Progettare dialogando
Una tavola rotonda sui MSP
In un numero dedicato a una procedura fondata sul dialogo come i MSP è fondamentale lasciare spazio alla discussione su questa forma di messa in concorrenza – discussione in cui i curatori hanno voluto coinvolgere figure che, da punti di vista diversi, si occupano di pensare e progettare il territorio: un esperto della pianificazione comunale, un architetto, un paesaggista, un pianificatore e un teorico.
Ospiti
- Andrea Felicioni (AF), Architetto e capo sezione Pianificazione della Città di Lugano
- Cristiana Guerra (CG), Architetto
- Stefan Rotzler (SRZ), Architetto paesaggista
- Sergio Rovelli (SRV), Pianificatore del territorio e ingegnere
- Matteo Vegetti (MV), Filosofo, professore di Teoria dello spazio alla SUPSI e docente all’AAM
Moderatori
- Stefano Tibiletti (ST)
- Gustavo Groisman (GG)
La tavola rotonda si è tenuta a Bellinzona nella sede della Conferenza delle Associazioni Tecniche del Cantone Ticino (CAT) il 9 giugno 2021.
ST: Vorremmo aprire questa tavola rotonda con una domanda generale: cosa rappresentano i MSP per la vostra disciplina?
CG: In qualità di architetto che ha partecipato a diversi collegi di esperti, penso che i MSP aiutino, nell’ambito di problematiche territoriali, a definire il vuoto, più che il pieno. La procedura per il comparto Santa Caterina a Locarno ne è un buon esempio: ha permesso di capire dove era giusto costruire e dove no, aspetto cruciale in vista del passaggio alla fase successiva dei mandati, quella del concorso d’architettura.
SRZ: Da paesaggista, per me è sempre più evidente che gli spazi pubblici, gli spazi aperti, gli spazi liberi siano fondamentali per l’urbanistica e l’architettura. Nei MSP, il tema del paesaggio e dello spazio pubblico (aspetti che considero più durevoli dell’architettura) si pone sempre.
SRV: Da pianificatore posso dire che i MSP sono un ottimo strumento: utilissimo per chi partecipa, interessante per il collegio di esperti e stimolante per il committente, che ne trae idee nuove. Va detto però che è soltanto uno degli strumenti possibili: prima di intraprendere i MSP bisogna allora chiedersi, per ogni caso specifico, se siano lo strumento migliore per risolvere le situazioni di gestione del territorio con cui si è confrontati.
AF: Come architetto attivo da vent’anni nell’amministrazione pubblica (prima per il Cantone e ora per la Città di Lugano), sono arrivato alla conclusione che negli ultimi decenni nel nostro lavoro è diventato molto importante essere in grado non solo di progettare spazi, ma anche di «progettare processi». Se quest’ultimo lavoro, che richiede competenze specifiche, non viene fatto o vien fatto male, la progettazione di spazi rischia di rivelarsi inutile, di arenarsi continuamente, soprattutto quando si tratta di far collaborare pubblico e privato. Si tratta quindi di concepire processi e seguirli con coerenza e perseveranza, assicurandosi che abbiano la flessibilità necessaria per adeguarsi al mutare delle esigenze. In quest’ottica i MSP sono uno strumento molto interessante, benché non l’unico.
MV: Da filosofo e teorico dello spazio mi piace sottolineare che se l’espressione mandati di studio ha un senso, questo risiede nella parola studio. I MSP dovrebbero allora essere innanzitutto intesi come un lavoro di ricerca che non dà la priorità alla realizzazione, ma alla comprensione, alla proposta, all’analisi. Quindi è importante che, nella composizione dei team che partecipano a queste procedure, si dia peso anche a figure (e qui mi sento di difendere il mio ruolo) votate allo studio sociologico, economico, paesaggistico del territorio, piuttosto che alla progettazione in senso stretto. Lo ribadisco: si chiamano mandati di studio, non di realizzazione, e lo studio dev’essere centrale. È quindi importante che i MSP permettano alle discipline più vicine all’interesse teorico di dialogare coi progettisti, così da ottenere un vantaggio nel vantaggio: giungere all’integrazione dell’interesse teorico in proposte realizzative.
