La via svizzera dell’allestimento: non solo orologi...
Mario Botta, Guscio, 1985. Concepito nell’ambito della mostra Le affinità elettive tenutasi alla XVII Triennale, il progetto evidenzia un sensibile distacco da una concezione degli arredi convenzionale, per riportare il discorso di nuove forme sul terreno di una nuova spazialità degli oggetti e di una loro attitudine a interagire con gli altri elementi che definiscono lo spazio dell’uomo.
La citazione di Giancarlo De Carlo, «direttore morale» della fallimentare XIV Triennale travolta dalla contestazione, coglie l’essenziale degli eventi espositivi: essere diretta espressione della loro provvisorietà come pure delle proprie condizioni di produzione. Tuttavia, questa premessa nasconde una fragilità densa di potenzialità: genera dibattiti, approfondimenti critici, riflessioni che diventano progressivamente cartina di tornasole dello spirito del tempo. Nell’ultimo secolo, infatti, la Triennale di Milano – dedicata fin dalle origini all’architettura e alle arti applicate – è stata espressione della vitalità della cultura italiana, evolvendo da un approccio storicistico ancorato alla tradizione artigianale nei primi appuntamenti monzesi degli anni Venti a un nuovo assetto produttivo strettamente legato al campo professionale e imprenditoriale lombardo, attento all’innovazione industriale, agli sviluppi tecnologici e al loro impatto sulla sfera pubblica. La sua programmazione ha sempre saputo afferrare i temi e le criticità del momento tramite le diverse sfaccettature della cultura progettuale: dal ventennio fascista con l’emergere dell’architettura razionalista alla ricostruzione del dopoguerra, il boom economico e la nascita del design, le trasformazioni urbane e territoriali degli ultimi decenni del Novecento, l’affermarsi dell’ecologia e la globalizzazione nel nuovo millennio.
Senza pretese di esaustività, Archi focalizza alcuni momenti rilevanti dell’itinerario ormai centenario di questa istituzione, ambito fecondo di relazioni e scambi in cui architetti, designer e artisti elvetici hanno lasciato un’impronta significativa, teorica e materiale. Questi sguardi incrociati nutriti da progetti e realizzazioni, grafica d’avanguardia, installazioni, iconici oggetti di design, hanno saputo travalicare i limiti disciplinari trovando spazi di sperimentazione e reciproca influenza.
I contributi del numero accennano dunque alle problematiche che hanno coinvolto queste figure nelle diverse edizioni della Triennale. Il saggio di Elena Dellapiana descrive l’andamento delle mostre della sezione svizzera e delinea la fortuna critica che la loro partecipazione suscita sia sul versante della pubblicistica confederata, sia sulle riviste italiane (registra, tra l’altro, la distratta indifferenza riservata ai primi appuntamenti e l’exploit degli allestimenti di Max Bill per la VI Triennale del ’36 e, soprattutto, per quella del ’51, quando «l’etereo padiglione svizzero» raccoglie l’approvazione generale esprimendo al meglio la tanto auspicata sintesi delle arti; senza tralasciare il rimprovero riservato da Gillo Dorfles alla sezione nazionale diretta da Alfred Roth per la XI Triennale del ’57, che «ripropone sostanzialmente la commistione tra pezzi industriali e di artigianato artistici, con un focus sugli orologi»). In perfetta continuità Andrea Maglio contestualizza le performance di Bill in queste due celebri occasioni espositive, e rileva come in questi anni di ricerca di identità – con diverse accezioni al di qua e al di là delle Alpi – egli fosse impegnato nell’elaborazione linguistica di un’efficace strategia figurativa che evitasse gli stereotipi nazionali nella definizione dell’immagine «pubblicitaria» del suo Paese.
I curatori del numero si soffermano invece sulle due ultime edizioni degli anni Sessanta: analizzando la sezione svizzera della XIII Triennale (1964), Massimiliano Savorra riflette sulle sfumature presenti nella concezione etica del tempo libero alla base dei principi pedagogici che guidarono l’intervento progettuale di Hans Fischli, commissario della sezione svizzera dedicata al tema dell’educazione e ritenuto da Roth la persona «plus appropriée pour traiter ce sujet»; mentre Gabriele Neri riprende alcuni degli interrogativi sollevati dalla mostra mai vista dedicata al Grande Numero, curata da De Carlo e fulcro della XIV Triennale (1968). All’interno dei limiti e le opportunità offerti dalla prefabbricazione, strumento privilegiato dall’edilizia residenziale di massa, la sezione elvetica presentava la sua (rassicurante?) interpretazione, esplorando con una forte dose di ambiguità la questione dell’esercizio della libertà progettuale e della possibilità di scelta dell’utente. Pragmatismo e creatività connotavano l’allestimento da cui emergevano suggestivi parallelismi tra metodi costruttivi, arti e tecniche, attingendo come corollario alla musica contemporanea sperimentale (argomento approfondito da Simon Obert). Infine, Marco Sammicheli chiude il percorso narrativo individuando nell’ultima fase della presenza del design elvetico in Triennale due testimonianze legate da una comune sensibilità: la mostra itinerante No name design, curata da Franco Clivio e Hans Hansen nel 2014, e il ruolo dello studio NORM di Zurigo, dal 2019 responsabile della nuova immagine grafica dell’ente milanese. Due episodi recenti che confermano la continuità dei saldi rapporti tra il design svizzero e quello italiano anche nel XXI secolo.