Pon­ti so­spe­si, al con­tra­rio

La breve storia del ponte «tipo Maillart» in Italia

Un ponte detto «tipo Maillart» si aggira per l’Italia. Non ce ne sono molti esemplari: poco più di una decina. Hanno una storia comune: legati da un filo rosso che fa avanti e indietro con la Svizzera. Sono «imitazioni» di una delle invenzioni di Robert Maillart: il ponte ad arco sottile e impalcato irrigidente.

Publikationsdatum
05-10-2021
Tullia Iori
Storica dell’ingegneria, responsabile scientifico del progetto SIXXI presso l’Università degli studi di Roma Tor Vergata

È la versione messa in opera per la prima volta nel 1923 sul Flienglibach, lungo il perimetro del lago di Wägital. Qui Maillart traduce in cemento armato gli insegnamenti universitari di Wilhelm Ritter sui ponti ad arco irrigidito da travi reticolari, diffusi negli Stati Uniti in acciaio o in legno. Dopo questo primo prototipo, progetterà dodici ponti di questo tipo, gli ultimi completati nel 1933 sullo Schwandbach e sul Toss a Winterthur.1 Ma come arriva in Italia questa soluzione? E quando? Lo possiamo dire con precisione: attraverso due ingegneri, progettisti e scienziati: Adriano Galli e Giulio Ceradini.

Gli italiani sbirciano

Galli, laureato nel 1928 alla Regia scuola di Ingegneria di Napoli con il massimo dei voti e subito incaricato della supplenza dell’insegnamento di «Costruzioni» e poi, nel 1929, nominato assistente volontario di Statica grafica, vince una borsa – intitolata al Principe di Piemonte – per un periodo di studio all’estero. Viene ammesso da Mirko Roš come «collaboratore scientifico» nel Laboratorio federale di prove dei materiali del Politecnico di Zurigo, dove trascorrerà, ventottenne, le ferie estive del 1932: in quel momento non c’è luogo migliore al mondo per quello che oggi chiameremmo un proficuo periodo di Visiting Researcher. Non sappiamo nel dettaglio di cosa si sia occupato in quell’estate: forse ha anche conosciuto personalmente Maillart, certamente ha avuto a che fare con le sue opere.

Approfondimento «Il bombardamento dei ponti sul Po»

Roš, infatti, diventato direttore del Laboratorio nel 1925, era grande amico di Maillart con cui sembra andasse a pranzo tutti i sabati, quando era a Zurigo, insieme anche a Carl Jegher, l’editore della rivista «Schweizerische Bauzeitung», ereditata dal padre nel 1924. Ma, soprattutto, Roš era a fianco di Maillart in tutte le occasioni staticamente rilevanti: il 29 settembre 1926 per l’esecuzione delle prove di carico sul ponte sul Valtschielbach, il secondo ad arco sottile e impalcato irrigidente; così anche il 18 agosto 1930, quando viene abbassata la monumentale centina dell’arco a tre cerniere sulle gole del Salgina. E poi anche in seguito: il 29 ottobre 1935 è Roš a far eseguire, a due anni di distanza dall’apertura al traffico, complesse prove di carico sul ponte ad arco sottile in curva sullo Schwandbach. E il 2 febbraio 1940, riconoscibile in tutte le foto, assiste vicino a Maillart alla distruzione controllata della Cement Halle a Zurigo. Insomma, Roš è uno scienziato ma conosce queste strutture quasi meglio del progettista stesso: anche perché, dopo la morte di Maillart, il 5 aprile 1940, continuerà a sorvegliarle e averne cura.

Al giovane Galli, la breve esperienza in Svizzera offre la possibilità di osservare da vicino la collaborazione virtuosa tra un teorico curioso, interessato a svelare il reale comportamento di un materiale, il cemento armato, ancora misterioso, e un progettista geniale, innovativo e instancabile. Combinare teoria e pratica sarà uno degli insegnamenti che riverserà nell’Ateneo di Napoli, al rientro. Naturalmente, Galli ha anche l’occasione unica di sbirciare tutti i calcoli, tutti i disegni e i report delle prove di carico dei ponti di Maillart.