GG: Mi piace molto l’osservazione che la parola chiave di tutto quel che discuteremo qui sia studio: studio e confronto. Lavorando a questo numero ho riflettuto su una cosa: per realizzare un qualsiasi edificio pubblico sul nostro territorio il confronto è obbligatorio, perché a partire da un costo d’opera di circa tre milioni va indetto un concorso; per progettare il territorio su cui tutti questi edifici sorgono, invece, per anni non si è ritenuto necessario ricorrere a una messa in concorrenza. Oggi i MSP stanno cambiando questo paradigma, introducendo un approccio diverso alla progettazione del territorio dove l’approfondimento, il confronto e il dialogo tra soggetti diversi diventano centrali.
ST: Chi, come me e GG, si è formato negli anni Ottanta, conosce bene il dibattito che ruota intorno alla domanda: deve venire prima la progettazione o la pianificazione? Seguendo la visione della pianificazione urbanistica di maestri come Gregotti, Secchi, Galfetti e Snozzi, noi abbiamo sempre ritenuto che il piano regolatore (PR) dovesse nascere dopo il progetto, in controtendenza rispetto a quel che si usa fare. Oggi ci sembra che il ricorso (in Ticino abbastanza recente) ai MSP permetta proprio questa inversione di tendenza: nei MSP, prima della pianificazione viene il progetto territoriale e urbanistico. Cosa ne pensate?
AF: Personalmente trovo questa diatriba tra pianificazione e progettazione un po’ sterile. Progettazione e pianificazione si implicano a vicenda, e fa proprio parte della concezione che esponevo prima («progettare processi») la consapevolezza che non per forza il progetto precede il piano o il contrario, perché a tutte le scale, dal Piano direttore al PR e oltre, questi sono strumenti in continuo divenire. Non c’è un momento zero in cui fai un progetto e poi arriva il piano: in realtà il piano c’è già, semmai si tratta di adeguarlo.
SRV: AF ha ragione: il piano c’è già, sempre; si può però decidere di modificarlo. Bisogna sottolineare che il PR non è solo un progetto, è anche una legge con le sue caratteristiche e le sue insidie. Prima di avviare una procedura bisogna allora chiedersi se sia davvero necessario coinvolgere il PR nella progettazione, perché farlo può essere controproducente. Quindi se l’oggetto del concorso è già conforme al PR, meglio non toccarlo. Questo aspetto può aiutare a decidere quale processo seguire. Infatti i processi del progetto edilizio e della modifica del PR non sono uguali: quello che va a toccare il PR è un processo democratico che può essere influenzato da situazioni che magari non c’entrano nulla con l’oggetto dei MSP, e può quindi generare conseguenze imprevedibili.
CG: Concordo anch’io con AF. Una quindicina d’anni fa abbiamo seguito insieme uno studio pilota che si chiamava Proprietà e qualità dello spazio urbano in Ticino: era una fotografia di com’era stato costruito il cantone negli ultimi quarant’anni, fatta esaminando lo sviluppo morfologico di 22 porzioni rappresentative di territorio. Nel testo conclusivo, ci si chiedeva se bisognava progettare prima e pianificare dopo o il contrario, e già allora ci siamo resi conto che rispondere era arduo: abbiamo analizzato casi dove la progettazione era venuta prima e il risultato non era stato buono, e viceversa. È stato un lavoro molto interessante che è poi sfociato in una scheda del Piano direttore sugli spazi urbani (la prima in Ticino di questo tipo, a quanto mi risulta). Penso quindi anch’io che la questione non vada posta nei termini: «È giusto prima progettare o prima pianificare?». Il processo dei MSP è complesso ed è importante impostarlo bene lavorando insieme: committente, collegio di esperti e partecipanti devono essere pronti ad addentrarsi nel tema in modo libero e senza pregiudizi, e questo non è sempre scontato. Credo quindi anch’io che i MSP, che ora in Ticino sembrano la panacea, vadano invece utilizzati soltanto quando vi sono tutti i presupposti; altrimenti esistono altri strumenti.
