Ar­chi­tet­tu­ra nel Can­to­ne Ti­ci­no

Da Tendenzen alla condizione contemporanea

La mostra Tendenzen: neuere Architektur im Tessin*, ideata da Martin Steinmann, si tenne al Politecnico di Zurigo nel 1975 e l’anno seguente a Losanna e a Bellinzona. Vi venivano presentati progetti e realizzazioni di Roberto Bianconi, Tino Bomio, Mario Botta, Peppo Brivio, Bruno Brocchi, Mario Campi, Tita Carloni, Collettivo**, Giancarlo Durisch, Aurelio Galfetti, Ivano Gianola, Marco Krähenbühl, Franco Pessina, Nicki Piazzoli, Bruno Reichlin, Fabio Reinhart, Flora Ruchat, Dolf Schnebli, Luigi Snozzi, Ivo Trümpy, Livio Vacchini

Data di pubblicazione
11-12-2017
Revision
11-12-2017
Luca Ortelli
Architetto, professore al Politecnico Federale di Losanna

Il titolo non dava adito a confusione o a malintesi: l’architettura ticinese non era riconducibile a un’unica tendenza ma si presentava come un insieme variegato, da cui il titolo significativamente declinato al plurale, in aperta contraddizione con la monolitica Tendenza delineata da Aldo Rossi nel 1962 e che la mostra tenutasi al Centre Pompidou cinque anni fa ha deformato fino a renderla irriconoscibile.1

Risultava così naturale interpretare l’architettura ticinese come architettura nel Canton Ticino piuttosto che ricondurla a un «movimento» omogeneo o a una «scuola». In seguito, l’architettura ticinese divenne uno degli emblemi del cosiddetto regionalismo critico, espressione reinterpretata e divulgata da Kenneth Frampton che ha il merito, se non altro, di rifarsi più o meno esplicitamente a una nozione geografico-territoriale quale la parola «regionalismo» lascia trasparire. A tale proposito, Nicola Navone ha giustamente affermato: «“Resistenza” è parola ricorrente nelle dichiarazioni di buona parte degli architetti cui è stata applicata l’etichetta (a mio avviso arbitraria) di “Scuola ticinese”, e alle cui opere Kenneth Frampton aveva guardato, fra altre, per esemplificare quei “sei punti per un’architettura di resistenza” posti a fondamento della sua nozione di “Regionalismo critico”».2

Le ragioni del successo dell’architettura del Canton Ticino sono molteplici e la loro enumerazione esula dagli obiettivi di questo scritto. Ne indicherei principalmente tre: la condizione provinciale, il ritardo culturale e la capacità d’inclusione. Aggiungerei anche i punti di forza e le debolezze di quella fortunata stagione. Tra i punti di forza vanno citati il disincanto, l’entusiasmo e la possibilità di costruire, mentre la debolezza principale consiste nell’irrigidimento di alcune posizioni con la conseguente frammentazione, se non addirittura l’avvento di fazioni e accanite opposizioni spesso mosse da interessi professionali personali. 

