Intervista a Simone Tocchetti
In occasione dell’anno europeo del patrimonio culturale nel corso del 2018 SIA Ticino presenta una serie di interviste ad autorevoli figure che rappresentano i diversi profili della cultura della costruzione.
Simone Tocchetti è architetto, ingegnere civile e membro del comitato SIA. Nato 37 anni fa in Svizzera, ha la costruzione nel DNA, dato che il padre è stato impresario costruttore. Per questo decide di studiare dapprima ingegneria civile a Trevano e in seguito di completare la sua formazione laureandosi in architettura con il prof. J. Lluis Mateo presso l’ETH di Zurigo. Inizia l’attività a Zurigo, poi lavora per un anno nello studio S.O.M. di Chicago e in seguito è capoprogetto presso Bétrix & Consolascio a Erlenbach. È stato assistente di L. Giuliani e Ch. Hönger all’EPFL di Losanna. Dal 2013, insieme a Luca Pessina, conduce un’attività con sede a Zurigo e Lugano che, tra gli altri lavori, sta costruendo il campus universitario USI/SUPSI di Lugano.
Silvia Berselli: Quali sono i fattori che maggiormente hanno contribuito alla sua formazione?
Simone Tocchetti: Al primo posto metto qualcosa che oggi si sta perdendo: il senso di appartenenza a una scuola, il Geist (lo spirito) dell’ETH, che non è legato alla singola persona o alle specifiche lezioni, ma piuttosto alla cultura del luogo e a una certa eredità zwingliana. Purtroppo le scelte che si stanno portando avanti oggi nelle università, per quanto concerne le cattedre, sono legate più alla volontà di inserirsi in un quadro internazionale che al desiderio di comprendere chi siamo attraverso la trasmissione della nostra eredità culturale.
In secondo luogo la casa di famiglia: mio padre ha lavorato molto con Franco Ponti e ha fatto costruire da lui la nostra casa, in cui sono cresciuto e della quale apprezzo tuttora l’architettura. La cura dei singoli dettagli, le qualità spaziali e la forza espressiva dei suoi lavori si possono ritrovare anche nei progetti che stiamo sviluppando attualmente.
Infine ci sono i libri che ho amato e che consiglio anche ai non-architetti: Robert Venturi, Complessità e contraddizioni nell’architettura e Parole nel vuoto, di Adolf Loos.
Che cos’è per lei la Baukultur?
È la capacità di gestire delle preesistenze, capirne il significato, le motivazioni e le connessioni; valutare che cosa è rimasto, perché in genere è sopravvissuto per una ragione. È la capacità di apprezzare il costruito inteso in un senso più ampio, conoscendo a fondo il suo contesto storico, le motivazioni e le scelte del progetto. Non penso che si possa uscire da una scuola con questa cognizione; prima di arrivare a possederla è necessario un tempo lungo di assimilazione, qualche capello bianco e la pratica professionale. Davanti a certe decisioni bisognerebbe mettere «Kultur» prima e solo dopo «Bau». Per applicarla non c’è una ricetta, ma bisogna avere sensibilità, possedere una profonda cultura del progetto e dedicarsi a una lunga e laboriosa ricerca.
Il 2018 è stato dichiarato anno europeo del patrimonio: come si costruisce oggi all’interno di un sedime consolidato (dalla pietra e dalle pratiche)?
Prima di tutto bisogna resistere, come un masso in mezzo al fiume: resistere alle correnti senza lasciarsi trasportare. Noi non vedremo gli esiti di quello che produciamo: questa società è frenetica, mentre i grandi oggetti, come il nostro campus universitario, rimangono nel tempo e resistono alle mode. Come professionisti, prima di tutto, bisogna resistere alle tentazioni: abbiamo attraversato periodi difficili come il decostruttivismo ed oggi siamo fortunati a poter lavorare in un decennio felice. Se è vero che oggi si sono superati molti -ismi, al contempo mancano figure forti in grado di fare da guida e la responsabilità pesa sui singoli, che non sempre la colgono. Per fare un esempio, durante i miei anni di studio ho sempre cercato di scoprire come affrontare e risolvere i problemi, non come fare un bel disegno, e ho scelto di conseguenza i miei professori. Ho disegnato la mia prima facciata solo molti anni dopo, negli Stati Uniti. Questo è stato un modo per resistere all’architettura degli stili, fino a quando non sono stato pronto.
La sua cultura del progetto si è formata attraverso le parole e i libri, cioè la teoria, o piuttosto attraverso i gesti, ossia i progetti?
C’è un’età nella quale l’opera – un’architettura, una musica, un libro… – è troppo complessa per essere compresa integralmente, quindi è molto importante la personalità di chi trasmette i contenuti culturali, specie se è una figura in grado di porre i problemi in maniera critica. Al mio maestro Eraldo Consolascio devo la mia grinta, la tenacia e un insegnamento prezioso: il vero committente è l’edificio e bisogna fare di tutto per lui. Questo è vero soprattutto per i grandi cantieri pubblici, dove il committente non è l’utente finale e il solo interlocutore è una figura di rappresentanza che si occupa principalmente di tempi e costi, non certo il mecenate illuminato della tradizione rinascimentale. Presso lo studio S.O.M. il progetto viene trattato in modo integrato, dalle strutture al design di interni, dall’impianto urbanistico al minimo dettaglio. Per me l’architettura è questo, è un tutto unico: non si può scindere la statica dalla cultura, l’edilizia dagli aspetti sociologici del costruire. Mi piacerebbe ritenermi, in termini rinascimentali, un capomastro.
Come può un giovane progettista contribuire a diffondere una cultura del costruire che integri i concetti di sostenibilità (ecologica, economica e umana), la partecipazione al progetto e l’informazione?
Mia madre è stata maestra, quindi parto sempre dall’insegnamento perché credo che la scuola sia il veicolo principale di formazione. Sento di avere un forte debito nei confronti dell’ETH e della società e vorrei estinguerlo tornando a Zurigo per insegnare: trasmettere un metodo basato sull’impegno, sulla passione, sulla pratica costante. L’università dovrebbe selezionare molto, procedendo sulla base del merito ed evitando di promuovere una democratizzazione del sapere che si esplica nel promuovere tutti. L’ETH ha una retta economica che garantisce l’accesso a tutti, poi bisogna meritarsi di andare avanti. Le istituzioni a livello locale svolgono un ruolo marginale, si dovrebbe agire a livello cantonale e federale.
Oltre all’insegnamento c’è poi il tema della committenza. I progetti pubblici devono essere paradigmatici, perché non si può chiedere al privato di comportarsi da mecenate se prima non si costruiscono modelli di riferimento collettivi validi. Davanti a un committente difficile, la formula vincente è resistere, mantenere le proprie posizioni per il bene del progetto, educando il fruitore di quella architettura in modo che possa recepirla ed apprezzarla. Se il progettista è preparato e motivato, normalmente il cliente lo segue ed è disposto a modificare le sue posizioni per accoglierne di migliori, riconoscendo l’impegno e la professionalità dell’architetto. A volte il cliente scappa, ma quando resta abbiamo vinto.