SRZ: È vero, ci sono. Negli ultimi dieci anni ho sperimentato quasi tutti i tipi di procedura, e posso dire che la prima cosa da fare è, come dice AF, capire il processo che si vuole intraprendere e strutturarlo, trovando la forma giusta per quel determinato caso. I MSP sono un’ottima opzione in determinate situazioni, però hanno anche degli svantaggi: consumano tempo, energia e soldi. Tra le alternative ci sono procedure come la Testplanung (adatta ai grandi progetti territoriali) e altre che mettono l’accento su intensità e concentrazione. Me ne viene in mente una che ho coordinato per il comune di Dübendorf: in quel caso non c’era tempo, non c’erano soldi, ma bisognava progettare un nuovo parco pubblico in un mese. La città mi ha dato la possibilità di organizzare una charrette: invitare tre team a lavorare in modo intensissimo per un paio di giorni, seguiti da una giuria internazionale. Alla fine (con i partecipanti esausti) sono venuti gli investitori e si è deciso, e adesso il progetto è in costruzione.
AF: Questo esempio mi interessa molto, perché i MSP richiedono tempo e risorse importanti. A Lugano in questo momento ne stiamo gestendo tre in parallelo, ed è impegnativo. Bisogna pianificarli, organizzare e seguire la procedura e poi, se il risultato richiede che si modifichi il PR, parte un altro processo altrettanto impegnativo. Poi si pone pure il tema del coinvolgimento della cittadinanza e dei privati, che la procedura dei MSP in sé non prevede (almeno non durante il loro svolgimento). Dunque ribadisco: solo in determinate situazioni i MSP sono la scelta migliore.
MV: Come tutti gli strumenti, i MSP non sono una panacea. Possono essere usati bene o male e dare esiti positivi o discutibili. Però, se usati bene, rispondono ad alcune esigenze importanti che sono caratteristiche del nostro tempo. Innanzitutto è ipotizzabile che siano strumenti la cui necessità di impiego risponde a una trasformazione generale dello spazio: lo spazio si sta riscalando, e questo fa sì che la logica dell’inscatolamento (per cui il territorio più piccolo è compreso in quello più grande, e ne dipende dal punto di vista amministrativo e politico) non funzioni più, perché tra i diversi livelli si sono create dinamiche complesse di interrelazione. Dinamiche che rompono le gerarchie tradizionali e necessitano di un forte consenso per attuare politiche territoriali anche di dimensione locale. Da questo punto di vista, per me i MSP sono uno strumento che ha sicuramente delle potenzialità. Inoltre, come dicevamo, i MSP avvicinano la dimensione delle regole alle proposte progettuali e urbanistiche, creando una relazione che può svilupparsi per attrito. Per farlo bisogna però essere predisposti fin dall’inizio della procedura a che il piano possa modificarsi in una maniera che non è prevedibile a priori: in questo modo si apre uno spazio aleatorio che può essere occupato da una forma di dibattito e di collaborazione che include tanti soggetti diversi – e più ne include meglio è, per conto mio. Queste procedure ci stimolano infatti a comporre un insieme d’interessi mediante un processo democratico, e anche se questo non basta ad assicurare un risultato positivo, tuttavia ritengo che il coinvolgimento sia qualcosa di buono in sé, perché permette di dare voce non solo ai progettisti, ma a tante soggettività che altrimenti rimarrebbero escluse. Coinvolgerle significa renderle corresponsabili della scelta.
GG: I MSP sono, in effetti, molto democratici, perché coinvolgono i portatori di interesse. È uno dei loro caratteri cruciali e dei loro maggiori pregi, ed è quel che li differenzia da altre procedure.
SRZ: I processi, in effetti, non funzionano se non si coinvolgono i portatori d’interesse. Mi è capitato di fare esperienze negative in cui le domande principali poste all’inizio di un processo non erano chiare, e posso dire che, se le domande non sono chiare, non è possibile dare risposte. Quindi bisogna conoscere bene le esigenze dei portatori d’interesse e integrarle nel processo. Se lo si fa, i MSP portano molti vantaggi. Io faccio molte giurie per la HRS di San Gallo; in un numero di «Hochparterre» dicono che come ditta fanno sempre sia un MSP, sia un concorso, perché così sono più rapidi, la qualità è ottima e i costi si riducono.
