Autofocus – Valeria Bellora
Nel 1960 Fernand Pouillon scriveva: «L'illustrazione del libro d'architettura appartiene oggi ai fotografi. Le riviste contemporanee, che pure hanno a disposizione i disegni originali […], preferiscono la fotografia». Sessant'anni dopo è ancor più evidente come quest'arte abbia plasmato lo sguardo sull'architettura: se la realizzazione di un progetto è suggellata proprio dal momento in cui se ne scattano le fotografie, i rendering non sono altro che “previsioni” di fotografie, fotografie dal futuro. In un territorio ristretto come la Svizzera italiana è allora interessante capire chi sono i fotografi che guidano il nostro sguardo sul panorama costruito. Abbiamo posto loro cinque domande, sempre le stesse, per dare conto delle prospettive di ciascuno sul proprio mestiere.
Come ha iniziato a occuparsi di fotografia d’architettura?
Dopo essermi laureata nel 2008 all’Accademia di Mendrisio ho lavorato per dieci anni in due differenti studi di architettura in Ticino.
Occuparmi di fotografia di architettura ha sempre accompagnato il mio lavoro di architetto – come ricerca e approfondimento personale – fino a quando, nel 2011, ho avuto l'occasione di trasformare il mio interesse in una vera e propria professione.
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Con quali architetti collabora più spesso? Ci racconterebbe un aneddoto legato a uno di loro?
Con l’architetto Ivo Trümpy, l’architetto Gabriele Geronzi, gli architetti De Giuli e Bulloni, l’architetto Lorenzo Guzzini e l’architetto Andrea Molteni.
Ma la mia grande fortuna è stata collaborare per diversi anni con l’architetto Mario Campi, il quale è stato il primo ad incaricarmi di fotografare alcune delle sue ultime realizzazioni.
Per raccontare un aneddoto apro questa breve parentesi: spesso, per fotografare gli interni di abitazioni private, occorre fare un grande lavoro preliminare di spostamento dei mobili e soprammobili in eccesso. Ciò accade perché con la fotografia l’opera architettonica diventa cosa pubblica, è dunque corretto rappresentarla sotto il suo aspetto migliore.
Durante lo shooting di un’abitazione privata dell’architetto Guzzini avevamo spostato in giardino tavoli, sedie, lampade, decorazioni natalizie… Mi ricorderò sempre la proprietaria della casa che, guardandoci con sguardo sconsolato, si rivolse a noi dicendo ironicamente: «Insomma… ditelo che non vi piaceva proprio il modo in cui abbiamo arredato casa…».
Secondo lei la fotografia d'architettura ha un modo diverso di approcciarsi ai suoi soggetti rispetto alla fotografia tout court? Se sì, quali sono le differenze?
È indiscusso che fotografare l’architettura significa documentare. Dal mio punto di vista, documentare significa raccontare per immagini la storia del soggetto che si sta analizzando.
«Con la fotografia l’opera architettonica diventa cosa pubblica, è dunque corretto rappresentarla sotto il suo aspetto migliore»
La chiamano per fotografare un edificio. In che modo si approccia al soggetto? Cosa cerca, cosa le interessa mostrare?
Per prima cosa chiedo sempre dei disegni sui quali studiare il soggetto sia dal punto di vista urbanistico che spaziale. Ma la cosa fondamentale resta il dialogo con l’architetto: un dialogo che consiste, in estrema sintesi, nel focalizzarsi sull’idea che sta alla base del progetto, e questo è ciò che principalmente mi interessa mostrare nelle immagini.
Capire la storia del progetto significa capire le scelte progettuali e costruttive che stanno alla base di esso. Tradurre in immagini tutto ciò è la grande sfida della fotografia di architettura.
Tra le fotografie che ci propone, le chiederei di sceglierne una che le sembra particolarmente riuscita e commentarla. Cosa mostra e perché le sembra che questa fotografia funzioni?
Lo scatto frontale della doppia altezza in asse con la scala interna di casa G dell’architetto Guzzini. Questa fotografia rappresenta chiaramente l’idea del progetto: per i committenti la costruzione è materia, volume e tettonica. Uno spazio centrale a doppia altezza è il cuore della villa, attorno al quale ruotano tutti i volumi che racchiudono i vari spazi della casa.
L’impatto visivo dello spazio centrale e la morbidezza della luce riescono a portare idealmente l’osservatore, anche solo per un breve istante, in quel preciso spazio in quella precisa ora del giorno.
Il grammofono appoggiato a terra, oggetto caro ai committenti, diventa uno strumento di misura per la scala dell’intervento.
Nata nel 1983, Valeria Bellora si è laureata in architettura all'USI – Accademia di architettura di Mendrisio nel 2008; nel 2012 ha conseguito il master in fotografia allo IED Milano. Dopo anni di esperienza come architetto ha deciso di dedicarsi esclusivamente alla fotografia di architettura. I suoi lavori sono apparsi su diverse riviste e piattaforme digitali del settore, sia nazionali che internazionali. Vive e lavora a Lugano.