Autofocus – Giovanna Silva
Nel 1960 Fernand Pouillon scriveva: «L'illustrazione del libro d'architettura appartiene oggi ai fotografi. Le riviste contemporanee, che pure hanno a disposizione i disegni originali […], preferiscono la fotografia». Sessant'anni dopo è ancor più evidente come quest'arte abbia plasmato lo sguardo sull'architettura: se la realizzazione di un progetto è suggellata proprio dal momento in cui se ne scattano le fotografie, i rendering non sono altro che “previsioni” di fotografie, fotografie dal futuro. In un territorio ristretto come la Svizzera italiana è allora interessante capire chi sono i fotografi che guidano il nostro sguardo sul panorama costruito. Abbiamo posto loro cinque domande, sempre le stesse, per dare conto delle prospettive di ciascuno sul proprio mestiere.
Come ha iniziato a occuparsi di fotografia d'architettura?
Ho iniziato per caso. Ho sempre voluto essere un architetto, da piccola ridisegnavo freneticamente la mia stanza, nella speranza di cambiarne la disposizione. Mi sono iscritta al Politecnico di Milano, Facoltà di Architettura, nessun dubbio al riguardo, nessun piano B. Ho fatto l’Erasmus a Lisbona, ai tempi mecca dell’Architettura. Tornata in Italia ho capito che non volevo essere un architetto. Pensavo che l’architettura mi avrebbe fatto viaggiare, mi avrebbe fatto vedere il mondo, mentre mi sono resa conto di non avere la pazienza necessaria per aspettare di vedere le mie opere architettoniche concluse. E così ho fatto uno stage da Francesco Jodice, e mi ha insegnato tutto. E con la fotografia ho iniziato a viaggiare. Mi pagavano per viaggiare, mi divertivo a fare quello che facevo. Mi sembrava un sogno.
Con quali architetti collabora più spesso? Ci racconterebbe un aneddoto legato a uno di loro?
Gli architetti con cui ho un rapporto continuativo ora sono i Kuehn Malvezzi. Non ho più molte commissioni "commerciali" e soprattutto mi piace lavorare con loro perché mi piacciono i loro progetti. Ormai nel bene e nel male posso scegliere, che è il vero lusso. Inoltre ci capiamo, si fidano e io so cosa vogliono.
«Per anni la fotografia d’architettura ha escluso la figura umana. Ma l’architettura è fatta delle persone che la vivono. Nella mia fotografia cerco ora di raccontare come l’uomo modifica l’architettura. E viceversa»
Secondo lei la fotografia d'architettura ha un modo diverso di approcciarsi ai suoi soggetti rispetto alla fotografia tout court? Se sì, quali sono le differenze?
La differenza fondamentale è stata per anni l’eliminazione nella fotografia d’architettura della figura umana. Come se l’architettura fosse contraria alla presenza dell’uomo. Ma l’architettura è fatta delle persone che la vivono. Nella mia fotografia cerco ora – soprattuttto nei lavori personali – di raccontare come l’individuo performa lo spazio. Come l’uomo modifica l’architettura. E viceversa.
La chiamano per fotografare un edificio. In che modo si approccia al soggetto? Cosa cerca, cosa le interessa mostrare?
Mi interessa sempre lavorare su due aspetti. È come se dividessi il mio lavoro e la mia mente in due. Da una parte delle fotografie perfette, perfette secondo i canoni della fotografia d’architettura, che potremmo riassumere in maniera banale come una fotografia pulita, tendenzialmente grandangolare e priva di qualsiasi forma di intrusione. L’altro aspetto che mi interessa è il backstage, quelle parti sporche e funzionali dell’edificio. Non a caso le persone che lavorano con me mi prendono sempre in giro. Da una parte cancello in photoshop le luci dell’uscita d’emergenza per rendere la fotografia ancora più asettica e perfetta. Dall’altra vado a ricercare degli estintori da fotografare.
Tra le fotografie che ci propone, le chiederei di sceglierne una che le sembra particolarmente riuscita e commentarla. Cosa mostra e perché le sembra che questa fotografia funzioni?
Credo che tra le immagini scattate in Svizzera quelle della piscina siano le mie preferite. Sta tutto nella fortuna della luce e del clima, ma la fotografia è anche questo, fortuna. Cogliere un attimo, come si dice.
Qui la neve e l’acqua ghiacciata rendono particolare un luogo che è progettato per qualcosa di diverso.
Mi sembra che la neve trasformi questo luogo in un posto metafisico.
Giovanna Silva vive e lavora a Milano. Dal 2005 al 2011 ha collaborato con le riviste «Domus» e «Abitare». Ha pubblicato numerosi libri, tra i quali ricordiamo i recenti Tehran (all Mousse Publishing 2019), Palmyrah and Niemeyer 4ever (Art Paper Editions 2019), Mr. Bawa, I Presume (Hatje Cantz 2020) e UN (bruno 2020).
Nel 2014 ha partecipato alla Biennale Architettura di Venezia con la mostra «Nightswimming – Discotheques in Italy from the 1960s until now»; il progetto è documentato da un libro pubblicato da Bedford Press (Architectural Association, London).
Insegna alla NABA di Milano, all'IUAV di Venezia e all'ISIA di Urbino.
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