Frammenti di città
Due progetti in cantiere di Guidotti Architetti
Casa Ex parrocchiale e casa Toti Truniger hanno soluzioni formalmente molto diverse, per certi aspetti anche antitetiche, ma spero abbiano in comune la volontà di fondare le proprie ragioni d’essere nelle caratteristiche strutturali del luogo per rispondere alle esigenze dell’abitare. In entrambi i casi, come crediamo debba essere in ogni caso, l’elemento di congiunzione tra contesto e funzione, tra la condizione urbana e la tipologia dell’edificio, è la struttura stessa della casa.
Casa ex parrocchiale a Monte Carasso
Questo progetto completa e conclude un progetto precedente, realizzato una decina d’anni fa. Si trattava dell’edificazione di una parcella sulla quale c’era già una palazzina degli anni Settanta, un edificio senza particolari qualità architettoniche, a sua volta risultato dello scorporo parcellario di una proprietà più grande. Il lotto è stato precedentemente diviso in due, dove c’era la casa sono stati ricavati tre appartamenti e nella parcella vuota è stata costruita la palazzina. Poi c’è stato il cambiamento del piano regolatore, che ha comportato il raddoppio degli indici, e di conseguenza la proprietà ha scelto di sfruttare completamente l’edificabilità del lotto. Il nostro primo mandato era di densificare questa parcella, compito che abbiamo assolto con il progetto di quattro moduli triplex (vedi progetto Residenza Pedemonte in Archi, 4/2005).
Già allora il tema fondamentale era ricomporre l’unità della vecchia parcella, perché evidentemente l’area residua non aveva le stesse qualità di collegamento e di connessione con la strada pedemontana che attraversa il nucleo. L’obiettivo era ricreare l’unità originale attorno a uno spazio centrale comune, caratterizzato da un cedro molto grande. Il progetto si sarebbe potuto completare con la costruzione sul lato opposto di una quarta ala. Si trattava, quindi, di convincere gli altri proprietari della possibilità di realizzare un salto di qualità, attraverso la messa in comune dello spazio centrale.
Il progetto è molto semplice: quattro volumi autonomi e separati, con gli angoli liberi per connettere lo spazio centrale con i percorsi pubblici e più in generale con il contesto circostante e per permettere alla luce di penetrare nel cuore del nuovo isolato. Il tema centrale per il quarto corpo di fabbrica era introdurre il volume all’interno del terreno, sfruttando gli indici senza ridurre nel contempo la generosa spazialità centrale che avevamo concepito, e che avrebbe fatto la differenza rispetto ad altri interventi di questo genere. A rendere più complesso il compito c’erano alcuni problemi funzionali da risolvere, come ad esempio quello del ricovero delle automobili (due per ogni unità abitativa, quando la superficie supera i 100 metri quadrati).
Da qui è nata la prima idea, la semplice soluzione di un problema complesso. Partendo da un ridotto punto di appoggio, si creano delle relazioni geometriche con le case esistenti, si concedono gli spazi per i giardini privati, e si prevedono i posteggi nelle porzioni più esterne. La vicinanza degli edifici tra loro e l’oggettiva carenza di spazio, hanno imposto questa soluzione staticamente impegnativa: un appoggio centrale di circa 9 metri, con due sbalzi laterali ognuno di 10 metri, che corrispondono alla misura minima necessaria per realizzare una fila di parcheggi di 5 metri più un accesso di 5 metri. Verso nord-est, ci siamo staccati dal confine per creare gli ingressi dall’interstizio esterno, in modo da scoprire il giardino solo in un secondo tempo, una volta che si è nella casa. In questo senso ci sarà quindi anche un muro che separa il giardino dalla zona di arrivo connessa con lo spazio pubblico della strada. Il vecchio muro di pietra del confine è stato recuperato, in modo che la prospettiva dalla strada venga conclusa da quell’elemento di limite e faccia diventare questo piazzale un degno spazio di arrivo. Materializzato in asfalto come la strada, sarà uno slargo percepibile all’interno di tutto il vecchio nucleo di Pedmunt.
Sulla questione dei due sbalzi così importanti, abbiamo fatto una serie di valutazioni con l’ingegnere Serafino Messi, che consideriamo a tutti gli effetti un coautore di questo progetto per via delle importanti implicazioni statiche e costruttive. Inizialmente abbiamo immaginato questa specie di fungo in calcestruzzo armato faccia a vista, poi la soluzione non si è rivelata fattibile per una questione di costi.
