La fo­to­gra­fia e la lu­ce ar­ti­fi­cia­le

La luce è l’essenza stessa della fotografia, come conferma l’etimologia greca del nome «foto» (luce) e «grafia» (scrittura, disegno). Oltre che con la luce naturale proveniente dal sole, si possono realizzare fotografie con luce mista (naturale e artificiale) oppure, come quando si lavora in studio, solo con luce artificiale.

Data di pubblicazione
18-06-2015
Revision
22-10-2015

Se la luce diurna varia continuamente di intensità e di colore, il vantaggio nell’uso dell’illuminazione artificiale è la sua stabilità e riproducibilità, che può permetterci di ricreare le stesse condizioni di luce in ogni momento, senza dover dipendere dal tempo atmosferico, dalle stagioni e dagli agenti esterni.

Nonostante il fascino che da sempre esercita la luce solare (e di conseguenza l’ombra) sul fotografo, ci sono professionisti che non sopportano l’idea di dover aspettare che il sole si sposti, ma preferiscono avere sotto controllo nei minimi dettagli l’illuminazione di una scena e pertanto propendono per fotografare in studio con luce artificiale. Ovviamente, sono anche altri fattori, occasioni lavorative e scelte, che portano il fotografo a prediligere il lavoro in esterni, in interni o in studio, ma di certo le preferenze in tema di illuminazione sono fondamentali. La fotografia con luce artificiale e in particolare la fotografia a colori deve prendere in considerazione il colore della luce, la sua temperatura colore. Ogni fonte di luce (incandescente, fluorescente, led ecc.) possiede una sua temperatura colore che viene misurata in gradi Kelvin e varia da un colore tendente al rosso (temperatura colore bassa) a uno tendente al blu (temperatura colore alta). Se gli occhi e il cervello sono in grado di filtrare la temperatura colore, normalizzandola, lo stesso non succede alla macchina fotografica, che registra implacabilmente tutte le diverse fonti di luce con rese cromatiche differenti.

Fotografia d’architettura in interni e luce artificiale

Quando si realizzano fotografie d’architettura in interni, spesso bisogna confrontarsi con l’illuminazione artificiale. A volte è l’architettura stessa che lo richiede o il progettista per valorizzare il proprio lavoro, altre volte è il fotografo, che può decidere di utilizzare le luci esistenti inserite nel progetto o di affiancare ad esse altre fonti luminose.

Gran conoscitore della luce artificiale per la fotografia di architettura e d’interni è sicuramente Julius Shulman, che opera negli Stati Uniti a partire dal 1936 fotografando i progetti di molti architetti, tra cui Richard Neutra. Shulman nei suoi scatti, a volte su suggerimento e richiesta dell’architetto stesso,1 esegue un controllo attento della luce artificiale. Egli ci illustra ampiamente le tecniche di illuminazione che usa nella fotografia di architettura, mettendo in rilievo i casi più problematici: «quelli in cui nell’inquadratura c’è una finestra sufficientemente ampia da lasciare entrare luce esterna, tale da richiedere un bilanciamento luminoso con l’interno».2 Ciò si verifica perché, se noi esponiamo facendo una valutazione sull’interno, la parte finestrata risulterà sovraesposta e, di conseguenza, non leggibile. Se, al contrario, ci basiamo su ciò che è visibile dalla finestra per decidere i tempi di apertura dell’otturatore, perderemo informazioni sull’interno, che risulterà troppo buio.

Secondo Shulman a ciò si può ovviare utilizzando delle luci interne supplementari (flash) che vanno a compensare le differenze esistenti tra i due ambienti (interno ed esterno).3 Per risolvere questo tipo di problemi con la fotografia digitale si può anche procedere realizzando più scatti con diverse esposizioni, che poi verranno adeguatamente scelti e sovrapposti in post produzione. In alternativa, la fase di ripresa può essere eseguita durante il crepuscolo, un momento breve in cui la luce proveniente dall’esterno è meno intensa e si può facilmente compensare con l’illuminazione interna. L’orario del tramonto, se si fotografa a colori, può rendere la fotografia molto evocativa e accattivante, ma bisogna valutare sempre se l’aspetto glamour e pubblicitario che l’illuminazione artificiale può dare all’immagine è coerente con l’architettura fotografata.

In interni, l’intervento con luci artificiali supplementari si giustifica ancora meglio quando l’illuminazione aggiunta va a evidenziare le caratteristiche dello spazio. In alcuni dei molti esempi che propone Shulman, questo valore aggiunto è evidente e ci permette di leggere i diversi piani esistenti, di dare spessore all’arredamento e ai materiali o di rendere più o meno drammatica un’inquadratura.4 Shulman porta sovente dei casi concreti e degli esempi di riferimento in cui spiega il proprio lavoro e le scelte che, di volta in volta, compie. In questo modo egli stesso ci rivela che l’esperienza conta molto più di qualsiasi consiglio.5 Effettivamente, a meno di ricorrere a dei manuali tecnici, che però hanno dei limiti evidenti dettati dal tempo in cui sono stati realizzati e dal fatto che ogni caso studio è irripetibile, spesso è conveniente far esperienza sul campo o affiancando fotografi più esperti.

