Presto i «consumatori» dovranno trasformarsi in «riparatori»
Il tema dell'economia circolare nella costruzione sta occupando sempre più l'industria. Nella nostra serie di video, i partecipanti raccontano le loro esperienze, i progetti attuali e le ricerche in corso sul campo. La serie è prodotta in collaborazione con l'Ufficio federale dell'ambiente (UFAM).
Quando si conduce un’intervista con uno dei più grandi esperti al mondo di economia circolare bisogna sempre aspettarsi qualche sorpresa. Ciò vale già a partire dalle domande che abbiamo preparato. Per Walter R. Stahel il dovere degli architetti, in riferimento al tema del riutilizzo, sottosta alle intenzioni politiche e alle responsabilità sociali.
Fin dall’inizio, Walter R. Stahel, direttore dell'Institut de la Durée di Ginevra, ci propone di mettere da parte la nostra lista di quesiti e ipotesi e di reimpostare la discussione sul «riutilizzo», seguendo le sue preoccupazioni al riguardo e partendo dal modo in cui egli stesso concepisce la problematica. Il modo in cui affronta gli argomenti e l’ordine attraverso cui si incatenano le sue riflessioni sono il frutto di 45 anni di studi dedicati alla lotta contro i principi dell’economia detta «lineare». Abbiamo quindi deciso di trascrivere, con la maggior fedeltà possibile, un estratto dell’intervista tenutasi con l’esperto, in videoconferenza, lo scorso ottobre.
Libero spazio ai pensieri e alle parole di Walter R. Stahel.
Politica
La prima domanda da farsi, quando ci prepariamo ad affrontare il tema del riutilizzo, è quella legata agli obiettivi politici. Puntiamo a una società con zero rifiuti, zero emissioni o zero energia? Una volta fissati gli obiettivi, possiamo cercare le strategie per raggiungerli, pur restando consapevoli che qualsiasi orientamento ci impone soluzioni diverse e talvolta persino contradditorie. Se pensiamo al settore della costruzione, la domanda sociopolitica da porsi è altrettanto complessa, dobbiamo chiederci: che cosa ci attendiamo dall’industria edilizia, sapendo che l’architettura non è che un attore secondario nell’universo dell’economia circolare? E, soprattutto, per quale motivo bisogna trasformare e riconvertire gli edifici esistenti invece di costruirne di nuovi?
Rifiuti, economia ed emissioni
Statisticamente parlando, nel settore svizzero della costruzione, i nuovi edifici rappresentano soltanto il 2% dell’attività edilizia annua. Il restante 98% riguarda interventi sull’esistente. Immaginate quindi come, in questo contesto, il concetto del riutilizzo possa avere importanza. Da un lato, perché non siamo più in grado di gestire tutti i rifiuti generati smantellando e demolendo. Ora gli architetti non devono più tanto riflettere sull’estetica o la composizione, ma piuttosto affrontare questioni di ordine puramente pratico e chiedersi: che cosa ne facciamo dei materiali esistenti sapendo che non possiamo più sbarazzarcene?
Poi c’è la questione economica. Abbiamo ancora la liquidità necessaria per costruire ex novo, ora che i prezzi delle materie prime continuano a crescere a un ritmo vertiginoso? Nel 2021 sono cresciuti, in media, del 500%. In un contesto simile, c’è da aspettarsi che nei prossimi anni numerose imprese generali falliscano, dato che i contratti probabilmente sono stati sottoscritti sulla base di un prezzo fisso, il che limiterà in modo considerevole il margine di profitti.
In un edificio standard, il 75% dell’energia grigia si trova nella struttura portante e nelle fondamenta. In una centrale eolica tale percentuale sale addirittura al 90%, senza contare i rifiuti inutilizzabili, come i laminati in fibra di carbonio. Soltanto preservando lo «scheletro» degli edifici possiamo evitare gran parte dell’energia grigia prodotta e dell’acqua necessaria per la costruzione, ma soprattutto riduciamo drasticamente le emissioni di CO2.
