Diario dell'architetto, Agosto 2017
Nuovi valori, nuovi parametri
Chissà. Chissà quando verrà il momento in cui tutti si renderanno conto che viviamo in città e paesaggi che sono totalmente cambiati.
Città e paesaggi sono veramente cambiati
Chissà. Chissà quando verrà il momento in cui tutti si renderanno conto che viviamo in città e paesaggi che sono totalmente cambiati. Non nel senso che si sono negli anni trasformati – questo è ovvio – ma che si sono tramutati in qualcosa d’altro. Certo, città e paesaggi si trasformano da secoli in modo incessante per molti motivi, vuoi perché aumentano gli abitanti, perché cambiano le loro esigenze abitative, mutano i modi di spostarsi dentro la città e nel paesaggio – da città a città – con infrastrutture di trasporto sempre modificate, con le città che si dilatano e divorano il paesaggio circostante, e nascono nuove periferie oltre le periferie esistenti.
Tutto ciò è nella natura delle città, che devono vivere, evolvere. Altrimenti muoiono. Ma di cambiamento in cambiamento città e paesaggio, accompagnati dagli interessi e necessità degli abitanti – e la loro mentalità e modo di sentire –, diventano un’altra cosa rispetto al passato. Senza che ce ne fossimo accorti – come capita con i figli di compleanno in compleanno – ciò che abbiamo tra le mani è qualcosa di diverso.
Nuovo, diverso: e tutti i parametri sono saltati in aria.
Nell’architettura
Se mi riferisco solo all’architettura, alle forme, ai modi costruttivi e ai materiali, alle questioni energetiche, ci troviamo a cospetto di un bel pacchetto di roba nuova rispetto a pochi decenni fa, mi pare. E ognuno di questi temi ha avuto – inevitabilmente – un influsso sull’architettura.
Infatti, nella costruzione, se qualcuno avesse edificato una villa o una casa d’appartamenti con i muri di facciata di quasi 50 centimetri di spessore, di sicuro si sarebbe pensato che quei muri sono costruiti con la pietra, non certo con dei mattoni o del cemento armato. E poi, con quei muri così spessi, così massicci da dare l’impressione che avrebbero retto all’urto di un aeroplano, chi avrebbe immaginato che in realtà, a toccarli anche solo leggermente, avrebbero suonato a vuoto come una scatola di cartone? Che siano dei finto–muri?
E poi, il pilastro o la colonna? Da quando architettura è architettura, sono disegnati e progettati con criteri ben definiti, anche nella modernità. Pilastro e colonna significano il sostegno, sono espressione della forza portante, sono simboli anche del trasmettere il «peso» dell’edificio fin dentro il terreno e la roccia. Oggi? Pilastri e colonne sono ridotti a fini stecchetti, spesso distribuiti nello spazio senza alcuna regola comprensibile. Addirittura – udite udite – nemmeno verticali, ma inclinati.
E poi: quale reazione avremmo avuto un vent’anni fa nel vedere la Elbphilarmonie di Amburgo di Herzog e de Meuron, con quell’enorme e informale torre vetrata sopra uno zoccolo storico in mattoni? Senza esprimerne alcun parere, conferma come anche i valori di giudizio siano oggi ben diversi dal passato. Per fortuna, direi: l’architettura cambia – come sempre. E dove anche il pilastro inclinato ha la sua ragione di esistere.
Nell’urbanistica
Beh, su questo tema si è già scritto tanto, non so che aggiungere. Mi viene però in aiuto un articolo, nemmeno recente, di Roberto Esposito apparso su «la Repubblica» il 6 gennaio 2012. Scrive: «Certo è che siamo di fronte a una vistosa contraddizione: da un lato assistiamo a una sorta di trionfo generalizzato della città, con una brusca impennata del processo di inurbamento (...) con agglomerati urbani sempre più estesi. Dall’altro è proprio tale espansione inarrestabile che, fagocitando i conglomerati circostanti, finisce per determinare l’implosione dello spazio cittadino in una sorta di città-regione non più assimilabile a quell’insieme di caratteristiche geografiche, storiche e simboliche che fino adesso hanno identificato qualcosa come una città. Tuttavia (...) non bisogna perdere di vista il fatto che questa metamorfosi in atto (...) trova la propria matrice originaria nella civitas romana (...) Mentre la polis greca rimanda ad una dimora stabile, radicata in un territorio delimitato da confini certi, la civitas romana è fin dall’inizio caratterizzata da una irresistibile tendenza all’ampliamento e allo sconfinamento. In questa chiave Massimo Cacciari, in La città (Pazzini 2004), ha potuto sostenere che a tenere insieme l’urbs romana non è l’origine territoriale, ma il fine ultimo, tendente all’infinito a coincidere con l’orbis, con il mondo intero».