Nel 1942, poi, arriva dall’Italia un altro ingegnere, Giulio Ceradini, ancora più giovane, ventiquattrenne, laureato con lode a Roma alla fine del 1941. Resterà con Roš fino a dicembre 1946, quattro lunghi anni in cui l’Europa è devastata dalla seconda guerra mondiale, a cui Ceradini sta cercando di sfuggire. Sarà coinvolto in molte ricerche, tanto da firmare insieme a Roš diverse relazioni delle attività del laboratorio, a partire dal XV aggiornamento del report n. 99, datato genericamente 1943-1945, dedicato a molte prove ed esperienze su costruzioni in cemento armato realizzate in territorio svizzero. Al rientro in patria, assunto il ruolo di assistente alla cattedra di Aristide Giannelli e operativo nel suo nuovo Centro studi sui ponti, finanziato dal CNR, mette immediatamente in pratica quello che ha imparato.

In Italia, oltre a Galli e Ceradini, chi conosce Maillart? Pochi. Alcuni fortunati lo hanno magari incontrato nei rari congressi tecnici dedicati alle strutture, tenutisi tra le due guerre: forse a Vienna nel 1928, forse a Parigi nel 1932, certamente a Liegi, all’inizio di settembre del 1930, quando Maillart tiene la sua relazione sui ponti ad arco in Svizzera durante il Primo congresso internazionale del cemento e del cemento armato (primo e unico, per altro). Qui è presente una nutrita delegazione italiana, tra scienziati, progettisti e imprese di costruzione. Ma, al rientro, sulle riviste tecniche nazionali, di quella presentazione si registra solo il titolo, mentre gran parte dei resoconti sono dedicati a Eugène Freyssinet e al celebre video dello spostamento della centina galleggiante del ponte di Plougastel che ha impressionato la platea e lo stesso Maillart.

Poi, nel giugno del 1935, la diffusa rivista «L’industria italiana del cemento» recensisce un articolo pubblicato su «The Concrete Way»: le due paginette sono erroneamente titolate «Alcuni ponti di Robert Waillart [sic]».2 Il testo, firmato da Bruno Bolis (che invece il nome lo scrive correttamente, anche se italianizza Roberto) presenta con poche figure alcuni ponti realizzati, valorizzando la modernità della forma rispetto a soluzioni «d’altri tempi e d’altri sistemi». Descrivendo in generale la selezione, afferma: «il ponte si svincola da ogni tradizione relativa alle vecchie e impacciate opere murarie, e trae la sua novella forma da una perfetta aderenza alle necessità della struttura». Nell’articolo, nessuno spazio viene lasciato agli aspetti tecnici, ma il ponte sullo Schwandbach è già definito ad «arcata sistema Maillart».

Solo qualche mese dopo, il 18 novembre, le sanzioni all’Italia, deliberate dalla Società delle nazioni per aver invaso l’Etiopia, avviano il regime di autarchia: le conseguenti restrizioni imposte dal fascismo all’impiego del cemento armato faranno tornare di gran moda proprio le «vecchie e impacciate opere murarie». Maillart dovrà aspettare ancora un po’ per farsi apprezzare in Italia: adesso è tempo di guerra.

Gli italiani costruiscono

Il 20 dicembre 1947 Ceradini esegue, alla presenza del direttore dei lavori e del collaudatore, le misure di deformazione durante le prove di carico del ponte «tipo Maillart» sul fiume Nera, vicino Narni: come si comporterà la struttura, appena completata, al passaggio dei rulli compressori, riesce ancora a immaginarlo solo lui!

Per gli altri, Maillart è uno sconosciuto: Ceradini ha portato con sé dalla Svizzera il volume scritto da Roš in occasione della morte ma probabilmente è l’unica copia presente in Italia (conservata ancora oggi nella biblioteca del suo Dipartimento).3 È vero che al Moma di New York , dal 24 giugno al 13 ottobre di quell’anno, c’è già stata la mostra monografica, curata da Sigfried Giedion, con le belle fotografie e qualche piccolo modello in legno. Ma chi, dall’Italia dell’immediato dopoguerra, può essere andato a vederla?

Solo nel 1949 Max Bill pubblica la sua fondamentale monografia in tre lingue4 che Mario Labò subito commenta sulla «Rivista del movimento Comunità», con tante figure dei «trasparenti» ponti «in lastra sottile».5 «Comunità» non è però ancora molto diffusa e Labò non fa testo: è un esperto, conosce Bill da quando ha realizzato il padiglione svizzero alla VI Triennale di Milano nel 1936, e poi sta traducendo, con la moglie, Spazio, tempo ed architettura di Giedion per i tipi di Hoepli, che riserva ampio spazio a Maillart ma che uscirà solo nel 1953. Soprattutto, ha visto personalmente la Cement Halle: «ricordiamo bene che non riuscivamo a staccarcene, in quella memorabile estate della mostra dei capolavori del Prado a Ginevra, e dell’alleanza russo-tedesca, tanto era il suo fascino». Così, ancora nel 1951, quando Ceradini firma un articolo sul «Giornale del Genio Civile» riferendo delle prove su ponti «tipo Maillart» ormai accumulate, nella prima nota, riepiloga ai lettori i tanti ponti progettati dall’ingegnere svizzero, non così sicuro che siano di pubblico dominio.

