Do­ve abi­ta­no gli ar­chi­tet­ti

La mostra «Dove abitano gli architetti» è andata in scena negli spazi della Fiera di Rho-Pero al Salone del Mobile.

Data di pubblicazione
20-06-2014
Revision
08-10-2015
Gabriele Neri
Dott. arch. storico dell'architettura, redattore Archi | Responsabile della rubrica 'Paralleli' per Archi

Accade sempre così. All’inizio di aprile a Milano approda il Salone del Mobile, con il suo più o meno ricco corredo di eventi, mostre, installazioni, feste, banchetti e trovate promozionali. Cose buone e cattive, utili e meno utili, belle e brutte, ma quasi tutte con un comune denominatore: una vita che si compie nell’arco di pochi giorni. Abituati alla velocità dell’informazione mediatica, pare un tempo sufficiente. Tuttavia, per riconoscere le iniziative più interessanti è forse necessario far decantare le informazioni ricevute e vedere quali lasciano qualcosa anche dopo la loro breve apparizione. Per tale ragione abbiamo deciso di parlare della mostra «Dove vivono gli architetti». Per approfondimenti consigliamo il catalogo, edito da Corraini. 

Come suggerisce il titolo, la mostra ha offerto un viaggio nelle dimore di otto celebri progettisti contemporanei: Shigeru Ban, Mario Bellini, David Chipperfield, Massimiliano e Doriana Fuksas, Zaha Hadid, Marcio Kogan, Daniel Libeskind e Bijoy Jain (Studio Mumbai). Francesca Molteni e Davide Pizzigoni (curatori della mostra) le hanno visitate, accolti dai loro inquilini, per confezionare un’intervista-documentario densa di parole e immagini.

I risultati sono stati proiettati in mostra all’interno di otto installazioni, elaborate dai curatori, che hanno voluto reinterpretare quanto visto in giro per il mondo. Il tema è dunque quello della «casa d’artista», intesa come luogo dell’autorappresentazione e dell’autobiografia; trattandosi però di architetti la conformazione di questi spazi acquista una valenza ancora più specifica, intrecciando la dimensione professionale con quella privata. Classificabili in maniera variabile, queste case appaiono però interessanti non solo per la curiosità di sapere quale trattamento si riservino nel privato gli archistar. Piuttosto, il valore è dato dal loro insieme, che permette di confrontare modi di abitare e organizzare lo spazio differenti per cultura, tradizione, biografia e geografia.

Emergono allora numerosi sotto-temi: il ruolo della domesticità e della privacy, il rapporto tra contenuto e contenitore, il grado di personalizzazione, il dialogo con la città circostante, la tendenza all’accumulo e l’ossessione per il minimalismo, il ruolo spaziale e affettivo degli oggetti ecc.

Quando non è su un aereo, Shigeru Ban vive in un’abitazione collocata in un’area verde di Tokyo, tra pareti bianche e grandi finestre circondate da alberi. Gli oggetti contenuti sono pochissimi: qualche prototipo dei suoi arredi, che Ban preferisce sperimentare in prima persona, e una delle celebri sedie in tubolare metallico disegnate da Giuseppe Terragni. 

Ancora più nuda e radicale è la casa di David Chipperfield a Berlino: intervistato da Fulvio Irace (co-curatore del catalogo), l’architetto spiega come qui, nella zona di Mitte, abbia installato prima il suo studio e poi, a poco a poco, spazi comuni per i suoi dipendenti. Infine la sua casa, «una bolla di cemento» con grandi rettangoli vetrati dove – data la vicinanza con l’ufficio – non c’è molta privacy «ma rimane la dimensione del rifugio, dell’oasi». Il risultato è un piccolo campus frequentato anche dagli abitanti della zona; in altre parole un common ground, come recitava il titolo della Biennale da lui curata nel 2012. 