Il Cantone Ticino è da sempre provincia per motivi economici e politici fin dalla sua inclusione nella Confederazione Elvetica ma anche precedentemente. La sua storia è storia di fatiche e povertà di una terra «ai margini dell’impero». L’affermarsi sulla scena internazionale dell’architettura prodotta in questi luoghi a partire dagli anni Settanta ha incarnato un senso di rivalsa del quale i protagonisti sono sempre stati fieri, soprattutto per quanto riguarda la sudditanza nei confronti della Svizzera tedesca e di Zurigo in quanto sede della Scuola in cui molti architetti ticinesi si erano formati, mostrando spesso una comprensibile insofferenza nei confronti dell’insegnamento che vi era impartito. Ma «condizione provinciale» non è una bella espressione: fa pensare al provincialismo, termine che indubbiamente possiede una connotazione negativa. Sarebbe meglio parlare di «marginalità», sottolineando il fatto che il provincialismo sta in chi si stupisce che in un luogo «marginale» possano verificarsi fenomeni significativi. Verso la fine degli anni Settanta, la cultura architettonica italiana cominciò a esplorare una serie di situazioni marginali, rispetto al grand récit della modernità, mettendo in luce la natura disomogenea di quest’ultima e «scoprendo» esperienze architettoniche e figure di grande rilievo. Basti pensare, a questo proposito, ai Paesi scandinavi, a Pouillon, a Pikionis, a Plečnik, per citare solo alcuni casi. Da questo punto di vista, Plečnik incarna perfettamente la figura del «provinciale» se si pensa che non ottenne la direzione dell’Accademia di Belle Arti di Vienna al quale pare che Wagner l’avesse designato, perché ritenuto indegno proprio per il suo essere nato «ai confini dell’impero». Nel testo introduttivo del catalogo di Tendenzen, Heinz Ronner cita Alberto Camenzind che diceva «Non dimentichiamo che il Ticino fu una provincia fino a quando concesse agli stranieri e non ai residenti di sperimentare».3

Negli anni Sessanta e Settanta, il Ticino era caratterizzato da un visibile ritardo culturale in rapporto all’eredità del Movimento moderno o della modernità tout court. L’architettura che si produceva in Svizzera nel secondo dopoguerra era una pallida replica degli esperimenti gloriosi degli anni Venti e Trenta, epoca in cui la Svizzera occupava un posto di primo piano nell’avventura del Moderno, incarnandone le posizioni più radicali e affermando un profondo impegno politico da parte dei protagonisti. In effetti, sarebbe possibile narrare la nascita dell’architettura moderna da una prospettiva elvetica, prendendo in considerazione alcune figure chiave quali Hans Schmidt, Hannes Mayer, il più anziano Hans Bernoulli, rievocando il mitico quartiere Neubühl di Zurigo, senza dimenticare il ruolo della rivista d’avanguardia «ABC» e il fatto che il primo Congrès International d’Architecture moderne si tenne in Svizzera. E poi, naturalmente, fra i grandi architetti svizzeri moderni si staglia la figura di Le Corbusier anche se il suo cammino corre lontano e quasi parallelo rispetto alle vicende dei due architetti basilesi. Questo per quanto riguarda gli architetti, ma come non annoverare Sigfried Giedion fra i protagonisti del moderno architettonico con la sua enorme influenza internazionale? Bastano questi pochi nomi per rendersi conto del ruolo che il nostro piccolo Paese ha avuto nella definizione e nello sviluppo dell’architettura che chiamiamo moderna. Dopo la fine della seconda guerra mondiale, la produzione svizzera sembra rifugiarsi in una dimensione che ha senza dubbio «metabolizzato» l’insegnamento dell’avanguardia prendendo però le distanze dal suo implicito radicalismo. Questa architettura, un po’ scialba e priva di slancio, costituisce una sorta di ritratto del confortevole quieto vivere elvetico – ragionevolezza e misura, in mancanza d’altro e senza poter supplire a tale mancanza, sono gli ingredienti principali dell’architettura di quel periodo, quasi si trattasse di affermare la posatezza dopo l’inebriamento dell’avanguardia, dopo la disillusione e la frustrazione dei suoi ideali sconfitti. Questa architettura è comunque indice di un alto grado di civiltà, illustrazione di una sorta di pacificazione sociale in cui il welfare quasi non si percepisce tanto solidamente è inscritto nella rassicurante presenza degli edifici che hanno segnato l’infanzia di chi scrive. Una bella descrizione di questa esperienza la si trova nelle pagine di Der Siedlungsbau in der Schweiz di Julius Maurizio,4 dove vengono illustrati molti notevoli esempi di edilizia residenziale realizzati da architetti di cui abbiamo dimenticato o non abbiamo mai saputo il nome. In quegli stessi anni, la scena architettonica ticinese era dominata da Rino Tami, Alberto Camenzind e da altri architetti attivi per lo più nel settore privato. L’influenza più evidente, nell’ambito appunto dell’edilizia privata, era l’organicismo di Wright, come dimostra, fra le altre, l’opera di Franco Ponti. La visione che la Svizzera tedesca aveva del Cantone Ticino era quella di una sorta di idilliaca provincia da colonizzare come luogo di vacanza. Nei fortunati libri pubblicati alla fine degli anni Trenta da Paul Artaria5 - «tranquillo» socio di Hans Schmidt dal 1926 al 1930 – preziose e metodiche compilazioni della produzione svizzera di «Case di abitazione in pietra, cemento e legno» gli esempi ticinesi o romandi sono praticamente inesistenti. La maggior parte degli esempi scelti da Artaria corrisponde allo stesso spirito di pacata concretezza delle Siedlungen descritte da Julius Maurizio, con l’unica eccezione di alcune celebri, pionieristiche realizzazioni di Artaria & Schmidt. La centralità e l’unicità dell’approccio svizzero-tedesco sono così palesemente scontate che l’autore è ben lontano dal porsi la questione di un eventuale regionalismo. Non è dunque fuori luogo affermare che il mondo dell’architettura della Svizzera tedesca fosse in quegli anni assolutamente auto-referenziale ed esclusivo. Ancora una volta va sottolineato il fatto che anche la nozione di «ritardo culturale» non possiede necessariamente una connotazione negativa – la possiede soltanto all’interno di una visione darwinista. La storia dell’arte e la storia dell’architettura ci insegnano invece che spesso gli scarti temporali portano a situazioni di particolare intensità e di notevole capacità d’invenzione. Potremmo anzi dire che i ritardi culturali stanno allo svolgersi del tempo e alla storia come le marginalità stanno alla dimensione spaziale e alla geografia.

