«Be­ton­kon­struk­tion» – Il mi­to del­la per­fe­zio­ne e dell’eco­no­mia del ma­te­ria­le

Data di pubblicazione
19-10-2021
Silvia Groaz
Arch. EPFL, collaboratrice scientifica e assistente del laboratorio di teoria e storia LTH3 dell’EPFL

La visione svizzera del calcestruzzo a vista

Nel quadro dell’affermazione del béton brut emerso durante il cantiere dell’Unité d’Habitation a Marsiglia, la posizione culturale della Svizzera risulta emblematica. Se nei dibattiti internazionali quella tecnica si connota di accenti teorici e ideologici che confluiscono nella definizione di New Brutalism e nello stile del Brutalismo internazionale, in Svizzera il calcestruzzo a vista assume una particolare accezione, svincolata dalla volontà di indagarne gli intrinseci concetti teorici e artistici, o di ricercare tessiture in forma decorativa. È invece la tradizione ingegneristica a imprimere al calcestruzzo una visione tecnica e scientifica che ammette un certo grado di imperfezione nella messa in opera, anche se confinata all’interno dei limiti dell’economia del materiale e delle logiche di cantiere. Il calcestruzzo a vista si connota, nella cultura svizzera degli anni Cinquanta, di un carattere «rational» e diviene il pretesto per asserire il rifiuto di qualsiasi aggettivazione formale o intellettuale che non sia quella della costruzione più radicale.

Il calcestruzzo e il mito della perfezione

Il fenomeno del calcestruzzo a vista è uno dei tratti forse più distintivi della cultura architettonica elvetica. Per comprendere la portata concettuale di quella tecnica occorre risalire ai dibattiti degli anni Quaranta, quando l’indissolubile influenza della cultura funzionalista contamina la visione del materiale. L’alleanza intrinseca tra un «appropriato impiego del materiale» e la ricerca di una «scrupolosa messa in opera» si ergono a paradigmi cruciali per la ricezione critica del calcestruzzo a vista nel dopoguerra, che rimarrà ancorata alla visione di perfezione tecnica di cui quel materiale era divenuto espressione.1

L’attitudine culturale riconducibile a una «attitudine particolare per la precisione, per l’economia, per l’igiene e per una semplicità democratica», che Max Bill attribuisce all’architettura Svizzera tra gli anni Venti e Quaranta,2 innerva la visione del calcestruzzo e trova conferma nella particolare condizione geografica di un territorio da strutturare. È la grande tradizione dell’ingegneria infrastrutturale a creare le premesse per una identità svizzera che si conferma pioniera nell’impiego del calcestruzzo armato, riconosciuta anche da architetti come Louis Kahn3 e critici come Everard Kidder Smith.4 Le colossali dighe in Wäggital e in Vallese, le forme dei ponti avanguardistici di Robert Maillart, o della grande volta parabolica del mercato di Vevey di Schobinger, Taverney, Getaz e dell’ingegnere Sarrasin tornano di attualità nel panorama internazionale verso gli anni Cinquanta per dimostrare come l’economia del materiale e una precisa ricerca strutturale possano ambire al traguardo di un’architettura capace di tradurre «in termini razionali quel controverso materiale strutturale – il calcestruzzo armato».5

La malleabilità del calcestruzzo armato esemplificata dalle strutture di Maillart diviene un riferimento imprescindibile per la cultura architettonica elvetica, al punto da essere incluse in mostre divenute celebri come Die Gute Form organizzata da Bill nel 1949. Nelle sperimentazioni strutturali di Maillart, concepite a partire da modelli fisici, Bill individua l’apice della ricerca di un principio di sintesi in primo luogo culturale tra la «intensità dell’espressione tecnica» e una visione estetica,6 in nome di una «sublime fluidità» che Maillart stesso aveva riconosciuto nell’economia della costruzione.7

Nel traguardo della continuità degli elementi strutturali, il calcestruzzo si anima di un vitalismo che, nel dibattito degli anni Cinquanta imperniato sulle componenti umanistiche, assume un significato particolare, come rileva Sigfried Giedion: «Nelle mani di Robert Maillart, il calcestruzzo a vista perde la sua rigidezza e diviene quasi un’ossatura organica, in cui ogni particella pulsa di vita».8
Il destino di Maillart si era tuttavia intrecciato con una distorta percezione del calcestruzzo. Maillart, ricorda Giedion, era stato infatti costretto a realizzare le sue visioni in vallate remote, o a ricoprire le sue strutture con lastre di granito, per via della loro «estrema leggerezza ed eleganza» che non conferiva una percezione di stabilità.

