Intervista a Gianni Biondillo
Architetto e scrittore. Fra i suoi saggi: «Pasolini. Il corpo della città» (2001), «Metropoli per principianti» (2008) e, con M. Monina, «Tangenziali. Due viandanti ai bordi della città» (2010), viaggio a piedi attorno a Milano. Per Guanda ha pubblicato la pluripremiata serie di indagini poliziesche dell’ispettore Ferraro e «Come sugli alberi le foglie» (2016), dedicato all’architetto Antonio Sant’Elia e al circolo futurista intorno a Marinetti. È tra gli animatori del progetto «Sentieri metropolitani» per scoprire Milano a piedi.
Archi: Si presenti in breve: chi è e cosa fa?
Gianni Biondillo: Sono architetto e scrittore, padre di famiglia, una sorta di anfibio.
Quali sono le tre cose che più hanno contribuito alla sua formazione?
A 12 anni ho visto per la prima volta 2001: Odissea nello spazio e ho sentito che il mondo visivo poteva legarsi a quello sonoro, creando un immaginario intenso e potente. Poi a 14 anni ho ascoltato My favourite things suonata live da John Coltrane: in entrambi i casi si tratta di opera-mondo. A casa mia non c’erano libri, quindi leggevo quelli della biblioteca; in quinta elementare presi Ventimila leghe sotto i mari e mi appassionai così tanto che non riuscii a restituirlo. Anni dopo sono tornato in quella piccola biblioteca e ho regalato loro molti libri per riparare a quel primo furto d’amore.
Come interpreta il concetto di Baukultur?
La vastità di questo grande contenitore è la sua potenza, ma ne costituisce anche il limite (e lo dice un curioso cronico!). Quando insegnavo Psicogeografia e narrazione del territorio all’Accademia di Mendrisio, gli studenti mi guardavano stupiti perché passavo dall’antropologia al cinema, dalla filosofia all’urbanistica, dalla poesia all’architettura. Anche se è necessario assimilare delle competenze, il mio corso aveva come obiettivo la conoscenza, ovvero la capacità di unire i campi disciplinari e attraversarli. La conoscenza è transdisciplinare: costruisce relazioni e legami sinaptici nuovi e ci permette di vedere in maniera diversa il paesaggio che crediamo di avere in comune.
L’idea di attraversare a piedi con gli studenti i luoghi più disagiati e vedere una fabbrica, un battistero medioevale, un fiume, una diga, un confine, spiegando che questo è un racconto fatto dal territorio stesso, serve per far capire al progettista che la sua deiezione geniale non interessa, se non risponde alle esigenze del territorio. Pensare che il territorio sia un foglio bianco su cui intervenire: questo ha creato il mito dell’archistar, che ha trasformato l’architettura in un affare da parrucchieri, da arredatori del paesaggio, ed è finalmente tramontato. Una volta gli architetti erano consapevoli del loro ruolo sociale e lavoravano con attenzione e impegno, perché sapevano che stavano cambiando il modo di abitare, di gestire il territorio, addirittura il modo di pensare delle persone; la trasformazione da intellettuali a stilisti modaioli è stata l’umiliazione di una disciplina. Gli architetti non devono cercare la fama, ma la qualità, cioè lavorare consapevoli di produrre una trasformazione radicale del paesaggio.
Le categorie del Novecento sono passate e dobbiamo costruire un nuovo vocabolario per il XXI secolo; centro e periferia, città e campagna non sono più sufficienti né rappresentative. Oggi c’è un nuovo modo di considerare uno dei termini chiave, il territorio, che nel Novecento sembrava una risorsa inesauribile, mentre sappiamo che è un bene finito. L’Europa è il territorio più antropizzato al mondo: non c’è niente di naturale, anche l’ultimo dei boschi esiste perché qualcuno 500 anni fa ha tolto alcune essenze e ne ha piantate altre. Tutti i castagni che popolano le montagne dalle Alpi in giù, nel Medioevo fornivano il pane e il legno per sfamarsi, costruire e scaldarsi. Dunque se il paesaggio non è infinito, bisogna lavorare su tutti quei territori che hanno ancora una natura ambigua, come le aree di riconversione industriale e quegli spazi di degrado di cui parla Renzo Piano quando dice che è necessario un «rammendo urbano». Oggi bisogna definire che cos’è il paesaggio, spiegare agli studenti di architettura che non faranno aeroporti e teatri, ma che devono imparare ad essere creativi lavorando sull’esistente, con la riconversione di aree dismesse o il ridisegno di tutta la quota zero del territorio.