Ma l’intento di queste considerazioni non è quello di ravvivare una polemica nei confronti della cultura d’Oltralpe, bensì quello di sottolineare un aspetto particolarmente fecondo dell’architettura del Cantone Ticino e cioè la sua capacità inclusiva. Negli anni di Tendenzen, gli architetti ticinesi i cui lavori figuravano nella mostra, soprattutto i più giovani, guardavano al di fuori della Svizzera, il loro orizzonte era decisamente europeo e poco importa che l’Europa si trovasse a pochi chilometri di distanza, a Milano o a Venezia. Il dibattito italiano aveva ridimensionato gli anni di formazione zurighesi e aveva aperto nuove prospettive. La curiosità, mescolata al desiderio di arricchire l’insegnamento ricevuto a Zurigo, che poco aveva a che fare con le radici culturali del Ticino, rafforzò l’impeto inclusivo di cui si è detto. A proposito delle radici culturali, va detto che i protagonisti di Tendenzen prendevano ugualmente le distanze dai tentativi delle generazioni precedenti di reinterpretare gli aspetti vernacolari delle costruzioni ticinesi.6 Credo ci fossero un desiderio di abbandonare il folklore insieme all’ambizione di varcare i limiti della «condizione provinciale». In quegli anni, il centro culturale più attivo e più facilmente «abbordabile», non da ultimo per ragioni linguistiche, era Milano. Mostre, libri e riviste prodotti nel capoluogo lombardo costituivano la finestra dalla quale gli architetti ticinesi si affacciavano «sul mondo». Nella capitale lombarda il dibattito si polarizzava in due diverse visioni dell’architettura, dei suoi compiti, dei suoi strumenti e dei suoi obiettivi: schematizzando si può affermare che i protagonisti di tale polarizzazione erano Vittorio Gregotti e Aldo Rossi, ciascuno capofila di una precisa posizione, solo in parte coincidenti fra loro. E così gli architetti ticinesi si rivolsero verso l’uno o, con qualche anno di scarto, verso l’altro, portando con sé le stesse divergenze che separavano le due figure di riferimento e i loro seguaci. In Ticino si determinarono dunque affinità e incompatibilità che contribuirono all’affermazione e alla fama di alcuni e alla disgrazia di altri. Ma prima di arrivare a questo punto, va ricordato un altro elemento di forza dell’architettura che si produceva in quegli anni in Ticino, e cioè proprio il fatto che si trattasse di architettura realizzata. Questo aspetto ebbe un ruolo fondamentale e non solo perché di lì a poco si sarebbe cominciato a parlare di «architettura di carta» nei confronti dei protagonisti della stagione che verrà definita postmoderna. La possibilità di costruire i propri edifici, troppo spesso negata ai colleghi italiani, offriva l’opportunità di verifiche immediate oltre a una buona dose di sperimentazione, legata alla volontà di prendere le distanze dalle abitudini costruttive sbiadite che dominavano con poche eccezioni la scena ticinese. Contrariamente a quanto era possibile osservare nei circoli milanesi o veneziani, decisamente più strutturati e abili nella produzione di mostre e di svariate pubblicazioni, agli architetti ticinesi non rimaneva che l’operare. 