Nonostante la ricerca di un superamento dell’astrazione del Neues Bauen, agli albori degli anni Cinquanta il calcestruzzo deve ancora essere reso «accettabile socialmente» e quindi non di rado viene celato da strati di intonaco o altri materiali, secondo quella che Alfred Roth definisce con rammarico una «paura della superficie» intesa quale materiale a vista.9 Ma nel lento processo di un’auspicata rinuncia al rivestimento non è l’espressività artistica del materiale a essere ricercata, ma una natura controllata e precisa. «Vi è forse qualcosa di più potente e bello di una superficie finemente precisa e ben proporzionata?» si interroga Roth nel 1951, auspicando la ricerca di una «bellezza di una costruzione razionale», ricondotta ancora una volta a Maillart.

Mentre le due grandi dighe svizzere di Mauvoisin e della Grande Dixence sono in cantiere, un comitato della SIA visita nel 1952 le grandi opere infrastrutturali degli Stati Uniti, le stesse che avevano ispirato Le Corbusier all’adesione senza compromessi alla tecnica del béton brut.10 Le colate colossali di calcestruzzo sono ammirate per l’audace impatto estetico e monumentale e per la cura e la precisione della messa in opera «molto curata e liscia».11 L’impiego del calcestruzzo a vista nella costruzione delle dighe contribuisce a rendere quel materiale sinonimo del progresso dell’ingegneria e della tecnica svizzere, unici esempi che Max Frisch elenca tra le opere capaci di riscattare, attraverso la monumentalità, una certa nostalgia che rende altrimenti «seriosa, molto seriosa» la cultura architettonica elvetica, avviluppata nell’ossessione per la precisione dei dettagli.12

La ricezione svizzera del béton brut di Le Corbusier

Un rinnovamento profondo dell’architettura Svizzera avviene in concomitanza con la realizzazione delle più importanti opere di Le Corbusier nel dopoguerra, capaci di sollevare interrogativi decisivi sulle implicazioni del calcestruzzo, sia sugli sviluppi della forma e della struttura, sia sulla sua messa in opera.

Le perplessità sollevate dagli architetti e dai critici svizzeri sono riportate nell’Oeuvre Complète, in cui Le Corbusier accusa i suoi concittadini di non essere in grado di cogliere la manifestazione pura e brutale della materia: «Quante volte dei visitatori (in particolare svizzeri, olandesi e svedesi) mi hanno detto: “la tua opera è molto bella, ma quanto è realizzata male”».13

Sebbene in Svizzera l’Unité venga apprezzata come un nuovo modello di «habitat» sociologico e urbano,14 l’accettazione della sua materialità è frenata dalla ricerca di una ossessiva perfezione, come riconosce con consapevolezza l’editore svizzero Hans Girsberger: «gli svizzeri sono troppo legati a una messa in opera meticolosa e precisa per poter trascurare certi difetti e per poter misurare la “beauté du béton brut” come Le Corbusier la intende».15

Anche quando, sul finire degli anni Cinquanta, il béton brut si afferma come una tecnica di successo, considerata oramai la «griffe» di Le Corbusier,16 la sua concezione appare ancora soggiogata al mito funzionalista del Neues Bauen, come nell’edificio amministrativo della Mutuelle Vaudoise a Losanna, in cui la «nobiltà» del béton brut si esplicita per Jean Tschumi nella precisione dell’esecuzione degli spigoli vivi e nella sua attenta composizione per renderlo simile alla pietra calcarea.17

La tendenza a vedere nel béton brut i tratti di una lavorazione «unica» e i valori di una tecnica «nobile»18 declinata secondo il traguardo della perfezione evolve sul finire degli anni Cinquanta in una diversa attitudine che porta all’eccesso i fattori costruttivi e logici. La commistione tra la componente «razionale» descritta da Roth e la visione lecorbusiana del calcestruzzo genera una nuova forma di béton brut derivato dalla tensione tra l’economia di cantiere e la perfezione capace di ammettere un certo grado di controllata rudezza.

