Ce­ci n’est pas Gio Pon­ti

A colloquio con Leonardo Sonnoli, grafico della mostra sul grande architetto milanese.

Data di pubblicazione
05-02-2020
Gabriele Neri
Dott. arch. storico dell'architettura, redattore Archi | Responsabile della rubrica 'Paralleli' per Archi

L’allestimento di una mostra è un’arte raffinata, di cui la grafica è parte essenziale. Non solo un buon progetto grafico è capace di rendere chiari i principi, le informazioni e i collegamenti insiti nella disposizione – «l’ordinamento» – dei pezzi esposti, ma può addirittura far scattare inedite scintille, non previste inizialmente, che arricchiscono l’esperienza del visitatore e il bagaglio teorico ed estetico che una mostra può produrre.

Qualcosa del genere è accaduta nella mostra Gio Ponti. Amare l’architettura (a cura di Maristella Casciato e Fulvio Irace con M. Guccione, S. Licitra, F. Zanella), in scena al MAXXI di Roma fino al 13 aprile 2020: un’esposizione che racconta il maestro milanese concentrandosi sull’architettura. Il progetto grafico, opera di Leonardo Sonnoli (in collaborazione con gli architetti Elena Tinacci e Silvia La Pergola), è infatti ri­uscito a interpretare un particolare aspetto dell’opera di Ponti, contaminandolo con la propria cultura progettuale. Ottenendo così un sistema efficace alle varie scale della comunicazione: dalle sale espositive al catalogo, dal foyer al sito web del museo.

Leggi il commento alla mostra di Graziella Zannone Milan

Abbiamo intervistato Leonardo Sonnoli – classe 1962, graphic designer ri­conosciuto internazionalmente, presidente della sezione italiana dell’AGI (Alliance Graphique Internationale) e vincitore del Compasso d’Oro per il de­sign della comunicazione – per chiedergli come si è sviluppata questa sfida.

Gabriele Neri  Com’è nata l’idea del progetto grafico?
Leo­nardo Sonnoli – La prima proposta che ho fatto ai curatori era una proposta «tipografica». Ero andato a vedere i rapporti di Gio Ponti con la tipografia, con il disegno delle lettere. Avevo trovato schizzi ed esempi di decorazioni di piastrelle nei quali c’era il principio di un modulo quadrato che si ripete con variazioni, e dentro ai moduli c’erano disegni di lettere. Su questa base ho disegnato un logotipo «GIO PONTI». Ma i curatori l’hanno criticato, perché probabilmente comunicava un Ponti più «decoratore», legato al design, mentre la mostra voleva insistere sul Ponti architetto, anzi sulla sua architettura meno conosciuta.

E allora ha cambiato strada. Come si è sviluppata la seconda – fortunata – proposta?
L’ispirazione è venuta dai modellini degli edifici a torre progettati da Ponti per la FEAL, destinati ad alloggi standardizzati, in cui a guardare bene si trova un’idea di composizione modulare simile a quella che avevo visto prima nelle piastrelle. Seguendo quel nuovo riferimento, ho ridisegnato – a partire dalle sue maquette, che non sono neanche precise – un nuovo logotipo. È una scritta che nella mia immaginazione non avrei mai accostato a Gio Ponti, e che invece corrispondeva a «quell’altro» Ponti, architetto oltre che designer, progettista di una «casa esatta» e di una «perfezione variabile». Disegnandola, questa scritta mi ha ricordato poi le grafiche modulari della rivista «Wendingen» [la mitica rivista d’arte e architettura pubblicata ad Amsterdam dal 1918 al 1931, celebre per le copertine dal formato quadrato stampate in litografia e xilografia, Ndr]. Alcune copertine di Wendingen venivano composte con blocchettini di legno, quindi con lo stesso principio.