E così si produsse quella misteriosa alchimia che fa sì che per molteplici ragioni – alcune delle quali evidenti e razionali altre insondabili e difficili da spiegare – nel piccolissimo territorio ticinese si assistette alla produzione, a ritmo serrato, di una quantità di edifici di qualità indiscutibile. La qualità veniva puntualmente accompagnata dalla novità, da un modo inedito di combinare le più diverse influenze culturali e trasformarle fino a metterle in relazione diretta con il territorio. Al di là delle divergenze individuali e delle molte possibili sfumature, la nozione di territorio sarà destinata a rivestire un ruolo fondamentale nell’elaborazione del pensiero architettonico ticinese, ben più di quella di città.

Si legge spesso, a proposito dell’architettura ticinese, del ruolo di guida assunto da Rino Tami e, in misura minore, da Alberto Camenzind e da altri architetti della loro generazione. Personalmente, ritengo più utile e più efficace interrogarsi sulle rotture e sugli scarti piuttosto che sulla eventuale configurazione di una genealogia, che in questo caso specifico si rivelerebbe fragile e parziale. Se torniamo al ruolo fondamentale attribuito al territorio da molti dei protagonisti di Tendenzen, per esempio, ci rendiamo conto che tale nozione risultava estranea alle esperienze precedenti oppure vagamente intuita, forse addirittura inconsciamente. Centralità del territorio da una parte, presenza della storia dall’altra, dove le due posizioni sono, almeno da un punto teorico, complementari e non in opposizione. Il testo di Steinmann7 nel catalogo di Tendenzen porta un titolo significativo: Realtà come Storia. In effetti, anche il rapporto con la storia assume un ruolo importante nello sviluppo e nell’affermazione dell’architettura ticinese di quel periodo. Tale rapporto veniva inteso in modi diversi con esiti formali ugualmente diversi e un grado più o meno elevato di astrazione. Il modo in cui Botta, nelle prime case, esplorava la storia intesa come esperienza viva, lo portava a veicolare e introdurre nei propri progetti concatenazioni spaziali di luoghi domestici sedimentati nella tradizione, facendo astrazione dalle forme che queste avevano assunto storicamente. Per Reichlin e Reinhart, invece, la storia era inscindibile dalle forme che aveva prodotto. Il loro rapporto con il passato era più diretto, fisico e materico, mentre per Botta era di natura più astratta e concettuale. In quello stesso testo, Steinmann insiste anche sugli aspetti semiologici dell’architettura (citando a più riprese i progetti e gli scritti di Reichlin e Reinhart) e fornendo in tal modo all’esperienza ticinese di quegli anni un orizzonte culturale più vasto. In tale esperienza, il fatto singolare non è tanto la distanza fra modi diversi di vedere l’architettura e di praticare il progetto, quanto la loro compresenza in un ambito territoriale così limitato e la conseguente possibilità di animare un dibattito che in realtà non conobbe mai un adeguato sviluppo. Fra i due estremi indicati sopra si situano i lavori di altri architetti attivi in quel periodo e sensibili agli stessi temi. Anche se assunto secondo prospettive e modalità diverse, il rapporto con la storia costituisce senza dubbio uno degli elementi caratteristici e nuovi dell’architettura praticata in Ticino in quegli anni. La novità non consisteva tanto nel comprendere e integrare la storia nel progetto, quanto nell’originalità dell’approccio e cioè nel rifiuto di pratiche mimetiche. Alla fine degli anni Settanta era già iniziata quella sistematica interrogazione critica che aveva come oggetto il lascito del Movimento moderno e che sfocerà nel filone postmoderno, ma in Ticino questo sguardo critico assumeva un carattere inedito, lontano dai pastiches ed estraneo alle tentazioni utopiche che altre realtà, al di fuori della Svizzera, avevano sperimentato nel decennio precedente. Quelle degli architetti ticinesi nei confronti della storia non erano astratte elucubrazioni ma posizioni che potevano essere osservate, come detto, nelle opere costruite – il che costituiva, in quegli anni, una enorme differenza in rapporto ad altre esperienze rimaste ferme, per scelta o per necessità, alla dimensione del progetto e dunque prive di un’ulteriore verifica nel concreto. Lo stesso vale per la centralità della nozione di territorio, anche in questo caso assunta in termini genuinamente pragmatici. Nelle case costruite da Snozzi, si leggeva e si legge ancora la volontà di stabilire relazioni dirette e percepibili tra l’architettura e il territorio, nonostante le dimensioni ridotte delle costruzioni. La questione dimensionale, detto per inciso, non è affatto secondaria proprio perché dimostra la praticabilità di quelle prospettive architettoniche, e delle ipotesi progettuali che ne derivano, al di là della scala degli interventi, ciò che rende il loro significato ancora più evidente. Una esauriente illustrazione dei fermenti di quegli anni potrebbe essere costituita esclusivamente da «piccole case», fra le quali, particolarmente significative, si possono annoverare, Casa Tonini a Torricella (B. Reichlin & F. Reinhart, 1972-1974), Casa Kalman a Brione sopra Minusio (L. Snozzi, 1974-1976), Casa Bianchi a Ligornetto (M. Botta, 1975-1976). Oltre al «tema» della casa unifamiliare, molti architetti ticinesi si trovarono a dar vita, in quegli anni, a numerosi complessi scolastici, dovuti ad una innovativa riforma dei programmi di scuola media8 alla quale l’architettura fu capace di dare forma e significato.

