«I pro­get­ti pi­lo­ta da so­li non ba­sta­no»

Simone Stürwald, professoressa presso la Scuola universitaria professionale della Svizzera orientale (OST), spiega il potenziale del calcestruzzo sostenibile e perché sia sensato incrementare i costi al metro cubo del calcestruzzo.

Data di pubblicazione
17-04-2025

Christer Joho: Signora Stürwald, quando si sente la parola «calcestruzzo», spesso quello che immaginiamo sono paesaggi grigi e distese di case. Come mai ha deciso di dedicare le sue ricerche proprio a questo materiale da costruzione?

Simone Stürwald: Prima di lanciarmi nel settore dello sviluppo dei materiali, ho lavorato come progettista di strutture portanti. È stato un po’ il caso che mi ha portata ad appassionarmi a questo ambito, quando ho assunto la direzione strategica dell’organo di controllo dei materiali da costruzione presso l’OST. Da allora, faccio ricerca e mi occupo delle nuove miscele di calcestruzzo sostenibile – un materiale utilizzato nell’edilizia e nei progetti infrastrutturali, ma anche per costruire ponti e gallerie.

CJ: Che cosa significa esattamente «calcestruzzo sostenibile»?

SS: Si può considerare la sostenibilità in maniera globale oppure focalizzarsi sugli aspetti ecologici. Nella ricerca che riguarda i materiali da costruzione l’attenzione è rivolta ai fattori ecologici, come la tutela delle risorse, l’economia circolare e la riduzione di emissioni di CO2 nella produzione.

CJ: Si calcola che, nel mondo, la produzione di calcestruzzo sarebbe responsabile fino all’8 per cento delle emissioni di CO2 di origine umana. Non sarebbe più semplice ridurre la percentuale di cemento?

SS: Una riduzione è possibile soltanto fino a un certo limite, poiché il cemento ci serve come legante per garantire la necessaria integrità strutturale. All’inizio, quando si è cominciato a costruire con il calcestruzzo, la percentuale di cemento era inferiore, ciò per ragioni di costi. Poi, negli anni Settanta, i danni che si erano resi manifesti nelle costruzioni realizzate in calcestruzzo, hanno convinto a impiegare di nuovo più cemento nelle miscele.

CJ: Signora Stürwald, lei sta anche lavorando al calcestruzzo Klark. Di che cosa si tratta esattamente?

SS: Il calcestruzzo Klark compensa le emissioni di CO2 legate alla produzione grazie all’impiego di carbone vegetale, vale a dire carbonio biogenico, ed è pertanto climaticamente neutrale. Il Klark è stato sviluppato per e con la società Logbau AG, un’azienda grigionese produttrice di calcestruzzo che voleva aggiungere al materiale da costruzione il carbone vegetale prodotto in loco. Il nostro compito, come scuola universitaria professionale, è quello di condurre ricerche applicate e di contribuire a rendere questa innovazione pronta per essere lanciata sul mercato.

CJ: Il calcestruzzo Klark può essere impiegato anche nel genio civile?

SS: Nel genio civile, le esigenze che il calcestruzzo è chiamato a soddisfare sono particolarmente elevate, tenuto conto delle sue caratteristiche il Klark per il momento non è così adatto in questo ambito. Attualmente stiamo lavorando per far sì che il Klark diventi sensibilmente resistenze agli influssi ambientali, tra questi il sale antigelo. Nell’edilizia, dove è impiegato oltre il 70 per cento della quantità di calcestruzzo prodotto, il Klark può già essere utilizzato, con un significativo contributo alla riduzione delle emissioni di CO2.

CJ: L’elevato fabbisogno di calcestruzzo in Svizzera potrebbe richiedere quantità enormi di carbone vegetale, e dunque moltissimo legno. Non è che con il Klark ci troviamo di fronte a un esempio di greenwashing?

SS: Direi proprio di no. Stando alle direttive fissate nell’European Biochar Certificate (EBC), il carbone vegetale impiegato per la produzione di calcestruzzo deve provenire da scarti di legno o piante, ad esempio da residui di ceneri provenienti da centrali di cogenerazione regionali. Questi «prodotti di scarto» altrimenti finirebbero semplicemente nei rifiuti. Ad ogni modo dobbiamo avere chiarezza su una cosa: se consideriamo i materiali in assoluto più utilizzati, il primato spetta all’acqua, ma subito in seconda posizione troviamo il calcestruzzo. In Svizzera, ogni anno sono prodotti circa 15 milioni di metri cubi di calcestruzzo. Dobbiamo pertanto dosarne l’impiego. In parallelo resta valida, come soluzione transitoria, la compensazione delle emissioni di CO2.

