Bal­co­ni, ter­raz­ze, pae­sag­gi e sto­rie di gen­te che ha cam­bia­to no­me

Questo scritto è una divagazione nutrita da una serie di coincidenze sia storiche che geografiche.

Data di pubblicazione
16-02-2015
Revision
19-10-2015
Luca Ortelli
Architetto, professore al Politecnico Federale di Losanna

Il punto di partenza è il bel documentario di Victor Tognola dedicato a Erich Maria Remarque1 e in particolare la casa dello scrittore nei pressi di Ascona. Lo spunto preciso è costituito dalla spettacolare terrazza di questa villa, proiettata verso il paesaggio. Da qui ha avuto inizio la divagazione: dalla volontà di approfondire il significato di quel modo di rapportarsi al paesaggio che probabilmente rappresenta una sorta di «ideale» tanto condiviso quanto superficiale. Le fotografie più esplicite mi hanno fatto immediatamente pensare alla casa di Malaparte a Capri ma, prima di arrivarci, una serie di incontri – spesso fortuiti – mi ha permesso di esaminare, con la leggerezza di una divagazione estiva, altri modi di vivere la prossimità con paesaggi straordinari.

Nel 1920 Erich Paul Remark modificò il proprio cognome, francesizzandolo, e sostituì il secondo nome con quello della madre, diventando così Erich Maria Remarque. Lo scrittore, nato il 22 giugno 1898 a Osnabrück, morì a Locarno il 25 settembre 1970. Passò gli ultimi anni della sua vita in Ticino, nella casa acquistata nel 1931 dopo l’abbandono della Germania in seguito alla messa al bando del film tratto dal suo più celebre romanzo Niente di nuovo sul fronte occidentale del 1929. Dopo un periodo di 8 anni trascorsi negli Stati Uniti, paese del quale lo scrittore e la prima moglie Ilsa Jeanne Zambona acquisirono la cittadinanza, Remarque fece ritorno in Ticino nel 1948 per risiedervi stabilmente (per quanto può valere questo avverbio nel caso di una personalità irrequieta e mondana come quella del nostro scrittore).

La casa, che porta il nome Monte Tabor, è situata in una stretta striscia di terra fra la strada cantonale e la sponda del Lago Maggiore, in località Porto Ronco (originariamente «Riva») frazione del Comune di Ronco sopra Ascona.

Alcune fonti, in particolare il Dictionary of German Biography, indicano che la casa fu fatta edificare dal celebre pittore basilese Arnold Böcklin. La notizia – non verificata – apre comunque a una serie di considerazioni. In effetti, al di là della sua incerta veridicità,2 la presenza fantasmatica del pittore di Basilea sulle coste del Lago Maggiore e proprio in quel punto, pone alcuni interrogativi in merito al rapporto fra architettura e contemplazione del paesaggio. Dalla villa, infatti, si gode la vista delle isole di Brissago e forse non è azzardato pensare che le cinque versioni dell’Isola dei morti dipinte da Böcklin siano state in qualche modo ispirate da questo paesaggio, anche se tale ipotesi non è mai stata avanzata in sede critica.

È certo, invece, che una delle versioni appartenne a Adolf Hitler. Il dipinto compare in una celebre fotografia che ritrae il dittatore in compagnia di Vja?eslav Molotov e Joachim von Ribbentrop, dopo la firma del patto di non aggressione russo-tedesco.

Si tratterebbe di una storia paradossale: lo scrittore pacifista che aveva abbandonato il paese natale in seguito alle vicende che condurranno la Germania alla dittatura, si ritira nel luogo che aveva ispirato uno dei dipinti che Hitler prediligeva. Solo ipotesi, naturalmente; anzi: storie, divagazioni, fantasie senza fondamento ma, per quanto fortuita, questa associazione dà da pensare.

Casa per un musicista

Nel 1909, Sergej Rachmaninov compose un poema sinfonico con lo stesso titolo del dipinto böckliniano: L’isola dei morti. Non è forse gratuito ricordare che anche il grande compositore russo scelse un lago elvetico per costruirvi una residenza. Pare che la ragione che lo spinse ad acquistare un terreno nei dintorni di Hertenstein, sul Lago di Lucerna, sia stata la forte somiglianza di quei luoghi con i paesaggi natali del musicista. Villa Senar fu abitata da Rachmaninov fino al 1939, anno in cui abbandonò definitivamente l’Europa per gli Stati Uniti. L’appellativo della villa risulta dalla combinazione delle due prime lettere del nome del musicista, di quello della moglie Natalia e dalla prima lettera del cognome.