Con l’avvento del digitale, il modo di utilizzare la luce artificiale si è modificato. Se una volta il fotografo d’architettura doveva, in fase di ripresa, esporre correttamente la diapositiva o il negativo utilizzando i filtri atti a correggere le dominanti di colore che derivano dalle diverse fonti luminose, oggi il problema viene spesso trattato successivamente, a computer, con i programmi appositi. Attraverso delle accurate elaborazioni digitali, è inoltre possibile creare effetti luminosi estremamente realistici da inserire su fotografie già realizzate.

Fotografi e luce artificiale

Nella speranza che possa essere fonte d’ispirazione per il fotografo di architettura e, forse, per l’architetto, è interessante fare qui riferimento alle fotografie con luce artificiale di alcuni autori. Il punto di partenza dei lavori presentati, che in parte ha contribuito a far entrare a pieno titolo la fotografia nel mondo dell’arte, non è quello di descrivere il soggetto in modo spettacolare, come spesso capita nelle immagini di architettura illuminate artificialmente. La peculiarità di questi autori è basata proprio su un uso non convenzionale del mezzo e della luce: la macchina fotografica diviene uno strumento analitico attraverso cui porsi di fronte al mondo, mettere in discussione ciò che vediamo e la nozione stessa di realtà.6

William Eggleston
Untitled (Greenwood, Mississippi) è una delle immagini più famose di William Eggleston. La fotografia, il cui colore predominante è il rosso vivo, ritrae una lampadina attaccata al soffitto tramite un supporto dorato, posizionata leggermente a sinistra rispetto al centro dell’immagine, dalla quale partono tre fili bianchi che vanno in direzioni diverse del soffitto e una corta catenella per l’accensione. La lampadina sembra essere oscurata o bruciata, ma poco più in alto si legge un riflesso sulla vernice rossa, probabilmente dovuto al flash utilizzato nello scatto. Eggleston inquadra un angolo della stanza da una posizione semi sdraiata, dove le pareti incontrano il soffitto e riesce, senza descriverlo nella sua interezza, a farci intuire lo spazio interno in cui si trova e la sua atmosfera. Il colore predominante è un rosso saturo, intenso, di pareti e soffitto. Nonostante Eggleston sia conosciuto per le sue fotografie a luce naturale, in questo caso, la lampadina e quindi la luce artificiale nella sua espressione più immediata, è il punto centrale della fotografia.

Joel Meyerowitz
Altri fotografi europei e nordamericani hanno usato la macchina fotografica per documentare il paesaggio e la città, realizzando visioni notturne e serali senza preoccuparsi di controllare il colore che assumeva la luce in fotografia, ma sfruttando le potenzialità e l’effetto che le diverse fonti di luce danno alla scena. Joel Meyerowitz ha realizzato delle vedute notturne in esterni del paesaggio urbano, mescolando più sorgenti luminose (con diverse temperature colore), che creano delle interessanti combinazioni cromatiche sulla pellicola. «L’architettura per me è diventata parte integrante del mio fotografare nelle strade. In bianco e nero era meno interessante, ma appena sono passato al colore ho iniziato a rapportarmi all’architettura come a un elemento collegato alle altre parti dell’inquadratura. La fotografia a colori fa capire che gli edifici sono molto più vivi».7

Stephen Shore
All’inizio degli anni Settanta Stephen Shore ha utilizzato la luce artificiale del flash di una macchina Rollei 35mm per documentare un viaggio attraverso gli Stati Uniti. Nel progetto, intitolato American Surfaces, le fotografie riprendevano, come in un diario, dei dettagli apparentemente insignificanti di stanze di motel, pompe di benzina, pranzi non certo indimenticabili e persone incontrate, con un’estetica ordinaria. «Ogni sua serie è guidata da una struttura di base, che non cede mai lo spazio al virtuosismo fotografico».8

Martin Parr
Il fotografo utilizza la luce artificiale di un flash circolare posizionato sulla macchina da presa per illuminare i soggetti fotografati, esaltandone i colori e i riflessi ed eliminando le ombre, riducendone il contrasto. Martin Parr ci pone davanti a dei dettagli della società del consumo e, tramite dei colori forzatamente artificiali e con delle riprese ravvicinate di oggetti, corpi e cibi rappresenta l’alienazione nella quale viviamo.