ST: È una buona cosa che degli investitori privati usino questi strumenti per i loro progetti: probabilmente hanno capito che l’accettazione delle loro opere è più semplice se nelle procedure vengono integrati i rappresentanti dell’ente pubblico. Aggiungo una nota: dovrebbe essere proprio l’ente pubblico a stimolare i privati a intraprendere questi processi (processi il cui vero obiettivo è portare alla qualità), sostenendoli sia dal punto di vista organizzativo sia con eventuali bonus negli indici pianificatori. A Zurigo è stato fatto con buoni risultati.
AF: Da parte mia, posso portare l’esempio di un progetto in corso. A Lugano, in un comparto dove abbiamo un PR che nel tempo ha mostrato diverse criticità (benché codifichi i risultati di un concorso urbanistico), stiamo cercando di rivedere quanto fatto e per far ciò abbiamo optato per i MSP. Visto che i proprietari direttamente coinvolti non sono molti, li abbiamo convocati preventivamente e abbiamo spiegato che intendiamo ripensare il comparto, chiedendo loro degli input da integrare nella documentazione destinata ai gruppi di progettazione. Erano generalmente contenti e l’hanno fatto. Andrà bene? È presto per dirlo; quel che posso dire è che abbiamo tentato di «progettare» questo processo, e se le cose non andranno come auspicato dovremo essere flessibili e mettere in atto i correttivi più opportuni, per evitare di tornare ai piedi della scala.
GG: E qual è invece la vostra posizione in merito al coinvolgimento attivo della popolazione?
SRV: Coinvolgere la popolazione non solo è opportuno, ma è obbligatorio per legge, per quanto riguarda il PR. Ma l’importanza di questo coinvolgimento è cresciuta sempre più: oggi gli incontri e la comunicazione rappresentano quasi la metà del budget del lavoro di pianificazione. Ad alcuni committenti sembra esagerato, ma senza il processo di informazione il progetto pianificatorio può andare incontro a opposizioni che sarà poi difficile gestire.
MV: Le dinamiche partecipative possono essere difficili: a volte la popolazione non è in chiaro sul tema, o si divide su aspetti marginali, o viene trainata da personalità distruttive… Ciononostante, in questo genere di progetti (e soprattutto nei MSP) questa componente mi sembra fondamentale. E c’è anche un fatto culturale che ci spinge a perseguire queste pratiche – culturale proprio nel senso della Baukultur e delle linee guida federali che la concernono: esse richiedono di coinvolgere la popolazione con lo scopo di creare consenso e attivare processi democratici. Coinvolgerla significa allora informarla e formarla, perché quando informi insegni molte cose importanti e poco note a livello di regolamento, di pianificazione, di processi costruttivi. Bisogna però dire (e penso a casi che ho visto in Francia e Italia) che spesso il coinvolgimento della popolazione è lasciato all’improvvisazione: esiste un set di tecniche diverse per attuarlo (mappe cognitive, interviste qualitative e visite guidate, focus group, disegno partecipativo ecc.) ma spesso i committenti lo ignorano e si affidano alla sensibilità del progettista; non tutti, però, sono capaci di parlare ai cittadini. Di conseguenza, all’interno dello stesso processo di MSP troviamo alcuni segmenti molto ben strutturati, che fanno riferimento a regolamenti e competenze tecniche, e altri lasciati al caso, come la dimensione della consultazione. È un peccato, perché il coinvolgimento della popolazione potrebbe essere messo a frutto nella dimensione di studio dei mandati. Coinvolgere la popolazione, infatti, non significa chiedere: chi è favorevole a questa proposta? Significa invece esplorare i bisogni, l’immaginario e la percezione della popolazione interessata, o meglio dei diversi gruppi che la compongono. Nel caso del masterplan di Lugano, ad esempio, ciò permetterebbe di capire come gli abitanti si rapportano al lungolago, quali sono le loro mappe mentali… tutti elementi che servono per uno studio – diciamo così – psico-antropologico e sociale dello spazio, che potrebbe tornare utile ai gruppi di lavoro.