Il dimensionamento di questi sbalzi avrebbe imposto doppi cavi di precompressione e quindi pareti di 40 cm di spessore, e in più l’isolazione e tutto il resto: a tutti gli effetti si trattava della struttura di un ponte. Era un’ipotesi sproporzionata per due abitazioni e per i contenuti mezzi economici a disposizione. Con la mia famiglia, vivrò in affitto in una delle due abitazioni mentre nell’altra dovevamo prevedere comunque dei prezzi di mercato compatibili con quelli medi di Monte Carasso.
Questo è un altro tema interessante: come si fa a risolvere, con adeguate scelte costruttive e di materiali, quello che sembra fin dall’inizio costituire un handicap imposto dalla forma scelta? D’altra parte spero che la forma scelta non sia un vezzo, perché è nata (spero) da oggettive ragioni contestuali.
A questo punto del percorso progettuale si è posto un altro tema, quello – in generale – della costruzione, che sta oggi diventando assemblaggio di semilavorati, di componenti preconfezionati e progettati da altri, da scegliere in un catalogo. Si sta perdendo la capacità di comporre elementi e materiali, finalizzando la composizione al progetto. Ogni prodotto del mercato dell’edilizia è un prodotto finito, come ad esempio i pacchetti di muratura, o i sistemi di dettaglio del tetto: devi mettere in opera degli oggetti che qualcun altro ha pensato prima di te, che sono imposti dal mercato, uno standard che in Svizzera sta diventando prevalente. Soluzioni di lusso, di estrema performance tecnologica e tecnica, che fanno assomigliare tra loro un po’ tutte le architetture.
Abbiamo provato a opporci a questo meccanismo, a costruire l’edificio come avremmo costruito una capanna per bambini, con semplicità e naturalezza, prendendo un’asse, appoggiandola sull’altra. Siamo convinti che l’estetica non sia l’obiettivo ma il risultato di questo processo, del mettere assieme le cose, usando i materiali più poveri, non sovrapponendo strati di finitura sopra altri strati, con la cura necessaria a risolvere i problemi primari dell’abitazione e null’altro che questi.
Questo atteggiamento riduce i costi, perché riduce tutti gli spessori e gli strati. Così è nata l’idea di usare una carpenteria metallica molto libera e semplice dal punto di vista formale. Il primo piano – una specie di piano nobile aperto e illuminato sui due lati – è sospeso e appeso alla struttura del secondo piano, che è un grande traliccio. Al primo piano ci sono la sala, lo studio e poi, a seconda di come lo si usa, le camere. Nella parte superiore c’è una cucina, che abbiamo immaginato come uno spazio intimo dove si ritrova tutta la famiglia, una terrazza pensata come un cortile sospeso, perché non ha aperture verso l’esterno se non quella verso il cielo e le vicine montagne.
Il secondo piano è completamente chiuso. Forse è un po’ una reminiscenza di quando si pensava di costruire il fabbricato in beton. In realtà con un traliccio del genere, avremmo anche potuto immaginarlo completamente vetrato. Oppure, se non completamente vetrato, avrebbe anche potuto avere delle aperture da qualche parte. Però è andata così, non sono certo sia la scelta giusta, comunque oggi è così, e spero che possa funzionare bene.
La distribuzione è asimmetrica. Abbiamo previsto degli elementi che seguono il modulo strutturale, di circa m 3.30. Questi elementi sono permutati sull’asse longitudinale, cioè non sono disposti in modo simmetrico rispetto all’asse trasversale. Questa scelta è dovuta al contesto. Verso nord, non abbiamo la distanza legale per fare delle aperture, delle vetrate, per cui avevamo bisogno di un setto traslucido che, pur consentendo l’ingresso della luce, impedisse la vista. Dall’altra parte invece, volevamo l’elemento traslucido verso il giardino comune, per dotare di un po’ di privacy le zone interne dell’appartamento. Questa situazione è ruotata sull’asse centrale, mentre le porte d’entrata, e di conseguenza la partenza delle scale, non potevano essere ruotate perché abbiamo voluto entrambi gli accessi sul lato posteriore. Si accede, quindi, agli appartamenti in due modi diversi: una volta si arriva verso la facciata traslucida e una volta verso quella trasparente. Quando si arriva contro la facciata traslucida, se lo si desidera, è possibile chiudere lo spazio con un armadio che crea un corridoio e ricavare di conseguenza una camera supplementare. Dall’altro lato questa circolazione non poteva essere riproposta, perché non si poteva avere la camera senza finestre apribili. Si creano quindi delle tipologie diverse: da una parte la sala ha una doppia altezza illuminata dalla corte, mentre dall’altra parte la sala ha anch’essa la doppia altezza, ma collegata con il soggiorno. Sono due spazi diversi e questo non è percepibile dall’esterno. È una questione di pianta, una soluzione che tende a ridurre l’importanza dell’asse di simmetria centrale e crea una sequenza lungo l’asse longitudinale, e quindi in un certo senso riorienta tutto il volume verso la strada, verso lo spazio pubblico.