Axel Hütte
Tra i fotografi appartenenti alla scuola di Düsseldorf,9Axel Hütte ha lavorato a una serie di fotografie notturne di paesaggi urbani, nella quale esplorare i limiti della percezione. Nel libro As dark as light gli elementi del paesaggio notturno perdono i loro colori. Allo stesso modo, ogni riferimento di profondità, altezza, primo piano e sfondo viene assorbito dall’oscurità, nella quale terra, cielo e orizzonte si sovrappongono in un unico piano. Solo le luci artificiali ci fanno distinguere forme e colori, interni delle case e illuminazione stradale. La luce artificiale ci permette di esplorare le visioni notturne e ricercare in esse dei punti di riferimento nuovi, per poterci orientare nel buio, ai limiti del visibile.

Candida Höfer
Nelle fotografie di Candida Höfer, che ha lavorato principalmente negli interni di istituzioni pubbliche in assenza di persone, la luce artificiale, quando è presente, spesso è mescolata a quella naturale, ma sempre neutra e fredda, anche in casi in cui questo ha sicuramente comportato notevoli modifiche in fase di stampa per far coincidere la propria idea luminosa dello spazio con quella effettivamente registrata dal mezzo.

Guido Guidi
Anche Guido Guidi, che nella sua ricerca fotografica sulla Tomba Brion ha approfondito gli effetti della luce solare e in particolare dell’ombra sull’architettura di Carlo Scarpa,10 ha realizzato un lavoro sfruttando la luce artificiale. In Bunker, una serie di fotografie realizzate sulla linea atlantica, Guidi esegue delle viste dall’interno guardando attraverso le feritoie e le aperture. In molte di queste fotografie ha dovuto utilizzare il flash per illuminare l’interno, altrimenti completamente buio e compensare la differenza di luce con l’esterno illuminato dal sole.

Jeff Wall
Jeff Wall, il cui ruolo somiglia di più a quello di un regista, costruisce dei set cinematografici di situazioni in apparenza quotidiane e realistiche, controllandone tutte le variabili e anche la componente luminosa. I suoi tableaux, in cui cita importanti opere della pittura ed esplora il rapporto tra naturale e artificiale,11 sono presentati retroilluminati, nella forma di light box.

Gregory Crewdson
Nelle fotografie di uno dei maggiori esponenti della staged photography,12Gregory Crewdson, la luce artificiale ha un ruolo fondamentale nel narrare una storia, è il suo mezzo privilegiato per dare enfasi alla psicologia nascosta dietro alla superficie dell’immagine. Mistero, solitudine, paure, desideri e inquietudini emergono dai paesaggi quotidiani della provincia nordamericana, rivelandone il lato più oscuro. Egli si avvale di tecniche cinematografiche e di una vera e propria troupe composta da molte persone (scenografi, truccatori, attori ecc.) e, attraverso il controllo di numerosi fonti luminose, da quelle per gli esterni ai punti luce all’interno delle automobili o delle abitazioni, ci suggerisce una storia condensandola in un’immagine.

Note

  1. Il riferimento è al confronto tra il fotografo e l’architetto R.M. Schindler riportato in Julius Shulman, L’architecture et sa photographie, Taschen, Koln 1998, pp. 45-47.

  2. Julius Shulman, Photographing Architecture and Interiors, Balcony Press, Los Angeles 2000, p. 63.

  3. Ibidem.

  4. Ibidem, p. 69.

  5. Julius Shulman, The photography of architecture and design, Whitney Library of Design, New York 1977, p. 45.

  6. Ghirri parla della consapevolezza che «la luce della fotografia non è la luce della realtà» e di una «sensibilità nei confronti della luce» finalizzata al «rapporto di conoscenza con il luogo e con la sua rappresentazione», in Luigi Ghirri, Lezioni di fotografia, Quodlibet, Macerata 2010.

  7. Joel Meyerowitz, in Brynn Campbell (a cura di), World Photography, Ziff-Davis Books, New York 1981.

  8. Stephen Shore, Phaidon Press, London 2007.

  9. Nata in Germania nel 1976 dagli insegnamenti dei coniugi Becher, famosi per le loro visioni seriali in bianco e nero dell’architettura industriale.

  10. La mostra è stata esposta nel 2013 all’Accademia di architettura di Mendrisio.

  11. Sul tema del rapporto tra realtà e finzione merita un cenno il lavoro di Thomas Demand, che costruisce dei modelli a grandezza naturale allo scopo di fotografarli. Il suo ruolo viene così a posizionarsi tra quello dell’architetto e quello del fotografo.

  12. La fotografia allestita ha tra i suoi esponenti anche Philip Lorca di Corcia. Le sue fotografie, all’apparenza di strada e di reportage, sono costruite invece con comparse e luci.

Magazine

Articoli correlati