Osservando i progetti e le realizzazioni di quegli anni e ricomponendone i frammenti si percepisce, nonostante le differenze, una visione unitaria nella dichiarata ed evidente volontà di dare al Cantone un assetto solido ed equilibrato. Forse la natura frammentaria di tale visione non ha permesso ai rappresentanti politici di riconoscerla e di farsene carico oppure, più probabilmente, altre forze si sono opposte alla sua realizzazione. E così quello che osserviamo oggi è un territorio in molte parti martoriato in cui si possono scorgere alcuni di quei frammenti ridotti a muti testimoni di un’epoca che sembra lontana e forse ad alcuni addirittura incomprensibile. 

Ciononostante risulta improprio parlare di «scuola ticinese» come sembra invece legittimo, per esempio, a proposito dell’esperienza di Porto, contraddistinta, oltre che dall’unità di luogo, anche da una coincidenza d’intenti e dalla condivisione di uno stesso linguaggio architettonico. Che non si possa parlare di «scuola» nei confronti del Ticino è inoltre confermato dal fatto che oggi gli ideali espressi da Tendenzen sono portati dagli stessi protagonisti di allora. Fra gli architetti più giovani attivi oggi in Ticino, alcuni sembrano incapaci di uscire dai solchi tracciati dai «padri», condannandosi così ad esserne i pallidi epigoni. Altri si adagiano nell’illusorio autocompiacimento della sensualità materica. Altri ancora inseguono gli obiettivi dell’autosufficienza energetica, dello sviluppo sostenibile dei nuovi materiali, anteponendoli ai compiti che l’architettura dovrebbe assumere, quando animata dalla ricerca del difficile equilibrio tra sviluppo e cura del territorio. 

