabbrica trovano spazio le cucine comuni sorprendentemente suddivise in singoli moduli in modo che ogni famiglia sia dotata di un frigorifero, una dispensa, un lavandino e dei fuochi a uso esclusivo all’interno di un ambiente condiviso con altre famiglie. Questa struttura garantisce da una parte la privacy familiare (riducendo le possibilità di conflitto sociale), dall’altro ricostruisce una sfera comunitaria di convivenza collettiva. Il progetto a opera di Atelier Rita per un Centro d’Emergenza per Migranti e Rom a Ivry-sur-Seine - Parigi presenta una successione di edifici residenziali in linea di due piani disposti in modo da lasciare al centro del lotto un grande spazio colonizzato da strutture a tenda di forma circolare dedicate alle funzioni collettive. Anche in questo esempio si può riconoscere lo sforzo architettonico di evocare in forma simbolica l’unicità dello spazio collettivo attribuendo ad esso un valore iconico e spaziale speciale.
La prefabbricazione, l’innovazione tipologica, l’attenzione agli spazi comuni e alla relazione tra utenti e architettura sono solo alcuni dei temi che rendono i luoghi dell’ospitalità per l’immigrazione una funzione di straordinario interesse che non può essere ignorata dalla riflessione disciplinare. Riconquistare questo tema come terreno di sperimentazione è un’opportunità per riflettere sui valori del progetto architettonico e urbano. Attendiamo fiduciosi che la politica faccia il suo corso e che il dibattito abbandoni i tratti dello scontro ideologico per tornare a riflettere sui contenuti, sui valori e sulla qualità architettonica di questi luoghi.
18 studenti per un Centro comunitario
La realizzazione del Centro Comunitario nel Campo Profughi dell'ex Caserma Spinelli a Mannheim (Germania) ha visto coinvolti 18 studenti della facoltà d’architettura TU Kaiserslautern sotto la direzione del prof. Stefan Krötsch e del prof. Jürgen Graf. Questo edificio si articola con semplicità intorno a quattro spazi aperti attraverso una struttura in legno rigorosa ed elegante. Non risponde a una specifica necessità, ma ha l’ambizione di costruire uno spazio neutro dedicato all’incontro e al raccoglimento.
Legno svizzero per ospitare migranti
L'architettura dell'ospitalità si appoggia spesso a soluzioni prefabbricate, in grado di rispondere rapidamente e con facilità alla necessità di nuovi alloggi. La piattaforma svizzera «Alloggi di legno per migranti», promossa da Lignum, Holzbau Schweiz e FRECEM (Fédération Romande des Entreprises de Charpenterie, d'Ébénisterie et de Menuiserie), fa di tale bisogno l'occasione per promuovere l'utilizzo del legname locale, enfatizzando come esso permetta di realizzare in tempi brevi strutture flessibili e sostenibili. Nel sito sono elencate aziende che si sono già confrontate con la produzione di prefabbricati in legno e vengono forniti indirizzi utili e informazioni.