Materiali
Continuando il ragionamento e riflettendo sulle materie da utilizzare per raggiungere l’obiettivo delle zero emissioni e concepire una catena di produzione che sia interamente circolare (secondo lo schema produzione-utilizzo-riutilizzo), il materiale più interessante, contrariamente a quello che si potrebbe pensare, risulta essere l'acciaio. Non si tratta, ben inteso, dell’acciaio che utilizziamo attualmente, bensì di un acciaio puro, composto da una sola lega e prodotto senza emissioni di CO2. Si parla di un materiale che è al 100% riutilizzabile, sia durante il processo di produzione che durante quello di decostruzione. Purtroppo, però, non abbiamo ancora la tecnologia necessaria per produrre questo materiale in modo industriale, anche se numerosi studi condotti nel settore siderurgico e metallurgico sono attualmente in corso e potrebbero portare a grandi trasformazioni nell’industria edilizia. L’obiettivo è, insomma, quello di ottenere un acciaio «a zero emissioni», in altre parole di reimpiegare l’acciaio usato, che arriva dal mercato, separando le sue leghe e utilizzando l’idrogeno al posto di altri combustibili fossili.
Crescita e manodopera
Nessun governo osa affrontare il discorso sulla decrescita, rischiando di mettere a repentaglio il prodotto interno lordo con tutte le conseguenze che vi lascio immaginare. Tuttavia, non è del tutto vero che crescita e riutilizzo siano incompatibili. Bisogna semplicemente misurare in altro modo la ricchezza di un Paese, prendendo come riferimento la qualità e la quantità di risorse disponibili. Alcuni studi pilota, condotti dalla Banca Mondiale, dimostrano che i Paesi che puntano su un’economia di tipo circolare sono in grado di accrescere la propria ricchezza, diventando più prosperi, anche senza attestare un incremento nella produzione. Tali Paesi devono semplicemente tutelare le risorse e i beni che possiedono. Bisogna, insomma, dimenticare la parola «consumo» e imparare a riutilizzare tutte le risorse a disposizione, siano esse culturali, umane, naturali e costruite, così da aumentare la ricchezza di un Paese e non la sua produzione.
Per reindustrializzare le nostre regioni e beneficiare maggiormente delle risorse locali e del capitale umano vi è anche un’altra soluzione: bisogna smetterla di tassare la manodopera per dimezzare i costi di produzione. Si tratta di una soluzione «dirompente» e radicale, poiché il 56% delle entrate statali proviene proprio dalle tasse sul lavoro. Quello che bisogna fare è introdurre delle imposte per le cose che non vogliamo avere (i rifiuti, le emissioni, il consumo ecc.) e smetterla di tassare tutti quei fattori che sono invece chiaramente controproducenti. A che cosa serve aumentare la qualità del capitale umano se poi non se ne trae beneficio?
Territorio
Per l’economia circolare, nella sua globalità, l’architettura è soltanto un involucro. Occorre piuttosto considerare la problematica su scala territoriale. Proprio come per un edificio, bisogna anche, e in particolare, imparare a fare buon uso dei centri urbani, e ciò contrariamente ai principi formulati nella Carta di Atene di Le Corbusier, in cui il concetto di zonizzazione, ossia di suddivisione in base alle funzioni (abitare, lavorare, divertirsi) aveva una sua ragion d’essere in un’epoca in cui le città erano considerate nocive per l’habitat. Oggi questi principi vanno rivisti; bisogna rendere le città più attraenti, in particolare accogliendo nel tessuto urbano anche le aree di produzione. In questi ultimi anni, le industrie sono diventate più silenziose e molto meno inquinanti. Per combattere la tendenza che ci spinge a importare e a trasportare qualsiasi bene necessario, bisogna reindustrializzare i nostri centri urbani.
L’insegnamento dell’architettura
Se non abbiamo ancora trovato soluzioni concrete è anche perché il sistema universitario persevera nel formare profili professionali che alimentano e mantengono in vita l’economia lineare, non quella circolare. Tutto il corpo insegnante è stato formato nella logica della crescita e del consumo. E noi continuiamo, anche se inconsciamente, a incoraggiare la produzione a scapito del riuso. Facciamo un esempio pratico: nelle scuole di architettura, la decostruzione è forse una materia d’insegnamento? Come possiamo invertire tale tendenza?