Esposito, più oltre, scrive che «... la città antica raccolta (...) intorno ai luoghi simbolici del potere e del sacro (...) si affaccia sulla modernità assorbendo (...) i luoghi tipici della civiltà industriale – fabbriche, magazzini, mercati. È da tale processo di integrazione che nascono le grandi metropoli moderne, portatrici al loro interno di opportunità di sviluppo e di tensioni sociali, di contaminazioni e lacerazioni. (...) La città europea negli anni Trenta sembra toccare una soglia ultimativa oltre la quale muta radicalmente statuto. Mentre fino ad allora è sembrato ancora possibile organizzare questi vettori dissonanti in una cornice unitaria – secondo un piano funzionale cui lavorano gli architetti del Movimento Moderno – già dopo la guerra è come se una ferita irrimarginabile si incidesse nel suo corpo, separando la città da se stessa. (...) Da allora in avanti, e sempre più, la città perde del tutto la sua fisionomia, si sfalda e si deforma, si gonfia e si disgrega, in una mescolanza insensata di arcaismi e ipertecnologie, di rifiuti e hi–tech (...) Quando tutti i gangli operativi che ne collegavano le parti – la rete dei servizi, dei trasporti, delle comunicazioni, ma anche della luce, del gas, dell’acqua – sono diventati i nodi di una rete mondiale che rende le città “globali”, “infinite”, “reticolari”. Schiuma metropolitana – insieme fuori-città e anti-città, luoghi di flusso, miscela di etnie, pratiche e funzioni contrastanti. Non solo conflittuali, le città sono esse stesse oggetto di conflitto tra spazio e tempo, identità e differenza, saperi e poteri. (...) una tensione irrisolta tra dentro e fuori, unità e molteplicità, autoctonia e alterità. Anzi proprio l’idea di relazione – con tutti i dissidi che porta dentro – costituisce il punto a partire dal quale è possibile, ancora oggi e forse mai come oggi, pensare la città come un tessuto vivente in cui linguaggi, storie, mondi diversi vengono comunque a contatto».
Questa lunga citazione dell’articolo di Esposito è importante: esplicita chiaramente quanto siano diversi dal passato i parametri relativi alle città di oggi. Pur nelle ridotte dimensioni delle odierne città-aggregate del Ticino – Mendrisio, Lugano, Bellinzona – chissà se coloro che avranno il compito di redigere le linee guida per trasformare le città-aggregate in città tout court, in città compiute, saranno capaci di analoghe riflessioni. Che si rendano conto di quella «tensione irrisolta tra dentro e fuori, unità e molteplicità, autoctonia e alterità» di cui scrive Esposito.
Valori, parametri
Che i valori e i parametri siano diversi da quelli di ieri lo dimostra anche il documento Progetto territoriale Svizzera, elaborato dall’Ufficio federale dello sviluppo territoriale. È un documento interessante che, per chi non lo conosce, è scaricabile direttamente dal sito della Confederazione are.admin.ch. Ne riferisce proprio oggi 10 giugno il «Corriere del Ticino». È il progetto di una Svizzera in cui si spazza via l’odierna frammentazione del suolo in 26 Cantoni e si propongono 12 aree funzionali: quattro aree d’intervento a carattere metropolitano (Zurigo, Basilea, Lemano, regione della capitale Svizzera), cinque aree d’intervento caratterizzate da città di piccole e medie dimensioni (Lucerna, Città Ticino, Arco giurassiano, Aareland, Svizzera nord–orientale) e tre aree d’intervento alpine (Regione del San Gottardo, Alpi occidentali, Alpi orientali). «Ogni area d’intervento ha delle peculiarità e dei vantaggi specifici che vanno sfruttati e sviluppati in modo strategico», si legge nel documento. Sul «Corriere del Ticino» si specifica che «... le attività e le interazioni umane travalicano i ristretti confini politici cantonali e comunali, risalenti al Medioevo. Per motivi legati al luogo di domicilio, al posto di lavoro, alla formazione, agli spostamenti e al tempo libero, molti svizzeri oltrepassano ogni giorno i confini comunali e cantonali».
È un’idea non solo per pianificare il territorio, ma anche per affrontare i molteplici temi che oggi occorre risolvere, da quelli infrastrutturali e quelli dell’energia, da quelli delle relazioni economiche a quelli del mercato del lavoro, e così via. Il «Corriere del Ticino» riferisce anche l’articolo apparso sulla «Neue Zürcher Zeitung» del 7 giugno in merito a quanto sia complessa oggi l’organizzazione con 26 Cantoni: «... per affrontare le questioni di natura sovraregionale è stata creata una fitta rete di organizzazioni che comprende 15 conferenze dei direttori cantonali, 6 conferenze regionali dei Governi, 750 concordati e, per quanto riguarda i Comuni, 23 mila consorzi».
Eppure, o purtroppo, come ritengo, senza troppi giri di parole il consigliere di Stato Norman Gobbi afferma, citato nell’articolo del «Corriere del Ticino», che «... sono riflessioni che lasciano il tempo che trovano (...) Le loro visioni scientifico–intellettuali sono ben distanti dalla realtà territoriale e istituzionale».