GG: Coinvolgere la popolazione e informarla sui progetti in corso è fondamentale, ma come presentare processi complessi come i MSP a persone che non conoscono le nostre discipline?
AF: Nel caso di una realtà come Lugano, non si può pensare alla comunicazione relativa a un MSP senza collocarla in un discorso più generale che rimandi alla visione complessiva di sviluppo della città. Se si vuole coinvolgere il pubblico, quindi, non basta focalizzarsi sul singolo progetto, è necessario metterlo in relazione con l’insieme. È uno dei temi che stiamo cercando di sviluppare con il nuovo Piano direttore comunale. Nel bando abbiamo scritto che questo non deve essere solo un «progetto» per il territorio di Lugano, una tela di fondo per poi rivedere e aggiornare i Piani regolatori; deve diventare uno strumento di comunicazione. A tale scopo stiamo anche valutando la possibilità di dotarci di un modello della città in scala; l’idea sarebbe di collocarlo in un luogo in cui esporre anche i risultati di concorsi e altre procedure.
CG: Su un piano più generale, ho riscontrato che in questo ambito sussiste un problema di comunicazione: spesso il linguaggio che architetti e urbanisti utilizzano risulta perlopiù incomprensibile (e a volte purtroppo anche irritante) per chi non appartiene al settore. Invece di avvicinarsi all’interlocutore, lo si allontana. Questa è una grande lacuna. Ho assistito a un’interessante conferenza dell’architetto Barbara Tirone della Maison de l’Architecture de Genève su questo tema: diceva che ci sono termini, come ad esempio territorio, che creano subito una barriera quando ci si rivolge ai non addetti ai lavori e che bisogna evitare di usare. Invece capire come comunicare e trovare il modo giusto per aprirsi al dialogo è fondamentale per riuscire a trasmettere i valori e la cultura della costruzione.
ST: Introdurrei ora il tema dell’architettura del paesaggio, sempre più centrale nei MSP. Perché? Forse per la recente attenzione all’ecologia? Forse perché la Convenzione europea sul paesaggio l’ha definito un bene da tutelare? E una domanda provocatoria: i paesaggisti non saranno forse tanto ricercati perché forniscono un alibi ai politici con cui mettersi in pace la coscienza?
SRZ: Capisco la provocazione. Un paesaggista non crea un valore misurabile: le nostre parole chiave sono verde, spazio aperto, spazio pubblico, dimensione sociale, clima, biodiversità, aspetti a cui oggi si dà molta più importanza rispetto a vent’anni fa. Occupandosi di questi temi, la mia professione contribuisce allo sviluppo dell’urbanistica. Nell’immaginario attuale, gli architetti sono quelli che portano il beton ed edifici brutti, alti ecc.; questa avversione non esiste verso gli spazi pubblici e il paesaggio. Il problema al momento in Ticino è che i paesaggisti non sono molti, ma le cose stanno cambiando.
MV: Mi sembra interessante sottolineare che è proprio nel disegno dello spazio pubblico che le dinamiche partecipative di cui parlavamo diventano particolarmente importanti. Nella dimensione paesaggistica del progetto, lo studio della percezione pratica del territorio da parte della popolazione va integrato come fatto culturale.
ST: Passiamo ora a degli aspetti più tecnici concernenti l’organizzazione dei MSP. Spesso si pone il problema che si ricorre a queste procedure in situazioni in cui sarebbe più appropriato un concorso d’architettura. Tuttavia, concorsi e MSP rispondono a tematiche ben diverse: i primi si organizzano quando il committente vuole realizzare un’opera e ha in chiaro sito e programma, e quindi l’oggetto del concorso è il progetto architettonico; invece, come spiega la norma SIA 143, «lo svolgimento di MSP si giustifica quando, durante la fase di sviluppo di un progetto, appare necessario un dialogo tra il collegio di esperti e i partecipanti in quanto, dal punto di vista dei contenuti: a) prima della fase di studio non è stato possibile definire tutti gli aspetti in modo chiaro e la fase di studio permette di approfondire e di agire attivamente sulla problematica, b) è ancora necessario verificare alcune condizioni quadro relative alla progettazione». Cosa ne pensate? Avete avuto esperienze di usi impropri dei MSP?