L’edificio fu realizzato fra il 1931 e il 1933 dagli architetti lucernesi Alfred Möri & Karl-Friedrich Krebs, in seguito alla demolizione di una costruzione preesistente nel magnifico terreno che il compositore acquistò due anni prima. Si tratta di un volume compatto di due piani con fronti bianchi e ampie finestre, perfettamente inscritto nei canoni del cosiddetto Neues Bauen. Al volume principale sono accostati due volumi minori, di un solo piano, mentre una raggiunge i tre piani permettendo l’accesso al tetto a terrazza del volume principale.

Disposta parallelamente alla riva del lago e sopraelevata rispetto al pelo dell’acqua, la villa prolunga i suoi spazi interni in una parte geometricamente definita del vasto giardino: una sorta di esplanade orizzontale, limitata da una pergola, dai muri di sostegno del terrazzamento e dagli alberi. Ciò che merita di essere sottolineato è la posizione della casa in rapporto alla vista del lago e delle montagne. Rispetto al paesaggio naturale maestoso e drammatico, la villa privilegia l’orientamento verso sud, occupando in tal modo una posizione un po’ discosta e protetta dagli alberi.

Il paesaggio che qui viene messo in scena è quello di una natura addomesticata e geometrizzata che si contrappone alla vista del lago e delle montagne, appena percettibili attraverso le fronde degli alberi. La posizione unica del terreno su cui sorge la villa, aperta a giro d’orizzonte sul paesaggio, sembra ignorare il suo straordinario potenziale. La vista indisturbata del maestoso spettacolo si conquista per gradi passando dall’interno al giardino e spingendosi fino ai bordi del lago. Tale dispositivo, pur giustificato dalla ricerca dell’orientamento più favorevole, appare inusuale in rapporto all’esibita frontalità che spesso caratterizza edifici costruiti in luoghi straordinari come la penisola su cui sorge Villa Senar.

Anche l’architettura è abbastanza sobria – al di là degli oltre 500 metri di superficie. Come detto, il volume è compatto e l’impaginato delle aperture privilegia chiaramente gli spazi interni e la progressione ben studiata da questi verso l’esterno.

In questa dimora, dove era solito trascorrere il periodo estivo, Rachmaninov compose la Rapsodia su un tema di Paganini (1934) e la Terza Sinfonia (1935-1936). Dopo la morte dell’ultimo erede del musicista, il destino della proprietà è stato oggetto di discussioni fino al momento in cui lo stesso Putin, a quanto pare, avanzò una proposta di acquisto. Oggi Villa Senar appartiene dunque allo stato russo ma non è dato sapere, per il momento, quale sarà la sua destinazione.

Una grande inquietudine ha toccato, in anni recenti, anche la villa di Remarque. La messa in vendita da parte degli ultimi proprietari ha allertato sia il Comune di Ronco, sia l’associazione che avrebbe voluto farne un centro studi dedicato al pacifismo.

Casa per un poeta

A Ronco sopra Ascona, pochi anni dopo l’acquisto della villa Monte Tabor da parte di Remarque, l’architetto basilese Paul Artaria (1892-1959) aveva progettato una bellissima casa per un poeta.3 L’edificio, pensato per essere realizzato in muratura di pietra e solai in legno, sarebbe stato composto da un corpo basso contenente un portico e un piccolo deposito e da tre locali sovrapporti, distribuiti da una scala che si avvolgeva intorno ai grandi camini. Al piano terreno era prevista la cucina, al piano superiore la camera degli ospiti con un piccolo soggiorno e all’ultimo piano la stanza studio del poeta. Nel terreno si trovava un piccolo edificio preesistente che Artaria pensava di adibire a spazi supplementari per gli ospiti, mentre il piano inferiore sarebbe stato destinato a cantina.

La nuova costruzione si sarebbe trovata all’interno di uno dei terrazzamenti che costituivano la proprietà, sostenuti da muri di contenimento in pietra. Le informazioni relative a questa casa sono scarne, come nell’uso di Paul Artaria, e non è dato sapere quale fosse esattamente la sua ubicazione, anche se, con ogni probabilità, il terreno si trovava al di sopra del nucleo abitato, in una zona caratterizzata da terrazzamenti destinati a piccole colture.

Quello che qui interessa sottolineare è l’atteggiamento dell’architetto nei confronti del paesaggio. Nella scarna descrizione del progetto, Artaria parla dei terrazzamenti, dei castagni esistenti che avrebbero ombreggiato il gioco delle bocce, ma non fa alcun cenno a proposito del paesaggio.

