Intervista a Antonio Hodgers
Figlio di un oppositore politico assassinato dalla dittatura argentina, trova asilo in Svizzera nel 1981. Laureato all’Istituto di alti studi internazionali, promuove i diritti politici degli stranieri. Nel 1997 è eletto consigliere della Repubblica; in seguito è membro del bureau, capogruppo e consigliere nazionale. Dal 2013 è al Consiglio di Stato, dove dirige il Dipartimento dell’urbanistica e dell’energia, incaricato della pianificazione territoriale, della costruzione di alloggi, della tutela del patrimonio e dell’approvvigionamento energetico, a cui si aggiungono nel 2018 mansioni di tutela ambientale.
Si presenti in poche parole: chi è e cosa fa?
Mi chiamo Antonio Hodgers e dal 2013 sono consigliere di Stato a Ginevra. Dal 1° giugno 2018 presiedo il Dipartimento del Territorio, istituito con lo scopo di unire i principali attori politici e pubblici che hanno un’incidenza sul territorio. Confluiscono nel dipartimento gli enti urbanistici, di tutela della natura e del paesaggio agricolo, di protezione del patrimonio e dell’ambiente, fino agli uffici che rilasciano i permessi di costruire o che si occupano degli alloggi e dell’energia.
Quali sono le tre cose che più hanno contribuito alla sua formazione?
I viaggi sono stati determinanti, in particolar modo quelli nelle capitali europee dopo la mia nomina nel 2013, quando ho cominciato ad affinare la sensibilità verso l’architettura e l’urbanistica. Prima ancora, sono stati formativi i sei mesi passati a percorrere in lungo e in largo l’America del Sud, quando avevo solo 19 anni. Infine voglio ricordare i 10 anni di lotta per il diritto di voto agli stranieri a livello comunale con il progetto «J’y vis, j’y vote» (Voto dove vivo).
Come interpreta il concetto di Baukultur?
La culture du bâti è il sapere costituito dall’insieme dei manufatti che hanno permesso all’uomo di abitare il mondo: dai primi rifugi ai grands ensembles, dalle ferrovie alle autostrade, dai ponti ai tunnel, dai villaggi alle megalopoli, fino alle risaie e ai vigneti a terrazze. Eppure non possiamo considerare questi artefatti come elementi culturali finché non sono in grado di proporre una nuova relazione armoniosa con l’ambiente che modificano.
Il 2018 è stato dichiarato anno europeo del patrimonio: come interpreta questo tema?
Il patrimonio trascende la durata temporale delle nostre vite: ci è stato lasciato in eredità dai nostri progenitori e noi lo consegneremo ai nostri figli. Questo non implica necessariamente che quello che ci è stato trasmesso debba restare immutato e che non possa adattarsi a nuove funzioni, né che ci si sforzi di nascondere gli effetti del tempo sulla materia.
Sono attratto dall’idea del restauro conservativo teorizzato da Camillo Boito nel XIX secolo, secondo principi che hanno fornito una base alla Carta di Venezia:1 si può e si deve intervenire su un bene patrimoniale che presenta danni o minaccia di andare in rovina e si possono apportare modifiche, con molto tatto, per adattarlo a nuove funzioni, o per farlo dialogare con un nuovo edificio.
A Ginevra è possibile leggere simultaneamente diverse soglie storiche e, malgrado alcune distruzioni, si è evitato il triste fenomeno della «tabula rasa». Ai centri storici della Cité e di Saint Gervais si sono aggiunti gli edifici della cintura fazysta, gli ensembles costruiti tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, le città-giardino, quelle del dopoguerra e i molteplici esempi che testimoniano la qualità della produzione ginevrina contemporanea, specialmente per quanto concerne la residenza collettiva.
Oggi bisogna guardare alla crescita urbana come a una mutazione misurata, sensibile e in grado di integrare il patrimonio. Bisogna dedicare molta cura alla pianificazione e grande attenzione alla qualità delle costruzioni e degli spazi pubblici, dunque alla qualità della vita.
Come possono le istituzioni contribuire allo sviluppo e alla diffusione di una cultura della costruzione che produca un incremento della qualità dell’ambiente costruito?
Possono farlo aumentando il livello dei requisiti qualitativi per le nuove costruzioni o per le ristrutturazioni, non moltiplicando criteri e norme; ad esempio potrebbero comparare in maniera sistematica diverse soluzioni (i concorsi di urbanistica, di architettura, per il paesaggio o le infrastrutture), o far partecipare i futuri utenti.
La migliore campagna a favore della cultura della costruzione è quella che fanno gli abitanti, quando sono soddisfatti. Non sono d’accordo con chi sostiene che il popolo è ignorante riguardo all’architettura e all’urbanistica e che di conseguenza bisogna educarlo; molto spesso il problema è che i luoghi in cui vive e lavora sono inadatti e sgradevoli.
Come possono farlo le scuole?
La domanda suggerisce l’idea di un vuoto culturale pregresso che prima i maestri e dopo i professori dovrebbero colmare! L’architettura è l’unica arte che tutti condividiamo, perché, da quando siamo nati, ognuno di noi abita degli edifici e ne ha un’esperienza spaziale molto precisa, che si incide nella memoria. Spesso sono rimasto colpito dal modo in cui gli abitanti parlano del loro quartiere, perché trasmettono una minuzia di particolari e una sensibilità superiori a quelle di un esperto o di uno storico dell’architettura.
La cultura della costruzione è, per la maggior parte, una cultura di cantiere: è la «mano che pensa» dei carpentieri, dei lapicidi, dei pittori e dei muratori. Ed è proprio questa parte della cultura che si sta impoverendo terribilmente, che si perde per effetto della standardizzazione commerciale degli elementi costruttivi.
Come può una persona (oppure un’istituzione) contribuire a diffondere una cultura del costruire che integri i concetti di sostenibilità, non solo ecologica, ma anche economica e umana; la partecipazione al progetto o almeno l’informazione?
Prima di tutto bisogna cominciare a considerare gli utenti come veri attori dell’ambiente costruito in cui vivono. Oggi si crede ancora alla falsa promessa di poter ottenere un progresso sostenibile attraverso più tecnologia, più domotica, più sistemi pilotati da un’intelligenza artificiale. Per comprendere quanto questo sia infondato basta aver dovuto affrontare, a casa o al lavoro, l’impossibilità di aprire una finestra quando fa molto caldo o si vorrebbe prendere una boccata d’aria, o una tapparella che scende al momento inopportuno, o una luce che si spegne troppo presto perché non ci si muove. Chi ha vissuto questo incubo domestico, che Jacques Tati aveva preconizzato nel suo film Playtime, comprenderà gli effetti perversi indotti dalla frenesia tecnologica che caratterizza la nostra epoca.
A mio avviso, oggi abbiamo urgente bisogno di affrontare criticamente i temi della cultura della costruzione attraverso il dibattito pubblico.
Nota
1. Carta di Venezia per il restauro e la conservazione di monumenti e siti, 1964.