Un esempio di grande attualità è il ponte Morandi, frutto della tracotanza novecentesca, ma anche dell’idea che, una volta costruite, le cose si reggano da sole: se non ne abbiamo cura, come in un pezzo di Pasolini, a un certo punto il passato si suicida da solo. Il ponte Morandi, capolavoro dell’ingegneria novecentesca, è stato umiliato dal pensiero che basti costruire, mentre le cose hanno bisogno di essere continuamente risignificate. Questa è per me la cultura del costruire: avere continua attenzione per le cose che sono esistite, che esistono e che esisteranno.
Come si insegna questo rapporto con il costruito?
Innanzi tutto si deve andare a vederlo: non si può pensare di fare architettura sulla carta o sul computer, ma bisogna cambiare lo sguardo, capire quali sono le esigenze del territorio, parlare con le persone perché loro sono il territorio. Il territorio ci somiglia: anche un intervento brutto era necessario per noi in quel momento e in quel luogo e se oggi non lo è più bisogna chiedersi cosa farne. Davanti alle brutture del territorio non ci si riconosce, ma quando ho fatto il giro delle tangenziali di Milano a piedi per un mio libro, ho raccontato Milano molto di più di quelli che parlano del centro, perché ho portato i miei lettori lontano dal «salotto buono» del Duomo e di Brera, li ho fatti entrare nel ripostiglio, nel cavedio maleodorante: ho fatto vedere l’opera non dalla platea ma dal retropalco, dove si tirano i cavi e si spostano scenografie. Ho assistito a questo flusso di merci e di persone, che è fondamentale per tenere in vita il Castello e il Duomo: l’uno non può esistere senza l’altro. Per la prima volta quei territori marginali sono entrati in un libro e hanno cominciato ad esistere solo perché sono stati nominati. Ci hanno invitati a parlare nelle sale di quartiere perché grazie a questo libro gli abitanti hanno iniziato a riconoscersi senza dover guardare a piazza del Duomo e questo è un approccio fondamentale per il progettista. Per conoscere il territorio in cui si progetta c’è una sola ricetta: l’urbanistica si fa a piedi, lo diceva anche Bernardo Secchi.
Quale è oggi il rapporto tra la città e il verde?
Una volta fuori dalle mura c’era il paesaggio, che conteneva il paese, mentre ora partendo da Milano a piedi si può arrivare a Bergamo, Como, Lugano senza mai uscire dalla città: alcuni scrittori di fantascienza parlano di ecumenopoli, cioè di metropoli di metropoli. Il rapporto si è ribaltato: oggi le aree verdi sono contenute, inglobate nello spazio urbano, come dimostrano il Parco delle Groane o la Villa di Monza. Allora possiamo considerare Milano una città di otto milioni di abitanti, che parte da Novara e arriva a Brescia, a Lugano, e che scende fino a Piacenza; una città transnazionale, questa è ormai la scala a cui bisogna ragionare, senza però annullare le realtà locali di vicinato. Lo smog di Milano, i suoi aeroporti, i suoi poli attrattivi insistono su questo ampio bacino, dunque bisogna riconvertire la mobilità potenziando quella pubblica, che funziona meglio proprio dove la popolazione si addensa. Non esistono soluzioni semplici, perché il problema non è complicato, ma è certamente molto complesso.