CG: Sì. Spesso il programma dei MSP è già troppo di dettaglio e pone troppe condizioni: sembra quello di un concorso. E questo contraddice l’idea che debbano essere mandati di studio, ovvero mandati dove, sì, si deve partire da una domanda chiara, ma gli aspetti più importanti dovrebbero essere la riflessione e il dialogo.
MV: Più si allontanano MSP e concorso meglio è. Perché sono cose diverse e se si confondono allora è chiaro che i MSP vengano considerati inefficaci rispetto all’efficacia d’un concorso. Va però detto che si potrebbero anche sperimentare altre tipologie di studio: i metaprogetti, ad esempio, di cui si parla pochissimo. Con il metaprogetto si chiede: cosa dovrebbe essere un parco oggi? cosa dovrebbe essere uno stadio? E si comincia a ragionare in questa scala, non a scala di disegno. Un’altra tipologia interessante (che non so se sia mai stata applicata in Svizzera) è quella dei mandati di studio senza programma.
SRZ: Sì, ci sono, ne ho fatti due. Il risultato è stato incredibile. Uno era un mandato per il centro di una piccola città. Il programma consisteva solo nella domanda: quali sono le domande centrali per questo territorio?
SRV: Quasi quasi anche il masterplan di Lugano è un mandato senza programma… La domanda è: come sarà la Lugano del 2050? Durante il kick-off meeting, a me come pianificatore è interessato molto sentire un politico che fuori programma ha esposto i suoi problemi. Problemi, non obiettivi: non ci ha detto cosa vuole. Questo è un approccio utile ai MSP.
CG: In Ticino però di solito il programma c’è ed è ben definito. Fateci caso: già si prevede il locale pulizie da 8 m2… Quando questo capita secondo me c’è un problema: significa che in quella situazione andrebbe fatto un concorso, che tra l’altro apre a più progettisti.
GG: C’è il rischio, in effetti, che i MSP vengano usati impropriamente per fare concorsi senza anonimato. Io stesso l’ho vissuto: di recente ho scoperto di aver partecipato a due piccoli MSP con mandato successivo, che in realtà avrebbero potuto benissimo essere normali concorsi d’architettura a invito. E infatti così li avevo considerati; scoprire che ufficialmente erano MSP mi ha stupito molto…
CG: A me è capitato di rinunciare a un collegio di esperti dove il programma e le richieste del bando erano già talmente dettagliate da inevitabilmente generare progetti veri e propri, senza poi né garanzia di proseguimento né corretta remunerazione.
GG: Vorrei però dire una cosa a proposito di MSP che generano progetti di concorso: bisogna ammettere che in queste procedure per gli architetti non sempre è facile capire dove fermarsi con la progettazione. È vero che la committenza non si aspetta dai MSP progetti compiuti bensì ipotesi da sviluppare; tuttavia, se i partecipanti si limitano a un abbozzo che alla prova dei fatti non funziona, a quel punto tutto crolla. Una minima verifica di fattibilità, quindi, dev’esserci. Calibrare tutti questi elementi nei MSP è fondamentale.
SRV: Ora faccio una domanda un po’ provocatoria, ma è un punto importante da chiarire per chi ci legge. In questo numero di Archi vi occupate di MSP «piccoli»; ci si potrebbe allora chiedere se per queste opere non sarebbe stato più adatto il concorso…
ST: I MSP che presentiamo sono «piccoli» nel senso che non hanno una grande scala urbanistica (sono molto più ridotti dei grandi MSP della città aggregata); si tratta pur sempre, però, di progettazioni urbanistiche. Inoltre, in essi non era generalmente chiaro il programma e dove doveva inserirsi.
CG: Un’altra domanda provocatoria: una volta in situazioni del genere si sarebbe fatto uno studio di fattibilità e poi il concorso…
GG: L’aspetto interessante dei MSP però è la messa a confronto di proposte. Si potrebbe fare la fattibilità di tutto quello di cui stiamo parlando, con un progettista che propone la sua visione. Così facendo, però, la direzione sarebbe tracciata da una testa. Quello che stiamo discutendo qui oggi è che vogliamo tante teste che studino, discutano e, dialogando, arrivino a proporre qualcosa di condiviso.