Il ponte sul Nera, il cui arco ribassato ha circa 50 metri di luce, è stato disegnato da due suoi compagni di università, gli ingegneri Arrigo Carè e Giorgio Giannelli (figlio di Aristide): non hanno ancora trent’anni. Affidare a neofiti la costruzione di un ponte secondo un modello inedito, sembra una follia: ma in Italia, durante la guerra, sono stati distrutti, dall’aviazione anglo-americana e dai guastatori nazisti in ritirata, 12 mila ponti. Quindi va bene tutto: nuovi progettisti, nuove tipologie, nuove minuscole imprese. Bisogna ricostruire in fretta e tutti gli ingegneri, anche alle prime armi, si mettono a disposizione del Paese.

Ceradini convince i suoi amici a replicare il modello svizzero di cui ha ben chiaro lo schema strutturale: «è molto simile a quello dei ponti sospesi, con la variante che alla fune tesa viene sostituito l’arco sottile compresso ... L’arco sottile resiste agli sforzi normali, ma non ai momenti flettenti, a causa del suo limitato momento d’inerzia; i momenti flettenti provocati dai carichi e dalle variazioni di temperatura sono assorbiti dalla trave irrigidente». Questo consente un «notevole alleggerimento della centina e un più razionale sfruttamento delle armature metalliche».6 Insomma, un ponte autarchico, perfetto nell’Italia del dopoguerra.

Solo pochi mesi dopo, il 13 marzo 1948, esegue analoghe prove sul ponte sul fiume Frigido a Massa Carrara, firmato dagli stessi amici. Fa continuamente riferimento a formule studiate nel laboratorio svizzero e a fenomeni analoghi osservati da Roš direttamente sui ponti di Maillart.

Poi, a maggio dello stesso anno, i tre, stavolta insieme, partecipano ai bandi di appalto-concorso per la ricostruzione di due ponti costruiti all’inizio del secolo da Attilio Muggia, secondo il modello Hennebique, le cui arcate sono state distrutte dalle mine. Vincono, con la piccola impresa Nino Ferrari, che aveva costruito gli originali, prima il ponte sul Magra tra Caprigliola e Albiano e poi, poco lontano, quello sul Vara a Piana Battolla. Per quest’ultimo l’amministrazione approva una soluzione «tipo Maillart», anche se un po’ rivisitata. Per l’altro, sul Magra, presentano due versioni progettuali: un ponte ad arco sottile e impalcato irrigidente e un ponte in cui per cinque volte si ripete l’arcata sagomata e a tre cerniere del ponte sul Salginatobel. L’amministrazione qui preferisce quest’ultima versione, che consente di salvare quel che resta delle pile: con la soluzione isostatica potranno ancora assestarsi un po’ senza compromettere la stabilità generale. Sottoposto a prove di carico il 20 ottobre 1949, il ponte resterà in opera, senza mai controlli, fino all’8 aprile 2020, per poi crollare – in pieno lockdown da pandemia Covid, quindi scarico – per un cedimento della spalla sinistra, che ha innescato un rapido effetto domino sulla sequenza di arcate.

E Galli? Ha avuto una rapidissima carriera: già nel 1946 ottiene la cattedra di Scienza delle costruzioni all’Università di Napoli. Nel frattempo, raccontando dei ponti «ad arco sottile e impalcato irrigidente» visti in Svizzera, ha «sedotto» un giovane brillante ingegnere: Vincenzo Franciosi, laureato a luglio 1945 e abilitato alla libera docenza di Scienza delle costruzioni già nel 1952.

Insieme conducono alcuni complessi studi teorici, basandosi sulla relazione inversa con i ponti sospesi, già ampiamente risolti, e formulando modelli per il calcolo analitico della spinta dell’arco;7 poi effettuano, nel laboratorio nell’Istituto universitario, una lunga serie di prove su un modello in scala 1:20, di 4 metri di luce, prove che consentono di studiare la tipologia oltre la fase elastica, fino a rottura, e gli effetti torsionali in caso di geometria in curva. Soprattutto, progettano almeno due ponti, caratterizzati da una «quasi spietata evidenza statica»: il piccolo ponte sul torrente Vernotico tra Gragnano e Lettere, non lontano da Pompei, di circa 30 metri di luce, e il ponte sul Corace per la strada tra Gimigliano e Tiriolo, vicino Catanzaro, di 80 metri di luce, entrambi completati nel 1955. Sul maggiore, il 4 maggio 1956 si effettuano le prove di carico: Galli però è scomparso, improvvisamente, a gennaio di quello stesso anno. Ma la sua scuola continuerà ad applicare quel bel modello da lui importato.

