L'o­pe­ra co­me at­to di in­ter­pre­ta­zio­ne

Le potenzialità dell'incontro tra arte e architettura vengono intese come strumenti per abitare criticamente il presente e trasformare lo spazio in esperienza collettiva. Un invito a guardare, riconoscere e proteggere la preziosa pluralità del presente, spesso fragilizzata.

Data di pubblicazione
08-04-2025

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Poietike episteme: così Aristotele definiva quella forma di conoscenza che non si limita alla semplice riflessione, ma si esprime attraverso l’azione creativa. Non è un semplice produrre, ma un atto di interpretazione e trasformazione della realtà. In un’epoca segnata da fratture culturali e politiche, in cui la coesione sociale sembra essere minata da un senso di incertezza globale, la riflessione sull’arte e sull’architettura assume un significato ancora più urgente. In Die Aktualität des Schönen, Hans-Georg Gadamer ci invita a considerare l’arte non come una mera espressione individuale, ma come un’esperienza partecipativa, immersa in un continuo processo collettivo di interpretazione. L’arte, in questa prospettiva, diventa un evento di verità, nel quale la memoria storica si intreccia con la realtà presente, generando una forma di esperienza condivisa. Lo stesso approccio si può estendere all’architettura.

Opere come il Vietnam Memorial di Maya Lin o il Memorial against Fascism di Esther Shalev-Gerz e Jochen Gerz, riportate nel saggio di Philip Ursprung, non si limitano a essere monumenti commemorativi: esse rappresentano autentici atti di rielaborazione storica, che rispondono – sorprendentemente... – ai dubbi e alle angosce del presente. Non sono semplici spazi fisici, ma luoghi di meditazione, capaci di rinnovare e ridefinire il significato della memoria collettiva. In quest’ottica, l’architettura non è solo costruzione, ma un linguaggio simbolico che modella la nostra percezione del mondo e dà corpo alla storia. Plasma la percezione sociale e culturale, diventando un atto di interpretazione capace di stimolare nuove esperienze e riflessioni, anche e soprattutto quando è legata a progetti di arte pubblica. Questo dialogo tra arte, architettura e società trova il suo fertile campo di sperimentazione nella città contemporanea, dove il progetto architettonico ha il potenziale per diventare il luogo in cui i tradizionali confini di spazio e struttura vengono messi in discussione, oscillando tra rigidità e mutevolezza, tra controllo e libertà. La città è ancora – e sempre di più – il catalizzatore di irrequietezze, personali e condivise, capace di adattarsi ai mutamenti e alle urgenze della società: tale pensiero si riflette in numerosi approcci contemporanei che incoraggiano l’interazione e la partecipazione. D’altra parte, come osserva Umberto Galimberti in Psiche e techne, anche l’arte è un luogo in cui la comunità si riconosce e offre a ciascuno l’opportunità di ritrovarsi nella propria singolarità: essa diventa un veicolo di significato condiviso.

Nel confine, a volte sfumato e talvolta deliberatamente oltrepassato, tra arte e architettura si trova la possibilità di una riflessione più profonda. Lo analizza nel suo saggio Francesca Belloni: se Loos esclude l’architettura dall’arte a causa della sua funzione, altri, come Vidler, evidenziano una crescente intersezione tra le due discipline. Il modello svizzero Kunst am Bau ha promosso questa integrazione, pur non sempre riuscendo a stabilire una parità di significato tra le due, relegando talvolta l’arte a ruolo decorativo. Tuttavia, è proprio nella ricerca di una relazione paritaria tra arte e architettura che collaborazioni come quelle tra Federle-Diener o Fischli-Weiss dimostrano come l’arte possa ridefinire i codici architettonici. Nel rifiuto di un’identità puramente artistica per l’architettura, Richard Serra fa emergere una zona intermedia in cui arte e architettura si contaminano, rinegoziando il significato dello spazio e della percezione.

I progetti presentati ambiscono a fornire una molteplicità di chiavi interpretative di tale dualità, così come la Katharinen-Turm di Zurigo raccontata da Lucia Pennati: una struttura di impalcature che evoca la memoria storica della torre perduta, ridisegnando lo spazio urbano e creando un nuovo, effimero simbolo visivo. Allo stesso modo, in una dimensione più anarchica, ma altrettanto feconda, si collocano i graffiti di Harald Naegeli abilmente narrati da Anna-Barbara Neumann: inizialmente considerati atti vandalici, oggi riconosciuti come patrimonio artistico, i graffiti diventano atti di resistenza che interpellano il rapporto tra individuo, società e spazio pubblico, trasformando l’ambiente urbano in un luogo di riflessione e critica sociale. E suggeriscono un’ulteriore riflessione: incontriamo la bellezza anche nel caos e nelle imperfezioni e proprio in questo incontro troviamo la certezza che la realtà non è inaccessibile.

In questa prospettiva, la capacità di abitare in modo lucido una posizione in-between, tra memoria e aspettativa, e di rielaborare significati in modo critico e creativo, diventa un percorso interpretativo fondamentale per difendere la coesione della nostra società, che, spesso fragilizzata, rischia di perdersi nel caos di chi non riconosce, consapevolmente o inconsapevolmente, la ricchezza di una pluralità che desideriamo continuare a custodire.