Il béton brut subordinato a una logica pragmatica trova riscontro nelle proposte degli Atelier 5 e in particolare in Flamatt 1 e nella Siedlung Halen, che testimoniano la nascita di una nuova sensibilità che supera il perfezionismo e il dettaglio controllato.19 Questa nuova attitudine all’imperfezione trova sostegno in critici che svincolano l’interpretazione del béton brut da un dibattito consolidato sull’ossessione di principi tecnici ed economici, per fondersi in una visione artistica, come dimostra Silvia Kruger, la quale ritrova nel carattere forte e primevo della materia il mito novecentesco del non finito di Michelangelo.20

L’ammissione di un certo grado di imperfezione nella lavorazione del calcestruzzo è tuttavia affrancata dalle declinazioni concettuali implicite nelle sperimentazioni di Le Corbusier sugli effetti «imprevisti» e «inaspettati». Il béton brut diviene invece uno strumento attraverso cui indagare le componenti umanistiche, espresse nella superficie segnata dalle proporzioni «opportune», spogliata infine dai rivestimenti «costosi» per svelare la «nobiltà» di quel materiale, come osserva Dolf Schnebli a proposito delle opere di Le Corbusier a Chandigarh: «contemplando le opere di Le Corbusier, ci si rende conto fino a che punto il calcestruzzo perda di vigore espressivo se lo si copre con qualsivoglia rivestimento costoso, come avviene nella maggior parte degli edifici in Svizzera».21 L’accezione «razionale» del calcestruzzo evolve così dal concetto legato alla superficie ancora astratta di Roth a un invito verso una nuova economia di cantiere. «Sarebbe assurdo – prosegue Schnebli – criticare le imperfezioni del calcestruzzo di queste opere, quanto essere sorpresi delle irregolarità della superficie di una muratura in pietra grezza».

I concetti che Le Corbusier aveva associato alla capacità del calcestruzzo di divenire trascrizione di una gestualità talvolta maldestra e cruda, sublimatrice dei difetti essi stessi ricompresi nella «nobiltà» del béton brut, vengono declinati dalla cultura elvetica in una lavorazione tecnica volta a una semplicità economica ed espressiva. Il béton brut diviene quindi espressione di una forma estrema di costruzione, come nel caso della Villa Maier a Cologny di George Brera, in cui la tecnica «autentica» del béton brut è funzionale alla trascrizione grafica del differente comportamento strutturale dei muri portanti e di tamponamento.22

La volontà dei critici svizzeri di non attribuire alla visione del calcestruzzo dei valori in atto nel dibattito contemporaneo si riflette in un silenzio eclatante a proposito della definizione di New Brutalism, che compare saltuariamente per confermare la distanza dal discorso intellettuale e il rigetto totale delle etichette. Sintomatica del rifiuto delle elaborazioni intellettuali che la definizione di New Brutalism oramai comprende è la scelta della redazione di «Bauen und Wohnen» di ripubblicare nel 1963 la presa di posizione di Le Corbusier contro quella definizione: «“Brutalista” = anglicismo. Così come «versatile» in inglese significa moltiplicato, abbondante, ricco. In francese, «versatile» è un aggettivo deprecativo. Io ho usato il «béton brut». Il risultato: una fedeltà totale, una precisione perfetta di getto, un materiale che non tradisce. [...] Il béton brut dice: sono del calcestruzzo!».23

Nel famoso libro del 1966 The New Brutalism. Ethic or aesthetic?, il critico inglese Reyner Banham identifica uno dei nuclei centrali del «Brutalist Style» nella «Swiss School», che trova il proprio epicentro nelle opere di Schnebli, Förderer, Otto, Zwimpfer, e degli Atelier 5. La «Swiss School» finisce per rappresentare, secondo Banham, eccessi stilistici che vanno dal «manierismo» della casa a Rothrist e della fabbrica a Thun, entrambe degli Atelier 5, a un «approccio eclettico e storicista» di Schnebli, fino a un «estremismo» riconosciuto nella scuola ad Aesch di Förderer, Otto e Zwimpfer, colpevoli di ridurre l’architettura a un gioco di forme scultoree.24