Delude forse un po’ la casa di Zaha Hadid a Londra. Tanto bianco e le immancabili forme fluide, che compaiono sotto forma di arredo, di scultura e di dipinto; ma non è una casa-manifesto come ci si potrebbe aspettare. Per quella c’è tempo: «Penso che per un architetto i momenti per progettare la propria casa siano l’inizio della carriera o la fine, quando ci si ritira. Io non sono ancora pronta!»

La casa di Mario Bellini si trova a Milano in un edificio di Piero Portaluppi e ruota tutta attorno a una grande libreria alta 9 metri. Grazie a una stretta ma articolata scala metallica essa non è solo un’attrezzatura ma spazio percorribile, in orizzontale e verticale, dall’architetto-scalatore che passando da un livello all’altro si può imbattere in un violino prezioso, in un libro su Mies van der Rohe o, beato lui, in uno scorcio inaspettato sugli affreschi di David Tremlett.

Un diverso tipo di intimità definisce l’atmosfera di casa Fuksas a Parigi, un ampio appartamento affacciato su Place des Vosges. La casa apparteneva all’architetto Ferdinand Pouillon, che l’aveva organizzata per riflettere «i suoi gusti, le sue passioni, le sue sensibilità e i suoi orientamenti sessuali». «Alcuni passaggi – spiega Massimiliano Fuksas – sembrano seguire un percorso erotico, con parti che si incrociano, si sovrappongono, si intersecano». Oltre a queste allusioni, mantenute seppur stemperate, la casa offre soprattutto una collezione eccezionale di oggetti: da Jean Prouvé – grande amore della coppia – a Fontana, Noguchi, Paladino ecc., fino a un piccolo esercito di guerrieri Dogon provenienti dal Mali.

Il tema del collezionismo ritorna anche a casa di Marcio Kogan a São Paolo. Infatti l’appartamento in sé non dice molto, ma l’insieme degli oggetti che contiene offre varie sorprese: «Conservo di tutto, anche le chiavi magnetiche degli alberghi in cui sono stato», confessa il brasiliano, famoso proprio per i progetti di case. In ordine sparso si possono trovare una palla da baseball autografata da Michael Jordan, una cianografia di Chandigarh firmata Le Corbusier, un disegno di Saul Steinberg, la firma di Pablo Picasso. 

Daniel Libeskind vive invece a New York, ultima tappa di una lunga peregrinazione che dalla Polonia è passata per Tel Aviv, Detroit, Milano, Berlino. La sua residenza è a TriBeCa in un vecchio edificio triangolare con vista sulla Freedom Tower. Tra i tanti oggetti si distingue un tavolo con le gambe rosso fuoco che lo segue da parecchi anni: «è il primo tavolo che ho progettato, come Robinson Crusoe, la prima cosa di cui ho sentito la necessità. Non è né postmoderno né moderno, è solo utile e alla mia famiglia piace molto».

Dulcis in fundo c’è la casa di Bijoy Jain, fondatore di Mumbai Studio. Siamo nei sobborghi della megalopoli indiana, e la casa è in realtà un insieme di vecchi edifici, con estensioni, addizioni, piccoli ritocchi. Qui il dialogo tra spazio costruito e natura non è solo imprescindibile ma spontaneo: vivono in simbiosi una piccola reading room e un grande Ficus benghalensis, le pareti di cotone e gli insetti, gli abitanti e i visitatori.

Nell’intervista, che merita di essere letta per esteso, Bijoy Jain sottolinea infatti l’importanza del carattere inclusivo della casa, «la vastità di vita che una casa può accogliere, la generosità che può dimostrare». Abitare come sinonimo di ospitare e di essere ospitati allo stesso tempo. «Questa non è la casa di Bijoy, penso che sia la casa di molte persone che vi partecipano», come chi ci lavora, chi arriva in visita. «Io sono solamente uno dei tanti coinvolti, non l’unico». 

E voi, dove vivete?

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