A parte alcune patetiche prove di egocentrismo esibizionista, oggi nel mondo si producono edifici notevoli dal punto di vista della composizione, sotto il profilo tecnico o nell’uso dei materiali – e il Ticino non fa eccezione. In altri termini, la qualità media è piuttosto elevata ma gli edifici che ne sono la dimostrazione vanno raramente al di là della semplice conferma di un’architettura pacificata e pacificante che sembra aver annullato ogni possibile esitazione o dubbio sul proprio destino. L’efficienza tecnica, l’affidabilità, la ricerca del consenso generalizzato – in una parola: il professionalismo – hanno ormai rimpiazzato ogni altro possibile atteggiamento nei confronti dell’architettura. Paradossalmente, il Ticino è oggi di nuovo provincia rispetto a un centro evanescente e inafferrabile che alcuni considerano, non a torto, effetto e causa della globalizzazione. Analogamente a quanto accade in altre parti del mondo, l’architettura ticinese parla ormai una vulgata tanto impeccabile e condivisa quanto sbiadita. 

Queste ultime considerazioni sono schematiche e probabilmente eccessivamente pessimiste ma succede spesso di discuterle con amici e colleghi che fondamentalmente le condividono. Assumendo il rischio di apparire, oltre che pessimista, nostalgico, ho scritto queste righe pensando soprattutto a chi non ha vissuto in prima persona né quell’esperienza né le sue conseguenze. Paolo Fumagalli, mosso da un’identica preoccupazione, in una conferenza tenuta alla HSLU di Horw,9 aveva iniziato la «storia» dell’architettura ticinese dalla fine della seconda guerra mondiale, chiedendosi quanto avrebbero capito, i giovani che assistevano, di un periodo così lontano… 

Una ventina d’anni dopo l’ormai celebre mostra, Alberto Caruso assumeva la direzione della rivista Archi mantenendola fino a quest’ultimo numero del 2017, per un periodo di complessivi 20 anni. In effetti, il mio scritto prende origine da questa «scadenza» e dalla possibilità di «chiudere» un altro ciclo dopo i primi vent’anni trascorsi da Tendenzen. In questi ultimi vent’anni, Archi ha puntualmente registrato l’attività edilizia del Cantone cercando di produrre dei numeri che andassero al di là della pura cronaca. In ogni numero, l’editoriale di Caruso sviluppava un tema specifico di portata generale, valido, cioè, al di fuori dei limiti del Cantone e incline a confrontarsi con un dibattito più vasto, a scala svizzera e anche europea. Il panorama descritto dalla rivista in questi due decenni presenta, al di là delle considerazioni pessimistiche espresse sopra, qualche elemento che continua a contraddistinguere la produzione ticinese. Credo si tratti, in primo luogo, di un’attenzione particolare al luogo, più facilmente riconoscibile nei progetti di edifici isolati che in quelli all’interno di contesti urbani o urbanizzati. Anche se la spinta dirompente che si poteva osservare all’epoca di Tendenzen si è sicuramente affievolita, qualcosa rimane di quella felice stagione. È certo, però, che il processo di omologazione in atto sulla scena architettonica mondiale non ha risparmiato il Ticino e in questo senso è senza dubbio utile che le giovani generazioni ripercorrano, anche criticamente, quelle che sono le radici del loro operare. Spesso, nei numeri di Archi, i propositi annunciati nell’editoriale venivano disattesi dai progetti delle pagine seguenti, quasi che il direttore volesse «forzare la mano» affinché la produzione locale potesse misurarsi con l’orizzonte più vasto dei temi proposti. Questo limite, dovuto soprattutto al ruolo di Archi in quanto organo della SIA, è stato a volte riscattato da numeri più compatti e coerenti, ma questo è il destino di tutte le riviste che hanno un’ambizione che travalica la pura e semplice informazione. Ogni numero si è arricchito di varie rubriche fra le quali vorrei ricordare il Diario dell’architetto di Paolo Fumagalli che spesso faceva eco ai proposti del direttore con eleganza e leggerezza. 