Il panorama che si sarebbe goduto dallo studio del poeta è assunto in modo, si potrebbe dire, «naturale». Senza alcuna enfasi, sarebbe entrato a far parte del locale attraverso l’unica finestra orientata a valle. Le due piccole finestre laterali avrebbero avuto il compito di illuminare e ventilare la parte più interna della stanza. Il paesaggio sarebbe stato inquadrato, definendo un microcosmo interno in contrapposizione al macrocosmo esterno cui allude il planisfero che compare nella sezione longitudinale.

Petite maison

Questo modo di rapportarsi al paesaggio fa pensare a un’altra casa, leggendaria e celeberrima. Si tratta della piccola casa che Le Corbusier – così Charles Eduard Jeanneret tramutò il proprio nome – costruì per i genitori a Corseaux, in un terreno pianeggiante, disposto tra la strada cantonale e la riva del Lemano. La petite maison illustra, con la precisione di un teorema, l’atteggiamento di Le Corbusier nei confronti del paesaggio. La celebre fenêtre en longueur dispiega il paesaggio maestoso del lago e delle montagne e definisce contemporaneamente un interno come luogo che dà senso e misura al paesaggio stesso.

Nel giardino, invece, dove questo rapporto tra interno ed esterno non si pone, Le Corbusier identifica e dà forma al luogo rispetto al quale il paesaggio «infinito» riacquista una «scala», una dimensione misurabile. In realtà, il dispositivo spaziale è ben più complesso ma, per la finalità di questo scritto, sarà sufficiente concentrarsi sull’angolo del giardino in cui si trova quel brandello di muro in pietra – quasi un resto archeologico – che presenta una finestra che inquadra il paesaggio – une vue incomparable et inaliénable sur l’un des beaux horizons du monde – e trasforma questa parte del giardino in una sorta di «interno» – le dehors est toujours un dedans, scriveva infatti Le Corbusier in Vers une architecture.

Questo semplice dispositivo offre un rapporto con il paesaggio diverso e complementare rispetto a quello della finestra a nastro. Quest’ultima definisce una certa distanza fra casa e panorama, mentre il muro «bucato» nel giardino ci trasporta all’interno del paesaggio stesso, grazie anche alla presenza della Pauloniache determina la geometria di questa «stanza a cielo aperto». Nel libro che Le Corbusier dedica alla piccola casa trenta anni dopo la sua realizzazione, si legge: «La raison d’être du mur de clôture que l’on voit ici est de fermer la vue au nord, à l’est, en parti au sud, à l’ouest; le paysage omniprésent sur toutes les faces, omnipotent, devient lassant. Avez-vous observé qu’en de telles conditions, ‹on› ne le ‹regarde› plus? Pour que le paysage compte, il faut le limiter, le dimensionner par une décision radicale: boucher les horizons en élevant des murs et ne le révéler, par interruption de murs, qu’en des points stratégiques. La règle servit ici: murs nord, est et sud ont ‹cloîtré› le tout petit jardin carré de dix mètres de côté et ils en font une salle de verdure – un intérieur. Le mur sud, toutefois, fut percé d’un trou carré pour ‹proportionner› (objet à dimension humaine). Également pour créer de l’ombre et de la fraîcheur. Subitement, le mur s’arrête et le spectacle surgit: lumière, espace, cette eau et ces montagnes.»

L’intensa bellezza di questo angolo del giardino è nota a tutti coloro che hanno visitato la petite maison. Qui l’architettura diventa misura e dà senso al luogo nel modo più semplice e efficace. Anche in questo caso non c’è enfasi alcuna – neanche nella finestra a nastro che dopotutto rivela, nonostante i proverbiali 11 metri di sviluppo, un inatteso carattere domestico.

Casa di uno scrittore

La villa che fu abitata da Erich Maria Remarque presenta un volume compatto di quattro piani di cui solo gli ultimi due sono chiaramente percepibili mentre quelli inferiori sono integrati nel terreno naturale. Il fronte che affaccia sul lago è caratterizzato da una copertura piana e dalla serie di finestre ad arco con persiane all’ultimo piano, alle quali si contrappongono quelle squadrate del piano immediatamente inferiore. Si tratta evidentemente del risultato di diversi rimaneggiamenti. L’elemento più caratteristico di questo pastiche è la grande terrazza attraverso la quale veniva veicolata l’immagine dello scrittore e quella della sua ultima moglie Paulette Goddard.

La star di Hollywood che aveva affascinato personaggi come Gershwin e Chaplin (di cui fu moglie, anche se molti dubbi sussistono sull’effettiva celebrazione delle nozze) aveva anch’essa cambiato il proprio nome, Pauline Marion Levy, come spesso avviene in ambito cinematografico, adottando il cognome della madre.