Dice Franciosi di questi ponti: «Un esteta puro, anzi uno storico dell’arte, potrebbe essere addirittura tentato di inserire le strutture a volta sottile in una tradizione mediterranea, particolarmente arabo-normanna, che trova innumerevoli testimonianze nelle costruzioni a volta ellittica pullulanti sulla costa tirrenica sotto Napoli e in particolare sulla costiera di Sorrento e di Amalfi, nelle ardite arcate delle ville di Ravello, nelle sottili volte orientali di Vieste e di Peschici, nei trulli pugliesi, in quelle autentiche strutture in foglio che sono le coperture realizzate con cosi rara perizia dai maestri siciliani». Poi, visto che il gradiente termico stagionale è, nel Sud Italia, di gran lunga inferiore rispetto a quello tipico delle Alpi svizzere (gradiente che aveva innescato cavillature e distacchi di cemento nel ponte sul lago di  Wägital, al punto da richiedere un intervento, forse eccessivo, di chiusura dei timpani), arriva a concludere: «la struttura a volta sottile ha nelle nostre contrade addirittura maggiori possibilità di affermazione che non in Svizzera, suo luogo di nascita».8

Forse è questa suggestione ad attirare in Italia Ernst Schmidt, ingegnere nato a Basilea, formato al Politecnico di Zurigo e che, negli anni intorno alla guerra, lavora nel Laboratorio di Roš, dove forse conosce Ceradini. Nel 1953 Schmidt, insieme ad Antonio Benini, che proprio come Ceradini è assistente di Giannelli a Roma, progetta una delle più spettacolari sequenze di ponti «tipo Maillart»: lungo la costiera amalfitana, tra Cava dei Tirreni e Salerno, passando per Vietri. I ponti Olivieri, Caiafa, Madonna degli Angeli, S. Liberatore, Surdolo e Rotolo superano uno dietro l’altro le valli a picco sul mare, sicuri nella loro leggerezza di non turbare il magnifico paesaggio naturale. Il ponte Caiafa ha quasi 110 metri di luce, ma la volta in chiave è spessa appena 30 centimetri: l’impalcato invece è irrigidito da una trave di spina centrale che consente di sfalsare di quota le carreggiate, adattandole così al pendio della costa. L’operazione è così pregevole che Schmidt si aggiudica, nel 1961, il premio regionale per la Campania dell’In-Arch, l’Istituto Nazionale di Architettura, premio inconsueto per un’autostrada. Dopo qualche altro incarico per la Grassetto, tornerà a operare in Svizzera conservando una speciale grazia nella concezione delle strutture.9

Il ponte «tipo Maillart», nella dimensione perfetta di circa 50 metri di luce, si diffonde per un po’ nel favorevole clima mediterraneo: in Sicilia, dove nel 1956 Giulio Supino e Giorgio Wetter firmano il progetto per il ponte di Madonna delle Grazie, vicino Palermo; in Basilicata, dove è ultimato nel 1958 il ponte sul Lappio per la strada statale 481, progettato da Giuseppe Sambito,10 assistente nell’Istituto di Napoli diretto da Galli e poi da Franciosi; in Puglia, sulla gravina di Laterza, in provincia di Taranto, di autore ignoto, inaugurato nel 1962; e infine sulla strada litoranea che conduce alla punta più estrema della penisola, a Santa Maria di Leuca, dove Antonio La Tegola,11 della scuola napoletana, disegna il ponte del Ciolo, collaudato alla fine del 1966, in un panorama mozzafiato.