Ora si apre un’epoca nuova per Archi e sono certo che la nuova direttrice non vorrà disattendere le speranze e le ambizioni che hanno guidato i vent’anni appena trascorsi.

Note

* Tendenzen, neuere Architektur im Tessin, concepita da Martin Steinmann, diretta da Heinz Ronner e coordinata da Thomas Boga, si tenne nei locali del mitico Globus-Provisorium dal 20 novembre al 17 dicembre del 1975. Il catalogo della mostra, ripubblicato da Birkhäuser nel 2010, contiene un testo introduttivo di Heinz Ronner, un testo critico di Martin Steinmann e gli scritti di alcuni degli architetti di cui venivano presentati i progetti.

** Aldo Rossi, L’architettura della ragione come architettura di tendenza, in Manlio Brusatin (a cura di), Illuminismo e architettura del ’700 veneto, Grafiche Giorgio Paroni, Treviso 1969; ora in Aldo Rossi, Scritti scelti sull’architettura e la citta 1956-1972, Clup, Milano 1975 (nuova ediz. Quodlibet, Macerata 2012).

    1. La mostra La Tendenza: architectures italiennes 1965-1985, a cura di Frédéric Migayrou, tenutasi al Centre Pompidou nel 2012 ne ha trasfigurato i contorni proponendo un’improbabile unità d’intenti fra architetti italiani molto diversi e legati ad ambiti culturali lontanissimi come quello milanese/veneziano e quello romano. Realizzata esclusivamente con fondi appartenenti al Centre, la mostra presentava vistose lacune, oltre alla evidente forzatura interpretativa.
    2. Nicola Navone, Architettura in Ticino 1945-2000: un itinerario storico-critico tra resistenza e disincanto, in Archi, 3/2016, ora in Espazium https://www.espazium.ch/architettura-in-ticino
    3. Heinz Ronner, Zur Lage der Architktur im Tessin, in Tendenzen, cit.
    4. Julius Maurizio, Der Siedlungsbau in der Schweiz / Les colonies d’habitation en Suisse / Swiss Housing Estates, Verlag für Architektur, Erlenbach-Zürich 1952. Come si può dedurre già dal titolo, il libro è trilingue ma la terza lingua nazionale è rimpiazzata dall’Inglese. Questo libro è da sempre particolarmente apprezzato da Martin Steinmann, ideatore di Tendenzen.
    5. Paul Artaria, Schweizer Holzhäuser, Wepf & Co Verlag, Basel 1936; Paul Artaria, Vom Bauen und Wohnen, Wepf & Co Verlag, Basel 1939.Si tratta di raccolte molto meticolose in cui i progetti sono illustrati non solo da fotografie ma anche e soprattutto da disegni rigorosamente omogenei dal punto di vista grafico e riprodotti alla stessa scala. Entrambi i libri conobbero diverse edizioni.
    6. Simona Martinoli, L’architettura nel Ticino del primo Novecento. Tradizione e modernità, Edizioni Casagrande, Bellinzona 2008, descrive ampiamente questa stagione nel terzo capitolo intitolato «Il periodo fra le due guerre in tensione tra stimoli internazionali e spinte identitarie».
    7.  Martin Steinmann, Wirklichkeit als Geschichte. Stichworte zu einem Gespräch über Realismus in der Architektur, in Tendenzen, cit.
    8. La Legge sulla scuola media fu approvata il 21 ottobre 1974 ed entrò in vigore nel 1976. Nell’ambito di questa legge furono realizzati numerosi complessi scolastici che contribuirono in modo decisivo alla fama dell’architettura del Cantone Ticino.
    9. Paolo Fumagalli, A quarant’anni da Tendenzen – Neuere Architektur im Tessin: una conferenza a Lucerna sulla Tendenza in Ticino, in «Diario dell’architetto», Archi, 4/2015, ora in Espazium https://www.espazium.ch/diario-dellarchitetto-agosto-2015
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