Per quanto riguarda la villa, le notizie sono incerte e non si conoscono le date delle trasformazioni di cui è stata oggetto, anche se è chiara la loro entità.

Il volume della casa, per quanto compatto, si compone di due elementi. Al corpo principale se ne affianca uno di dimensioni inferiori, senza corrispondenza fra i livelli interni.

Il livello principale, occupato dall’ampio soggiornobiblioteca di oltre 70 metri quadrati, in cui i celebri coniugi sono stati spesso fotografati, presenta un carattere che si potrebbe definire loosiano in virtù delle travature lignee, del camino con inquadrature in mattoni a vista, e della partizione delle finestre.

La parete del soggiorno che affaccia direttamente sul lago presenta tre aperture. Quella centrale, di fronte al camino, si apre sulla leggendaria terrazza di 75 metri quadrati, dal profilo sinuoso, con pavimentazione in pietra e parapetto in ferro battuto dipinto. La grande terrazza è accessibile dall’esterno attraverso una scala in pietra a coda di rondine che prende avvio da un’altra terrazza che si raccorda ai terrazzamenti ricavati nel terreno. La scala, la grande terrazza e la terrazza inferiore presentano parapetti in ferro battuto verniciati, caratterizzati da un motivo geometrico curvilineo.

Sembra che in origine la terrazza fossa delimitata da una serie di vasi con funzione di parapetti. Si ignora la data della loro sostituzione ma è evidente che l’intento era quello di liberare al massimo la vista del paesaggio. Forse non a caso, c’è un che di «hollywoodiano» in questa trasformazione: una sorta di proiezione spettacolare dentro il paesaggio che si lascia la casa alle spalle e che nega ogni rapporto con il suolo. La terrazza diventa in tal modo un luogo «altro», proiettato nel paesaggio, «staccato» dalla casa che lo origina, e come sospeso tra il mondo domestico e l’universo naturale.

Va detto, in verità, che le fotografie che mostrano Remarque e Paulette Goddard sulla terrazza sono spesso rivolte verso la casa. Una di esse, in particolare, mostra la bellissima attrice, adagiata su una poltrona di vimini, con alle spalle il fronte della villa e la porta-finestra centrale inquadrata da una tenda a sporto che la racchiude come una conchiglia (foto). Ciononostante, la terrazza si presta perfettamente alla volontà esibizionista di catturare il paesaggio in tutta la sua incommensurabile vastità, come dimostrano le fotografie diffuse dalle agenzie immobiliari alla ricerca di un compratore. Anche se questa volontà non è direttamente imputabile al proprietario o alla sua consorte, risulta evidente la distanza che separa la terrazza di Remarque e le raccomandazioni di Le Corbusier: «… le paysage omniprésent sur toutes les faces, omnipotent, devient lassant».

Tutto il problema sembra risolversi nella differenza fra «vedere» e «guardare» e gli esempi che abbiamo illustrato sono espliciti a tale proposito. C’è qualcosa di estremamente banale e irrimediabilmente «piccolo-borghese» nella rinuncia a «inquadrare» il paesaggio. In questo senso, le case che abbiamo brevemente illustrato possono essere considerate in senso metaforico come l’illustrazione dei modi contraddittori che l’architettura utilizza nel rapportarsi con il paesaggio.

Casa di un altro scrittore

Catturare il paesaggio, farne parte, piuttosto che limitarne la vista: questo è il dilemma. È inutile sottolineare che le preferenze di chi scrive, confortate da Le Corbusier, sono decisamente lontane dalla soluzione qui rappresentata emblematicamente dalla terrazza di Remarque. Ma se vogliamo rimanere nell’ambito delle risposte che la cultura architettonica del XX secolo ha elaborato nei confronti di questo problema, sarà d’obbligo confrontarsi con la casa di Curzio Malaparte a Capri che lo scrittore battezzò «casa come me».

La vicenda di questa casa è nota nonostante la difficoltà di attribuzione della sua concezione a Adalberto Libera piuttosto che allo scrittore che l’avrebbe abitata. Curzio Malaparte, al secolo Kurt Erich Suckert, nato a Prato il 9 giugno 1898 (esattamente 13 giorni prima di Remarque) e morto a Roma il 19 luglio 1957, acquistò il terreno di Punta Massullo nel 1937.