SRV: Mi sento di poter dire che lo strumento dei MSP è certamente utile per i partecipanti. Il punto critico però è ancora quello indicato da AF: il processo. Bisogna sempre chiedersi: il processo che sto mettendo in piedi è quello giusto? Laddove la procedura coinvolge un’eventuale modifica del PR, ad esempio, è importante che già al momento del bando sia chiaro cosa si vuole, e che ad allestire il bando ci sia anche un pianificatore. Purtroppo ho visto che i bandi che coinvolgono la pianificazione del territorio sono spesso manchevoli, del tutto vaghi. Un pianificatore potrebbe aiutare il politico a capire dove vuole arrivare e con quale processo, e quindi cosa inserire nel bando stesso. Si potrebbe così contribuire a ridurre di qualche anno i tempi procedurali.
ST: Però è nella natura dei MSP non sapere da subito dove si vuole andare: durante il loro svolgimento si generano riflessioni che aiutano il committente a definire meglio, man mano che la procedura avanza, i suoi obiettivi. Perciò compattare questi processi in qualcosa di più snello è certo interessante dal punto di vista organizzativo, ma facendolo si rischia di perdere degli input. Lo studio, la parola lo dice, è generalmente una cosa lunga.
SRV: C’è però un altro tema che mi spinge a insistere sulla necessità di definire bene fin dall’inizio gli scopi della procedura: a volte i MSP portano a progetti perfetti, ma che toccano interessi nascosti, e quindi a lavori finiti scatta il ricorso e tutto si blocca. È quindi importante fare un lavoro a monte per prevenire casi del genere e garantire che il processo possa concludersi positivamente anche nello stadio successivo ai MSP.
GG: Lavorare a monte non mi sembra l’unica opzione: anche gli incontri dei team con il collegio di esperti sono un contesto adatto per discutere di eventuali interessi rimasti inespressi. La comunicazione durante i workshop è cruciale: dev’esserci un dialogo tra chi conosce bene il contesto in cui si svolge la procedura, con le sue dinamiche politiche e i suoi equilibri di potere, e i partecipanti, che spesso, proprio perché non conoscono nel dettaglio questi aspetti, possono farsi portatori di una visione nuova e fresca.
ST: Il dialogo è un tema di cui va sottolineata l’importanza per i MSP. Quando gli attori sono molteplici e le premesse non sono chiare, è lo scambio tra i partecipanti e il collegio di esperti (la cui centralità è asserita anche nella norma SIA 143) a permettere di arrivare a un confronto costruttivo.
CG: Un dialogo possibile perché nei MSP non c’è l’anonimato.
ST: Sì, è una delle loro caratteristiche principali.
GG: Tra i MSP a cui ho partecipato come architetto, in quello di Biasca una cosa mi è piaciuta particolarmente: durante i workshop tutti i gruppi di lavoro assistevano alle presentazioni degli altri, cosa che di solito non succede (anche se è consentito). È stato un po’ come tornare a scuola, tornare a studiare. Infatti quante volte ci capita, come progettisti, di elaborare un progetto come facevamo all’università, presentarlo a persone che lo commentano, svilupparlo, essere criticati ancora e così via? Tornare a quel tipo di dialogo per me è una componente cruciale dei MSP. Certo, c’è chi vive la procedura come un concorso e allora va dritto per la sua strada; per me invece l’ascolto è un valore aggiunto.
SRZ: Anch’io ho fatto più volte l’esperienza di MSP coi gruppi presenti. Funziona benissimo. All’inizio temevamo che le soluzioni proposte si avvicinassero, ma non è così: sentire gli argomenti altrui aiuta ad approfondire la propria idea.
ST: In conclusione, una domanda per tutti. Com’è cambiato il rapporto tra la vostra disciplina e la progettazione territoriale negli ultimi dieci anni, con la diffusione in Ticino dei MSP?