CJ: Come valuta la carbonatazione del calcestruzzo in cui la CO2 si lega chimicamente e viene dunque immagazzinata in modo duraturo?

SS: Questo metodo è adatto per il vecchio calcestruzzo e concerne prevalentemente la superficie. Quando invece siamo messi a confronto con costruzioni in calcestruzzo armato esistenti il processo è decisamente meno auspicato, dato che con la carbonatazione diminuisce la protezione dalla corrosione e così anche la durata di vita di un dato elemento strutturale. Inoltre, per fare una miscela con granulato di calcestruzzo riciclato ci vorranno maggiori quantitativi di cemento, il che a sua volta relativizza il risparmio di CO2. La carbonatazione permette di ridurre il CO2 attraverso la carbonatazione di circa il cinque-dieci per cento per ogni metro cubo di calcestruzzo riciclato, dunque offre un potenziale limitato.

CJ: Ci sono altri promettenti approcci legati al calcestruzzo sostenibile?

SS: L’imminente venir meno della quantità minima di cemento prescritta legalmente spiana la strada alla realizzazione di ricette alternative. All’interno del quadro strettamente regolamentato che riguarda gli ingredienti del cemento ora possono essere certificati anche gli additivi disponibili a livello regionale. Ciò contribuisce a chiudere i cicli di materiali.

CJ:  Che ruolo gioca la digitalizzazione nello sviluppo di nuove miscele di calcestruzzo?

SS: In collaborazione con un fornitore di software di controllo stiamo sviluppando uno strumento chiamato OptimiX. L’apprendimento automatico aiuta i produttori di calcestruzzo a gestire meglio i diversi fattori d’influenza e a sviluppare preparazioni con meno cemento. Contiamo che, con l’impiego di questo strumento, potremmo risparmiare fino ad almeno il 20% di cemento.

CJ: Il calcestruzzo non è ormai destinato a sparire – anche in varianti sostenibili?

SS: Non dobbiamo fissarci troppo sui singoli materiali da costruzione, poiché non si tratta soltanto di quali materiali siano più o meno sostenibili. Altrettanto importante è poter contare su strutture portanti efficaci e adeguate ai materiali, con un minor impatto ambientale per ogni unità di utilizzo. Per me è stato anche questo aspetto che mi ha spinta a costituire il gruppo di lavoro SIA «Strutture portanti sostenibili». Il gruppo,  incaricato di sviluppare approcci all’insegna della sostenibilità sta stilando al riguardo delle linee guida SIA. . Non da ultimo, ci servono processi di progettazione globali in cui si tenga conto sin da subito della sostenibilità.

CJ: E sotto il profilo dei costi? Il calcestruzzo sostenibile come si colloca?

SS: Se si riduce il cemento si risparmiano anche i costi. Gli additivi chimici invece comportano spese aggiuntive, vi è un aumento dei costi anche per via della preparazione più onerosa della miscela. Inoltre, il calcestruzzo sostenibile deve restare più a lungo nella cassaforma, il che a sua volta comporta un allungamento dei tempi di costruzione. Tutto questo si traduce in prezzi più elevati, ma è anche un bene che sia così. Dobbiamo infatti smetterla di utilizzare il calcestruzzo come prodotto di massa. È meglio avere a disposizione una soluzione valida sul piano tecnico, sostenibile e che funziona. Il calcestruzzo dovremmo impiegarlo lì dove altri materiali non sono in grado di garantire una prestazione altrettanto buona. Bisognerà far fronte a un lieve aumento di prezzo dei materiali, ma una progettazione oculata potrà certamente offrire un potenziale di risparmio nella costruzione.

CJ: E ora, parlando di calcestruzzo sostenibile, quale sarà il prossimo passo sulla tabella di marcia?

SS: La ricerca è fondamentale, però non basta concentrarsi unicamente sui progetti pilota. Lavoriamo in modo da far sì che le soluzioni sostenibili possano trovare un’ampia applicazione nell’industria edilizia, poiché soltanto così possiamo ridurre in modo significativo le emissioni di CO2.

 1 La certificazione EBC (European Biochar Certification), sviluppata nel 2010 sotto la guida dell’Ithaka Institut, è stata adottata come standard industriale volontario.

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