L’edificio deve prima di tutto funzionare, non deve solo essere una sequenza di ragionamenti logici che poi portano a un esito inutilizzabile o assurdo. Il progetto deve essere un processo coerente e razionale, non emotivo e basato sul gusto, la finalità è ovviamente l’architettura ma non bisogna dimenticare l’abitare. Adesso ne discutiamo tra di noi e può sembrare anche interessante preoccuparsi di com’è il processo per arrivarci, però alla fine in questi spazi bisogna starci bene, questo è il punto.
La questione è mediare tra questi due universi, quello dell’architettura e delle sue esigenze di razionalità e coerenza e quello del vivere bene uno spazio secondo il costume e i bisogni del nostro tempo. È sempre un compromesso tra quello che vorresti fare e quello che invece riesci a fare, è questa la condizione del mestiere. Mi viene in mente Josef Albers, che diceva che l’arte non è un oggetto, è un’esperienza. Questo è magnifico perché è teoria pura, se il tuo quadro non ti soddisfa, lo prendi e lo metti sotto al tavolo e magari lo butti. L’architettura no, nell’architettura alla fine qualcuno ci deve vivere. Non deve entrare acqua, ci devi star bene dentro, quando il tuo vicino litiga con la moglie non lo devi sentire o devi sentirlo il meno possibile. Ci sono questi aspetti molto pragmatici e ci sono le norme, con le quali sei sempre costretto a confrontarti, la cui applicazione dovrebbe di per sé garantire la qualità costruttiva. Un uomo di esperienza una volta mi ha detto una cosa che mi ha molto fatto riflettere, ossia che in realtà le norme sono utili solo per chi non sa fare meglio. A nessuno interessa, ad esempio, se il tetto sia a norma finché non entra acqua. La verifica della norma la fai solo quando entra acqua. Se hai costruito il tetto a norma ed entra comunque acqua, non hai problemi; se invece non l’hai costruito a norma, giustamente, ti viene gentilmente fatto notare di attenerti alle regole e di non inventare l’acqua calda. Se fai un progetto in un modo diverso, non corrispondente agli usi consolidati e celebrati dalle norme e l’acqua non entra, il problema non sussiste.
A questo proposito la questione dei dettagli è fondamentale. Quando decidi di assemblare gli elementi per realizzare una casa a ponte come questa, devi per esempio affrontare il tema della fonica. Se hai, come in questo caso, delle solette di 20 cm di legno massiccio che vuoi mantenere a vista sia sotto che sopra, e il rischio è che la struttura d’acciaio tesa come una corda di violino trasmetta tutti i rumori, il tema è come assembli ogni elemento con l’altro, come risolvi i nodi tra legno e acciaio. Puoi riuscire, progettando, a risolvere il problema senza rivestire i pavimenti. È con il progetto, con il progetto a tutte le scale, che si risolvono i problemi.
Casa Toti Truniger a Ravecchia
Si tratta di un edificio attualmente in cantiere a Ravecchia, un quartiere di Bellinzona che ancora oggi mantiene un carattere proprio. È un progetto che per genesi e anche per le soluzioni adottate ha delle analogie con il progetto che avevamo fatto a Monte Carasso per casa Forini (vedi pubblicazione Premio SIA 2012).
Anche nel progetto Forini il tema principale era riuscire a rispettare e mantenere il carattere del quartiere che in quel caso è composto da abitazioni contadine di tre piani costruite sui limiti parcellari lungo le strade. Queste case formano una sorta di fronte stradale che celava in passato dei terreni a carattere prevalentemente agricolo dove si trovavano le vigne, gli orti, i pollai e tutte la altre piccole costruzioni accessorie legate a un mondo rurale completamente scomparso. Volevamo riuscire a inserire in questo paesaggio in forte trasformazione qualcosa di subordinato a livello volumetrico ai corpi di fabbrica principali, che lavorasse maggiormente con il contesto di retro-corti, di edifici accessori e pertinenziali, nel tentativo di mantenere i rapporti tra i volumi primari e i vecchi terreni, i vecchi giardini e i vigneti.