L’apice del fenomeno del «Brutalist Style», si concretizza nell’«habitat» della Siedlung Halen che dimostra come nell’estetica «brut» ed «eroica» del calcestruzzo a vista possa rivivere una sintesi di impulsi etici. La fotografia della Siedlung Halen che svetta sopra gli alberi viene selezionata da Joedicke per la copertina del libro, nonostante per Banham quell’immagine «non sembra caratterizzare il contenuto del libro».25

Esplicativa dell’attitudine tipicamente elvetica di resistenza a qualsivoglia categoria stilistica è la risposta dei membri degli Atelier 5 alla richiesta di immagini della Siedlung Halen: «Per quanto riguarda il libro sul New Brutalism, non possiamo essere coinvolti. Quindi vi chiedo di togliere le nostre opere dalla lista. Nei nostri lavori, non ci siamo quasi mai preoccupati della questione del Brutalismo. Anche se le opere potrebbero suggerirlo, le ragioni vanno ricercate altrove, nei costi di costruzione limitati che dettano la scelta del materiale».26

A seguito dell’inclusione forzata nella costruzione storiografica del Brutalismo, gli Atelier 5 puntualizzano la loro posizione in un documento intitolato Sichtbeton, che dimostra come il calcestruzzo a vista, al di là di qualsiasi stile, corrisponda a un radicalismo legato alla pura costruzione, confermando ancora una volta quel concetto di razionalismo che permea la materia: «Il calcestruzzo a vista non è il nome di una speciale finitura della superficie, ma è una costruzione in calcestruzzo lasciata a vista [Betonkonstruktion]».27 Nel documento, i ragionamenti degli Atelier 5 sul monolitismo, sul valore della memoria delle fasi di getto e della trasformazione della superficie nel tempo, sulla natura di materiale liquido, convergono in una visione sempre ricondotta nei limiti di un principio comunque economico: «Le restrizioni derivano dall’economia: la minore quantità di materiale e casseformi le più semplici possibile».28

In concomitanza con l’uscita di The New Brutalism. Ethic or Aesthetic? viene pubblicato a Zurigo un manuale che può essere considerato l’antitesi svizzera al libro di Banham. Scritto nel 1966 dall’ingegnere Walter Häberli, Beton. Konstruktion und Form si rende interprete della visione del calcestruzzo ricondotto ai fondamenti essenziali di costruzione e forma, con le sue tecniche e componenti, derivati da una scienza ingegneristica attenta alle potenzialità espressive e alle questioni formali, per sottrarre quel materiale alle costruzioni concettuali e ideologiche che oramai lo pervadono.29 Beton. Konstruktion und Form conferma una visione culturale del calcestruzzo a vista svincolata dalle questioni legate allo stile e ancorata nelle pratiche del cantiere in nome di quel «Sichtbetonkult»30 che, sul finire degli anni Sessanta, è oramai il tratto caratteristico dell’architettura svizzera e a cui la ricerca architettonica contemporanea è profondamente debitrice.