La vista che si gode dalla terrazza è assoluta e presenta un orizzonte libero. Non si tratta del paesaggio lacustre che sempre, negli esempi citati, è delimitato dalla presenza delle montagne. Qui l’orizzonte è illimitato e misterioso: solo mare, a perdita d’occhio, e le pareti rocciose dell’isola dietro le spalle. Va detto che per comprendere questa costruzione straordinaria, il termine «terrazza» è decisamente fuori luogo. Non c’è infatti nulla di domestico in quel parallelepipedo rosso con la grande scalinata che possiede piuttosto il carattere sacrale di un altare eretto per celebrare sconosciute divinità marine. Lo spazio che si produce sulla copertura non necessita di altra delimitazione che il volume sottostante. Non si proietta nel vuoto, né sente la necessità di «staccarsi» da qualsivoglia entità «altra», poiché questo oggetto misterioso è dentro il paesaggio e aspira a diventarne una parte.

In rapporto ai temi affrontati in questo scritto, sarà utile soffermarsi sull’organizzazione interna di Casa Malaparte (1938-1942). Il grande soggiorno occupa una posizione contraria alla frontalità fra interno e paesaggio. Rispetto alla conformazione della roccia su cui sorge la villa, il salone offre viste certo spettacolari ma pur sempre «laterali» rispetto alla giacitura del volume. Il dispositivo spaziale impiegato sembra fare eco alle dichiarazioni di Le Corbusier: un paesaggio diventa tanto più noioso quanto più è potente e onnipresente. La «prua» di questo enigmatico vascello incagliato nelle rocce di Punta Masullo è occupata dal «capitano». Malaparte vi aveva sistemato il proprio studio, comunicante con la camera da letto attigua a quella della «favorita», ma sostanzialmente isolato dal resto della casa. Nello studio, l’interno prevale sul paesaggio che viene inquadrato da tre finestre di tipo domestico, che poco o nulla hanno a che vedere con le grandi vetrate del salone, quasi «hopperiane» grazie al carattere «astratto» degli infissi, più prossimi alla cornice di un quadro.

L’annosa e irrisolta questione della paternità del progetto non rientra negli obiettivi di questo scritto. Vale però la pena di soffermarsi sul suo carattere e sulle sue numerose «ambiguità».

Una delle rare voci critiche nei confronti di questa casa leggendaria è quella di Bruce Chatwin. In uno scritto del 1984, l’autore inglese la descrive attribuendole l’ambiguità che riscontrava nei comportamenti dello scrittore italiano. «Curzio Malaparte era uno stranissimo scrittore, e la villa da lui costruita nel 1938-40 sul solitario promontorio di Capo Massullo è una delle più strane abitazioni del mondo occidentale. Una nave ‹omerica› finita in secca? Un moderno altare a Poseidone? Una casa del futuro – o del passato preistorico? Una casa surrealista? Una casa fascista? O un rifugio ‹tiberiano› da un mondo impazzito? È la casa del dandy e del burlone professionale, l’‹Arcitaliano›, come lo chiamavano gli amici – o del malinconico romantico tedesco celato sotto la maschera? La ‹pura› casa di un asceta? O l’inquieto teatro privato di un insaziabile Casanova? Una cosa sappiamo: che Malaparte chiese al suo architetto, Adalberto Libera, di costruirgli una ‹casa come me›, “triste, dura, severa› come sperava di essere egli stesso.»4

Nello stesso scritto, Chatwin ricorda che alla fine del periodo di esilio, Malaparte «comprò una villa a Forte dei Marmi, la villa Hildebrand, che era stata costruita per lo scultore tedesco e affrescata da Böcklin».

Ancora una volta, una strana, inaspettata coincidenza sembra chiudere il cerchio di questa innocente e spericolata divagazione.

Note

  1. Victor Tognola, Erich Maria Remarque, Paulette Goddard, Marlene Dietrich, Frama Films, 2010.

  2. Appare strano, anche se non è possibile escluderlo, che il pittore avesse fatto costruire questa dimora visto che nel 1895 acquistò una villa a San Domenico di Fiesole, dove visse fino alla morte, avvenuta nel 1901.

  3. Si veda: Paul Artaria, Vom bauen und wohnen, Wepf & Co Verlag, Basel 1948 (Dritte Auflage). Il progetto per la casa in questione, mai realizzato, risale al 1937.

  4. Bruce Chatwin, Anatomia dell’irrequietezza, Adelphi, Milano 1996, ora in «Casabella», LXI, 1997, n. 648, numero in cui è pubblicato il progetto di restauro della villa, di Angelo e Marco Broggi. La rivista pubblica anche una serie di documenti inediti con un testo esplicativo di Marida Talamona.

 

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