L’immagine di questa grafica è molto diversa dall’atmosfera evocata dall’allestimento delle sale, che citano invece più letteralmente forme e materiali «pontiani», con tagli verticali, tavoli a ­forma di cristallo, dettagli in ottone ecc. Si crea una specie di positivo spiazzamento, un contrasto tra un ambiente con riferimenti agli anni Cinquanta e invece una grafica «pixelata» che ricorda i primi tentativi digitali. Da «Wendingen» a Pac-Man, passando per gli anni d’oro del design italiano.
Su questo tema, cioè il rapporto tra l’allestimento e il riferimento a Ponti, ­abbiamo discusso molto. Credo che alla fine si sia raggiunta la giusta misura tra la ricostruzione pontiana e qualcosa di nuovo. Per la grafica, alla base c’è ov­viamente la mia formazione culturale, che è quella dell’avanguardia dell’arte e dell’architettura dei primi anni del Novecento, dall’Olanda alla Russia. Anche Rodchenko faceva cose di questo genere. Chi vede la copertina del catalogo può pensare: «che cosa c’entra questo con Ponti?»…  E sarebbe la cosa più divertente!

Però poi il visitatore entra in mostra, incontra i modelli FEAL e capisce che c’è un legame diretto. È un bel corto­circuito.
Ogni volta che si lavora sui maestri è così: bisogna confrontarsi ma cercare di non scimmiottarli. Ovviamente si perde la sfida in ogni caso… ma questo si sa. È giusto quindi fare le proprie cose ­come omaggio, come citazione, però con il proprio modo di sentire. La cosa inte­ressante è che questa modularità per­metteva lo sviluppo di tutta la comunicazione nei vari formati richiesti, che è sempre un tema difficile: ha consentito di aumentare, accorciare, sdoppiare, ridurre il numero di queste «facciate ideali», applicando il sistema su tutti i materiali, dagli inviti fino al catalogo.

L’incontro con la grafica comincia all’ingresso del MAXXI.
Era importante che appena entrati al MAXXI ci fosse una presenza della mostra. Perciò ho proposto di appendere dall’alto dei grandi gonfaloni nel foyer, che arrivassero fin sopra la biglietteria. La proporzione dei modellini FEAL sembrava fatta apposta.

Gli spazi del MAXXI sono difficili da affrontare: nelle sale della mostra il pavimento è inclinato, le pareti non sono dritte…
Purtroppo la sala è tutto meno che un luogo dove fare delle mostre: è un luogo complesso da usare. Si entra e c’è una curva… e non c’è una grande parete, come di solito, dove mettere il titolo. Allora si è scelta ancora la verticalità, un grande elemento a colonna con tre monitor in cui è stata inserita un’animazione
con titolo, sottotitolo, date e altri elementi che nello spazio fisico avrebbero occupato più spazio, ma usando la dimensione temporale (la quarta dimensione) ci stavano perfettamente. Questa idea rispecchia del resto la dimensione temporale dell’architettura di Ponti, pensata per il giorno e per la notte, con un gioco di positivo e negativo.

Un ulteriore dialogo si trova nelle parti in cui sono esposti alcuni prodotti legati al design, come le piastrelle di Ponti.
Ho usato le piastrelle come non dovrebbero essere usate: non come Ponti le aveva disposte, ma disegnando delle forme nuove. Sono venute fuori delle specie di piante di chiese barocche… in qualche modo è stato divertente vedere come, anche se non era «pontiano» in senso estetico, il risultato era comunque qualcosa che usciva da Ponti. Sono due disegni fatti con le piastrelle di Ponti. Mi ricorda un po’ quello che faceva Bruno Munari: quando doveva fare dei disegni per tessuti andava nelle serigrafie dove li stampavano e chiedeva «che cosa non bisogna fare?». E lui appunto faceva così.

La mostra

Gio Ponti. Amare l'architettura

MAXXI – Museo nazionale delle arti del XXI secolo, via Guido Reni 4A, 00196 Roma

Fino al 13 aprile 2020.

Orari: martedì, mercoledì e domenica 11-19, giovedì-sabato 11-20.

Maggiori informazioni qui.

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