Note

  1. Hans Hofmann, Thoughts on contemporary architecture in Switzerland, in Switzerland planning and building exhibition, Orell Füssli, Zürich 1946, pp. 19–23.
  2. Max Bill, Moderne Schweizer Architektur: 1925-1945, Verlag Karl Werner, Basel 1949.
  3. Si veda Louis Kahn, Preliminary Report on housing in Israel, 7 giugno 1949, in Roberto Gargiani, Louis I. Kahn: exposed concrete and hollow stones, 1949-1959, EPFL Press, Lausanne 2014, p. 24.
  4. George Everard Kidder Smith, Switzerland builds: its native and modern architecture, Bonnier, New York 1950.
  5. Edward Passmore, Swiss Architecture, «The Builder», 27 settembre 1946.
  6. Max Bill, Robert Maillart, Verlag für Architektur, Erlenbach-Zürich 1949. Si veda in particolare il capitolo Der künstlerische Ausdruck der Konstruktion, pp. 27-30.
  7. Robert Maillart, Aktuelle Fragen des Eisenbetonbaues. Gestaltung des Eisenbetons, «Schweizerische Bauzeitung», vol. 111, gennaio 1938, pp. 1-4.
  8. Sigfried Giedion, Architecture, you and me: the diary of a development, Harvard University Press, Cambridge (Ma) 1958, pp. 67-68.
  9. Alfred Roth, Zeitgemässe Architekturbetrachtungen: mit besonderer Berücksichtigung der schweizerischen Situation, «Das Werk: Architektur und Kunst», vol. 38, 3, marzo 1951, pp. 65-76.
  10. Mardges Bacon, Le Corbusier and postwar America: the TVA and béton brut, «Journal of the Society of Architectural Historians», vol. 74, 1, marzo 2015, pp. 13–40.
  11. [s.a.], Voyage d’etude de la S.I.A. aux Etats-Unis, du 20 août au 14 septembre 1952, «Bulletin technique de la Suisse romande», vol. 79, 3, giugno 1953, pp. 42-45.
  12. Max Frisch, Cum grano salis: eine kleine Glosse zur schweizerischen Architektur, «Das Werk: Architektur und Kunst», vol. 40, 10, ottobre 1953, pp. 325-329.
  13. Le Corbusier, Le Corbusier. Oeuvre Complète 1946-1952, vol. 5, Éditions Girsberger, Zürich 1953, p. 191.
  14. Alfred Roth, Der Wohnbau «Unité d’Habitation» in Marseille, «Das Werk: Architektur und Kunst», vol. 41, 1, gennaio 1954, pp. 20-24.
  15. Hans Girsberger, Zum Erscheinen des 7. und letzten Bandes des Gesamtwerkes von Le Corbusier, «Schweizerische Bauzeitung», vol. 84, 35, settembre 1966, pp. 625-627.
  16. [s.a.], Nef à trois proues, triomphe du verre et du béton armé, «Habitation», vol. 30, 1, gennaio 1958, pp. 22-23.
  17. Ibid.
  18. Fritz Maurer, Das Dominikanerkloster «La Tourette», «Das Werk: Architektur und Kunst», vol. 47, 6, giugno 1960 pp. 190–195.
  19. Peter F. Althaus, Erinnerungen an die Anfangszeit des Ateliers 5 und das Projekt Halen, «Werk, Bauen + Wohnen», vol. 67, 7-8, agosto 1980, pp. 16–17.
  20. Silvia Kugler, Le Corbusier, «non finito» Architekt?, «Du: kulturelle Monatsschrift», vol. 19, 4, aprile 1959, pp. 55–56.
  21. Dolf Schnebli, Chandigarh, «Bulletin du ciment», vol. 28-29, 12, dicembre 1960, pp. 1-10.
  22. George Brera, Villa à Cologny, Genève, «Das Werk: Architektur und Kunst», vol. 46, 12, dicembre 1959, pp. 429-434.
  23. [s.a.], Am Rande: 5 Fragen an Le Corbusier, «Bauen + Wohnen», vol. 17, 3, marzo 1963, pp. 95-96.
  24. Reyner Banham, Brutalismus in der Architektur, Karl Krämer Verlag, Bern-Stuttgart 1966, p. 90.
  25. Raymond Philp, Jacket for book, «The New Brutalism», lettera a Nora von Mühlendahl, 25 agosto 1966 (Archive Krämer Verlag).
  26. Rolf Hesterberg, lettera a Heinz Krehl, 18 dicembre 1964 (AKV).
  27. Atelier 5, Sichtbeton, dattiloscritto, 19.11.1968, Atelier 5 archive, Bern, p. 1.
  28. Ibid.
  29. Walter Häberli, Beton Konstruktion und Form, Verlag Stocker-Schmid, Dietikon-Zürich 1966.
  30. Friedrich Achleitner, Extreme, Moden, Tabus, in Die Architekturabteilung der Eidgenössischen Technischen Hochschule Zürich, 1957-1968, ETH, Zürich 1970, pp. 8–10.

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