Il futuro del riutilizzo
Il concetto di riutilizzo non è né un mito né una realtà. È semplicemente un fenomeno inevitabile, poiché l’ambiente stesso ci obbligherà al cambiamento. Facciamo un altro esempio. È inconcepibile che vi siano ancora fabbriche che producono auto nuove quando potremmo semplicemente trasformare i vecchi modelli e integrarvi le nuove tecnologie. Si preferisce invece pagare un incentivo per spingere le persone a «buttare» l’usato e a comperare il nuovo. Si potrebbe però utilizzare questa stessa somma per formare persone in grado di riparare le auto che abbiamo costruito nel passato. In tal senso, devo ammettere che mi esaspera vedere come le nostre società, cosiddette moderne, manchino di resilienza e preferiscano perdere tutto piuttosto che rinunciare a qualche «privilegio».
Quel che è certo è che non riusciremo a cambiare le cose continuando a seguire movimenti sul filone dell’«Extinction Rebellion». Bisogna trovare nuove strategie e tecnologie per risolvere il problema alla radice. Per riuscirci occorrerà certamente finanziare le infrastrutture e le tecnologie. Bisognerà anche mostrare alla gente in che modo tutti possano contribuire a risolvere la questione, semplicemente avendo cura di tutto ciò che già abbiamo. Ormai è giunto il momento di mettere una croce sulla globalizzazione, la cui unica finalità è quella di diminuire drasticamente i costi di produzione. È tempo, insomma, di tornare a un sistema di produzione circolare e a chilometro zero.
In qualsiasi caso, sono fermamente convinto di una cosa: uno dei più grandi sconvolgimenti sociali del XXI secolo sarà il fatto che gli odierni «consumatori» dovranno trasformarsi in «produttori» o anche in «restauratori».
Walter R. Stahel
Walter R. Stahel è il fondatore dell’Institut de la Durée di Ginevra, inoltre è membro del Club di Roma, nonché professore invitato presso la Facoltà di Ingegneria e Scienze Fisiche dell’Università di Surrey, nel Regno Unito, e in Canada presso l’Istituto EDDEC (Environnement, développement durable et économie circulaire) di Montréal. Architetto di formazione e pioniere dell’economia circolare, il Dr h.c. Stahel promuove, sin dagli anni Settanta, un ritorno a modalità produttive che permettano di prolungare la durata di vita degli oggetti, consumando poca energia e risorse, ma avvalendosi di tanta manodopera.
Pubblicazioni
- Intelligente Produktionsweisen und Nutzungskonzepte - Handbuch Abfall I - Allg. Kreislaufwirtschaft (1995), Ministerium für Verkehr und Umwelt Baden-Württemberg
- Les Limites du Certain (con Orio Giarini), Presses polytechniques et universitaires romandes, Losanna (1990)
- Etude sur « la consommation durable » pour le Ministère de l'Environnement, Bade-Wurtemberg/RFA (1991), Vulkan Verlag Essen
- Stratégie économique de la durabilité - Eléments d'une valorisation de la durée de vie des produits en tant que contribution à la prévention des déchets (1987), Società di Banca Svizzera, Basilea, fascicolo SBS n° 32, novembre 1987, con Max Börlin
- The Product-Life Factor, Mitchell Prize Competition 1982, Houston TX
- Jobs for tomorrow, the potential for substituting manpower for energy (1976/1981), Commission CE, Bruxelles/Vantage Press, New York_N.Y., con Geneviève Reday
- Chômage - Occupation – Profession (1980), lavori premiati al concorso GZ di Berlino 1978, Minerva Publikationen, Monaco di Baviera, con Peter Perutz
- The Circular Economy – a user's guide. Walter R. Stahel (2019). Routledge, Abingdon
- The Performance Economy, 2006, first edition / 2010, second edition.