SRZ: Per me forse l’aspetto più significativo è l’affermarsi della nozione di shared space, cioè dell’idea che lo spazio appartiene a tutti: c’è uno spazio privato, semi-pubblico e semi-privato e uno spazio pubblico, e ci sono le soglie tra una sfera e l’altra, che suggeriscono un sistema di partecipazione e di condivisione dello spazio.
SRV: Direi che noi pianificatori abbiamo dovuto trasformarci da tecnici in giuristi, economisti e sociologi, perché il territorio non è ampliabile, lo spazio in cui si può intervenire è limitato e spesso già costruito. È quindi fatale che le situazioni di conflitto aumentino. E ciò significa che dobbiamo imparare a gestire questi aspetti del vivere, oltre a quelli del costruire. In tale quadro, collaborare con altri professionisti diventa essenziale per riuscire a coordinare tutto il sapere in un processo che si concluda con una decisione democraticamente condivisa.
CG: In effetti l’iter progettuale è diventato molto più complesso. Rilevo pure che come architetti si è sempre più soltanto una parte di un grande ingranaggio. Una volta l’architetto, insieme all’ingegnere, era la figura gerarchica centrale nei processi di progettazione e di costruzione. Ora sin da subito si deve interagire con molti altri attori; progettare il territorio è oggi sempre più un processo multidisciplinare.
ST: Si è detto che oggi il processo è un progetto. Forse il nuovo ruolo degli architetti è prestare la loro capacità concettuale alla ricerca di consensi allargati per arrivare a un determinato risultato progettuale. La capacità di sintesi che abbiamo imparato studiando può quindi servire anche ad altro, non solo a disegnare edifici.
AF: Ancora fino a qualche anno fa, come diceva CG, l’architetto si riteneva al centro del progetto; faceva la sua proposta e poi partiva la richiesta di modificare il PR… ma la cosa spesso non funzionava, perché non si era concepito a monte un processo adeguato. In Svizzera interna ci si è resi conto prima di quanto questo fosse necessario. Da noi questa consapevolezza c’è da poco, e magari è stata proprio la diffusione dei MSP che ha aiutato a maturarla. Pian piano si sta dunque capendo che non è più sufficiente che un architetto elabori un progetto e poi lo si codifichi nel PR. A volte può funzionare, ma non sempre. La sfida più grossa è capire di volta in volta qual è la via più sicura ed efficace per arrivare all’obiettivo.
GG: A questo proposito vorrei citare un’esperienza personale. Negli anni Ottanta ho avuto la fortuna di lavorare nello studio di Luigi Snozzi. Il suo modo di leggere il territorio rimane, per me, esemplare; in effetti, considero i MSP un’occasione per dare forma, a livello di procedure, a un approccio simile al suo, che già era votato a principi come l’uso parsimonioso del suolo, il coinvolgimento della cittadinanza, il formare informando… Chiaramente certi approcci che oggi abbiamo assunto, come la multidisciplinarietà, per lui non erano un tema; ed è chiaro che il modello dell’architetto che va dritto per la sua strada, lotta solo contro tutti e, se la spunta, riesce a realizzare il suo progetto non è più attuale. Io però resto molto legato a quella figura, perché mi ha insegnato una cosa: l’importanza di saper leggere il territorio. Perché questo è il tema: come leggere il territorio. Poi poco importa se a farlo è l’architetto, il paesaggista, il sociologo, il pianificatore: ciò che conta è avere la capacità di leggere quel che c’è e trarne una visione che strutturi quel luogo. Al centro della visione può esserci il vuoto, il verde, il costruito o mille altre cose, ma credo sia fondamentale che una visione ci sia. E soprattutto è fondamentale che la si raggiunga tramite un confronto d’idee.
MV: A guardare dall’esterno (non sono un professionista), mi sembra che tutte le discussioni interessanti e le questioni di governance che sono emerse oggi sono riconducibili al tentativo di guadagnare uno spazio tra due opposti estremi: la totale assenza di PR (tipica del Ticino fino agli anni Ottanta) e un pianificazione troppo rigida e «top-down» per tenere il passo con l’evoluzione della società postfordista. Tra questi due eccessi si è aperto uno spazio di pensiero e di azione interessante, che stiamo esplorando ancora oggi, per esempio attraverso procedure come i MSP.