Recensione al volume «The Autonomy of Theory. Ticino Architecture and its Critical Reception»
Partendo dalla celebre mostra zurighese Tendenzen (1975), il volume analizza la «fortuna critica» che la storiografia ha riservato all'architettura ticinese degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso. «Periodo d’oro» dell’architettura locale contraddistinto, secondo l’autrice, dall’affrancamento della scrittura teorica dalla cultura materiale degli edifici che costituiscono l’oggetto del discorso.
Il volume, di piccolo formato e disponibile anche in linea all’indirizzo www.gta-edition.ch, trae origine da una serie di relazioni a convegni e saggi dell’autrice, oggi direttrice del gta Archiv del Politecnico federale di Zurigo, distesi su un arco di tempo che corre dal 2017 al 2024.
Argomento della pubblicazione non è l’architettura nel Cantone Ticino, ma la sua ricezione critica soprattutto negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, a cominciare da quell’evento seminale che fu la mostra Tendenzen, curata nel 1975, a Zurigo, da Martin Steinmann, mostra corredata da un catalogo che ha conosciuto pari fortuna e che fa qui capolino nella quarta di copertina. La scelta di questo taglio critico si fonda su una concezione dell’architettura, mediata dalle riflessioni teoriche di Adrian Forty, come un «sistema di edifici, immagini e parole», nel quale gli strumenti di disseminazione della conoscenza delle opere assumono una rilevanza pari a queste ultime, giacché «senza testi, disegni o fotografie, stampate o digitali, non esiste un discorso sull’architettura» (p. 8).
Il volume prende le mosse dalla documentazione di archivio che attesta la produzione, concettuale e editoriale, del catalogo Tendenzen, il quale precede o quantomeno accompagna passo dopo passo, secondo l’autrice, la concezione della stessa mostra (diversamente da quanto accade di solito). Mostra e volume fondati su 66 tavole (nel volume: pagine) orizzontali incardinati a una rigida griglia grafica e a tecniche di riproduzione che riducono a «uno stato di equivalenza visiva» (p. 22) le opere presentate, coerentemente con il progetto di «contrastare l’inevitabile eterogeneità di un gruppo assortito di professionisti ticinesi costruendo una narrazione teorica comune per i loro progetti» (p. 27).
Già da queste osservazioni si manifesta l’obiettivo dell’autrice, vale a dire verificare, sull’esempio dell’architettura ticinese, «la agency [letteralmente «efficacia», ma potremmo forse azzardare «ricaduta operativa»] della scrittura teorica nel momento in cui si emancipa dagli edifici su cui è in primo luogo basata» (p. 14). Così, le interpretazioni offerte da Steinmann e, successivamente, da Kenneth Frampton (che, com’è noto, convoca l’architettura ticinese tra gli esempi di «Regionalismo critico» e conia il termine «Scuola ticinese»), vengono criticate (in modo particolarmente severo in quest’ultimo caso) per il disinteresse manifestato nei riguardi delle condizioni (economiche, politiche, sociali) da cui derivano le opere oggetto del loro discorso critico, ritenendo viceversa assai più «lucide» (p. 124), sotto questo riguardo, le letture offerte da Paolo Fumagalli e Virgilio Gilardoni, per la loro approfondita conoscenza del contesto da cui tale fenomeno trae origine. La questione centrale, manifestata sin dal titolo, è dunque quella della «autonomia della teoria», che riverbera la conclamata «autonomia [disciplinare] dell’architettura». Secondo l’autrice, «la teoria opera più facilmente in un campo di riferimenti universalmente valido, leggibile soprattutto all’interno della disciplina. Richiede una lettura astratta dell’architettura costruita e si propaga sulla base della soppressione degli elementi specifici in favore di principi generali che possono essere ugualmente applicati a compiti e contesti diversi. Quanto più questi principi sono universali, tanto più si prestano a una più ampia diffusione». Perciò, «spogliata fino a conseguire ciò che la critica riteneva fondamentale, l’architettura [ticinese] è diventata un modello formale e metodologico replicabile, in grado di attrarre cerchie professionali più ampie» (p. 162).
Il tema è complesso e meriterebbe una disamina più dettagliata di quanto consenta questa rubrica. E se pure il volume incappa in una sorta di paradosso (concentrando la propria attenzione sul discorso critico, e relegando sullo sfondo le opere, l’autrice incorre in alcune sviste che, benché secondarie rispetto alla struttura argomentativa, suscitano l’impressione di uno sguardo distante dal contesto da cui prende origine l’indagine),1 si tratta di un contributo allo studio della ricezione dell’architettura ticinese che richiede un confronto critico adeguato; siamo certi che, alla vigilia del cinquantesimo anniversario di Tendenzen, ve ne sarà ancora l’occasione.
Note
1 Un solo esempio: Bruno Reichlin non è stato assistente di Giovanni Klaus König all’IUAV, dove secondo l’autrice «fu esposto alla semiologia architettonica» (p. 71, nota 65), bensì alla Facoltà di Architettura dell’Università di Firenze, presso la quale insegnava Umberto Eco, che fu la ragione principale della calata di Reichlin in terra toscana.