Pre­scri­zio­ne non si­gni­fi­ca sem­pre pre­scri­zio­ne

Nel 1994, il committente C ha concluso un contratto d’architettura con A inerente alle prestazioni di progettazione, appalto e realizzazione per la costruzione della sua casa unifamiliare. C concluse in seguito un contratto d’appalto con la ditta D per le opere da capomastro. La casa fu consegnata nel mese di luglio 1996.

Data di pubblicazione
09-04-2018
Revision
09-04-2018

Già a partire dai primi problemi di umidità sulle facciate nel 1997, C si lamentò verbalmente presso A e D, e poi per iscritto nel mese di settembre 1998. Nella sua risposta del 29 settembre 1998, l’architetto ha promesso di intervenire direttamente presso le imprese concernenti, ossia il pittore e il capomastro, aggiungendo «p.f. nessuna procedura giudiziaria ... è più cara che il rifacimento totale delle vostre facciate!!», concludendo che «avrà sempre il buon senso d’evitare i fastidi di una procedura».

La presenza di umidità fu attribuita dall’architetto a inizio 1999 a un errore della ditta D che intervenne sul vespaio e rifacendo la facciata. Per cercare di eliminare la causa dell’umidità, nell’autunno 2000, D è intervenuta ingrandendo l’apertura del vespaio. Nel mese di luglio 2002 il problema dell’umidità era ancora presente.

Il committente si è allora rivolto a un altro specialista che ha messo in evidenza l’assenza di impermeabilità sulle pareti esterne interrate. Con lettera del 27 luglio 2002, A ha comunicato a C che «vista l’assenza nell’offerta del capomastro dell’elemento isolante da inserire tra la parete e il terreno, tale elemento deve essere imperativamente posato durante l’intervento della ditta responsabile della sistemazione esterna».

Un esperto fu incaricato in data 7 ottobre 2003 per l’allestimento di una prova a futura memoria. Egli ha stabilito che l’umidità è causata dall’assenza di impermeabilizzazione sui muri interrati e da un cattivo drenaggio. L’esperto ha pure confermato che l’impermeabilizzazione fu prevista dall’architetto (disegnata sui piani), ma non fu aggiudicata al capomastro e nemmeno realizzata in fase di esecuzione. I documenti allestiti dall’architetto non indicano chiaramente la ripartizione e lo svolgimento dei compiti necessari alla realizzazione dell’impermeabilizzazione.

Dopo un tentativo di conciliazione, C ha inoltrato azione giudiziaria contro A, che ha sollevato l’eccezione di prescrizione.

In data 30 settembre 2015, il giudice ha condannato l’architetto al pagamento di CHF 30’491.85, chiesti dal committente. Con sentenza del 4 maggio 2017, il Tribunale cantonale vallesano ha confermato il giudizio di prima istanza. In sostanza, il Tribunale ha considerato il comportamento dell’architetto contrario alle regole riconosciute dell’arte, in particolare l’architetto avrebbe dovuto elaborare dei chiari documenti in merito alle modalità di esecuzione dell’impermeabilità e avrebbe dovuto fornire delle direttive precise per la coordinazione dei lavori di posa dell’impermeabilizzazione.

In merito alla prescrizione, allorquando tale termine di 5 anni, giusta l’art. 371 cpv. 2 CO, non era ancora trascorso (consegna della casa: 19.07.1996, fine garanzia di 5 anni: 20.07.2001), con la sua affermazione del 29 settembre 1998 l’architetto aveva espressamente invitato il committente a non intentare delle procedure, dimostrando così (e con il susseguente agire) la chiara volontà di intraprendere tutto il necessario per arrivare alla riparazione del difetto. Sollevando in seguito l’eccezione di prescrizione, l’architetto ha commesso un manifesto abuso di diritto.

Contro la decisione del Tribunale cantonale, l’architetto ha fatto ricorso al Tribunale federale (TF), il quale ha confermando la decisione dell’istanza inferiore (4A_303/2017, 13.12.2017).

Nella sua sentenza, il TF ha trattato principalmente la questione relativa all’eccezione di prescrizione sollevata dall’architetto, considerandola una violazione dell’art. 2 cpv. 2 CCS. Grazie a questa disposizione, il giudice ha la possibilità di correggere gli effetti di una legge nei casi particolari dove l’esercizio di un diritto creerebbe un’ingiustizia manifesta.

Nel caso concreto, il TF ha ritenuto che il committente, alla lettura della lettera del 29 settembre 1998, poteva ragionevolmente pensare che l’architetto avrebbe messo in atto tutte le misure per risolvere il problema dell’umidità sulle facciate, senza dover procedere per vie giudiziarie. A aveva promesso a C di intervenire direttamente presso le imprese, aggiungendo «ma p.f., nessuna procedura giudiziaria ... che è più cara del rifacimento totale delle facciate!», concludendo «che avrà sempre il buon senso d’evitare i fastidi di una procedura». Il comportamento assunto in seguito dall’architetto fu congruente con le sue precedenti affermazioni. Il committente non aveva quindi oggettivamente nessuna ragione di pensare che avrebbe dovuto procedere per vie giudiziarie o dover interrompere la prescrizione per salvaguardare i suoi interessi. In effetti, ci furono diversi interventi per cercare di eliminare i problemi di umidità e l’assicurazione dell’architetto fu coinvolta. Niente lasciò intendere fino al 2002 che A avrebbe cambiato attitudine in modo radicale, quando il committente contattò un altro specialista che mise in evidenza la relazione tra umidità nelle facciate e l’assenza di impermeabilizzazione.

Secondo il TF, il fatto che in un primo momento l’architetto abbia dissuaso il committente a consultare un avvocato e procedere per vie legali, privilegiando una soluzione bonale, e in seguito, a periodo di garanzia di 5 anni trascorso, sollevare l’eccezione di prescrizione, rappresenta un manifesto abuso di diritto.

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