Ma il ponte «tipo Maillart» torna anche al Nord, sulle Alpi, per opera di un altro ingegnere napoletano collaboratore di Galli, Alfredo Passaro: a luglio 1957 progetta il ponte sulla Dora Riparia, tra Chiomonte ed Exilles, completato alla fine del 1959 mentre all’inizio del 1960 si chiude anche il cantiere per la costruzione del ponte analogo sul rio Costa, lungo la strada di Valvestino, a Gargnano, in provincia di Brescia.12

Poi però la soluzione viene accantonata. In Italia, in verità, sparisce proprio il ponte ad arco: per diverse ragioni. La prima è l’entrata in vigore nella nuova normativa antisismica del 1964, che ritiene la forma spingente poco adatta al territorio italiano, tutto a forte rischio. A questo si aggiunge il parere spesso contrario delle soprintendenze, che non «gradiscono» ponti ad arco in zone tutelate paesaggisticamente, perché troppo «ingombranti» visivamente. Diventa invece di moda la nuova versione, ritenuta più astratta, di ponte a pile altissime e travata rettilinea.

I «tipo Maillart», difficili da calcolare, adatti solo a progettisti con una buona preparazione matematica, sono dimenticati: anche quelli già realizzati! Le rare volte in cui sono sottoposti a manutenzione, il loro comportamento statico è stravolto con un massiccio ispessimento, come nel caso del ponte sul Ciolo; talvolta, non sapendo come procedere, si preferisce chiuderli e abbandonarli, come nel caso del ponte sul Nera. Nel frattempo Christian Menn li riporta invece in auge in Svizzera, incastonandone nuove versioni nelle verdi vallate.

Ma il ponte Maillart più bello è in Italia. È quello pedonale addossato al Castello Colonna a Genazzano, realizzato tra il 1951 e il 1954 in sostituzione di un ponte-acquedotto ad archi murari danneggiato dai bombardamenti alleati nel 1944. L’esile fotogenica passerella è sfuggita, a oggi, a tutti i tentativi di attribuzione.

Note

  1. Le notizie relative all’attività di Mirko Roš sono ricavate da David P. Billington, Robert Maillart. Builder, Designer, and Artist, Cambridge University Press, Cambridge 1997.
  2. Bruno Bolis, Alcuni ponti di Robert Waillart, «L’industria italiana del cemento», 6, 1935, pp. 196-197.
  3. Mirko Roš, Maillart Robert : 1872-1940, Schweiz verband fur die Materialprufungen der Technik, Zürich 1940.
  4. Max Bill, Robert Maillart, Verlag fur Architektur, Zürich 1949, testi in tedesco, francese e inglese.
  5. Mario Labò, I ponti di Maillart, «Rivista bimestrale del movimento Comunità», 3, 4, lug-ago 1949, pp. 38-41.
  6. Giulio Ceradini, Esperienze su recenti ponti italiani in cemento armato. Nota 2. Esperienze su due ponti di cemento armato ad arco sottile ed impalcato irrigidente tipo Maillart, «Giornale del Genio Civile», 9, 1951, pp. 571-579; Giulio Ceradini, Esperienze su recenti ponti italiani in cemento armato. Nota 3. Esperienze sul ponte sul fiume Magra tra Caprigliola e Albiano, «Giornale del Genio Civile», 10, 1951, pp. 658-669.
  7. Vincenzo Franciosi, Il metodo della «linea d’influenza del secondo ordine» per la ricerca della spinta addizionale nei ponti a travata irrigidente, Arti grafiche D. Conte, Napoli 1950; Vincenzo Franciosi, Lezioni di ponti, Pellerano del Gaudio, Napoli 1954, pp. 186-212; Adriano Galli, Vincenzo Franciosi, I ponti a volta sottile ed impalcato irrigidente in regime viscoso, «L’Ingegnere», 11, 1954, pp. 1231-1236; Adriano Galli, Vincenzo Franciosi, Il calcolo a rottura dei ponti a volta sottile ed impalcato irrigidente, «Giornale del Genio Civile», 11, 1955, pp. 686-700. Si vedano anche i lavori di altri collaboratori dell’Istituto di Scienza delle Costruzioni di Napoli: Tullio Renzulli, Luigi Adriani, Aldo Raithel.
  8. Vincenzo Franciosi, I ponti a volta sottile irrigidita nell’Italia meridionale, «Le Strade», 3, 1958, pp. 99-106.
  9. Ernst und Albert Schmidt, Ingenieure. Pioniere des Brückenbaus, Park Books, Zürich 2014.
  10. Giuseppe Sambito, Un ponte a volta sottile irrigidita, «Il Cemento», 2, febbraio 1959, pp. 3-9.
  11. Antonio La Tegola, Un ponte Maillart sulla costa salentina, «L’Industria Italiana del Cemento», 6, 1967, pp. 399-406.
  12. Alfredo Passaro, Vittorio Giuliana, Il Ponte Maillart sul Rio Costa, «L’Industria Italiana del Cemento», 2, 1962, pp. 73-84.
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