Con questo nuovo progetto ci troviamo a Bellinzona, in un quartiere completamente diverso da quello di casa Forini, perché non è formato da case contadine, ma da case borghesi che non sono situate sul bordo stradale ma in mezzo ai giardini, una situazione molto diversa ma che paradossalmente subisce lo stesso processo di snaturamento. Succede infatti qualcosa di molto simile a quanto successo a Monte Carasso per casa Forini: il vecchio proprietario scorpora una parte di terreno e la vende per costruire una nuova abitazione. Una condizione, cioè, che comporta il rischio di introdurre una nuova volumetria che, per distanza dai confini, per altezza ammissibile ecc., entra in concorrenza volumetrica con le preesistenze e, in un certo senso, tende a distruggere la struttura urbana del luogo. Si tratta di una struttura fatta di case borghesi, non orientate, con quattro affacci identici sui quattro lati del giardino: questo è il carattere che dà qualità a quel luogo e scegliere di introdurre un volume di pari importanza, che rompe la logica preesistente di volumi autonomi, significherebbe compromettere la situazione.
I proprietari volevano una casa di dimensioni piuttosto importanti e non sapevamo come comportarci. Il problema non si poneva tanto per la nuova costruzione in sé, che avrebbe potuto senza troppi problemi trovare una sua logica rispetto al contesto, quanto per il fatto che questo nuovo volume avrebbe completamente stravolto la logica della villa esistente togliendole la forte autonomia e il rapporto a 360° con il suo parco. Il nuovo intervento avrebbe insomma stravolto una delle caratteristiche principali del tessuto di Ravecchia trasformando un quartiere costituito da ville nel parco in un quartiere di case a schiera.
Possiamo dire che questo progetto, per certi versi, è stato generato proprio dalla frustrazione. Ci siamo resi conto che a Bellinzona, in fondo, avremmo voluto fare quello che avevamo fatto a Monte Carasso con casa Forini. Ma a Bellinzona non si può costruire a confine su un piano solo. Il regolamento non lo permette. Per noi era tuttavia necessario costruire in modo subordinato rispetto alle preesistenze, che rappresentano il veicolo dei valori strutturali del luogo. Così, studiando più a fondo la normativa, ci siamo resi conto che ci sono dei casi nei quali il regolamento edilizio consente di costruire a confine. Sono i casi delle costruzioni pertinenziali, gli sgabuzzini, i locali accessori. Abbiamo addirittura scoperto che la pergola può essere collocata a confine, e non ha né limite di lunghezza né di altezza. Quindi, se l’idea è quella di salvare il parco, invece di fare una casa decidiamo di fare una pergola. Costruiamo una pergola che occupa tutto il terreno, e all’interno di questa pergola ricaviamo la spazialità necessaria per la casa. In questo modo i volumi preesistenti continuano ad avere la loro predominanza e la loro logica nel contesto costruito, e il giardino rimane un giardino, anche se in forma diversa: un giardino abitato.
Tutta la parcella è divisa in porzioni identiche e occupata da una griglia strutturale modulare. Sulla parte centrale di questa griglia appoggiamo il tetto della casa mentre sulle parti laterali della stessa griglia lasciamo crescere una folta vegetazione composta di rampicanti in parte stagionali e in parte sempreverdi. Per riuscire a realizzare una vera casa-pergola è fondamentale fare in modo che la pergola partecipi in modo strutturale alla casa. Volevamo che la pergola fosse parte integrante della casa, che appartenesse al suo sistema portante strutturale e che non fosse un semplice corpo accessorio attacato al volume principale. Per fare questo le travi portanti appoggiano su pilastri posti al centro della casa e su pilastri posti sul limite parcellario. In questo modo la parte interna dell’abitazine si dilata orizzontalmente e abbraccia tutta la parcella, fino al muro vegetale esterno.
Il concetto è in ultima istanza di subordinare la casa ai volumi preesistenti, farla scomparire, farla appartenere più al mondo dei giardini che non a quello delle ville borghesi che formano il quartiere.