Recensione a «Sguardi sull’architettura contemporanea»
Sguardi sull’architettura contemporanea – il recente libro di Fulvio Irace uscito per i tipi di Libri Scheiwiller – raccoglie 14 interviste a note firme del panorama architettonico internazionale, dimostrando che parlare di architettura è una faccenda (ancora) molto seria e che di architettura si può e si deve parlare, anche nei termini di un «pubblico rituale» come quello che l’intervista di per sé rappresenta.
Con un nuovo progetto editoriale, 24 Ore Cultura fa rinascere il marchio Libri Scheiwiller. Strizzando l’occhio al celebre magazine fondato da Andy Warhol nel 1969 in quella febbricitante New York che rivoluzionò l’estetica pop mondiale, la nuova serie Interviews si inaugura con due titoli eloquenti e per certi versi fuori dal coro: Sguardi sull’architettura contemporanea e Sguardi sul design contemporaneo. Fuori dal coro per la ricercata veste grafica, per la prevalenza delle parole sulle immagini – seppur i volumi si occupano di materia d’arte – e per il tentativo di trattare i «temi della contemporaneità» al di là dei comuni cliché. Questo almeno è quello che traspare dalle pagine del libro di Fulvio Irace, che conduce il lettore in un viaggio ai quattro capi del mondo, chiedendosi quanto l’esperanto progettuale a cui siamo ormai assuefatti possa modificarsi attraverso pratiche capaci di coniugare storie locali e visioni globali. E se alcuni tra gli interlocutori di Irace della globalizzazione del mestiere sono stati per certi versi fautori, altri testimoniano come la strada di un autentico spirito contemporaneo sia ancora percorribile e soprattutto quanto l’architetto oggi debba prendere posizione. Ne è un esempio la dibattuta questione dell’architettura green e della sostenibilità, rispetto a cui alcuni intervistati forniscono interpretazioni marcatamente distanti dalla vulgata corrente che vorrebbe «trasformare la città in falsa natura» (Barclay & Crousse).
Lo stesso vale per altri temi: dalla fisicità dello spazio architettonico, al tempo lento che tuttora esige la pratica dell’architettura, alla tradizione e al rapporto con i (propri) maestri, fino al sottile gioco delle relazioni con l’arte e la scienza. Ne emerge una riflessione sul progetto come mezzo di trasformazione e strumento di conoscenza del mondo contemporaneo, a partire dalla esplicita necessità di esporsi con discernimento e (in taluni casi) con audacia. Certamente alcuni intervistati più di altri accettano di mettersi a nudo, raccontando al lettore il carattere originale della propria ricerca, contribuendo alla costruzione di un modo di guardare all’architettura, non certo per mezzo di teorie, ma attraverso sguardi appunto, a delineare un mosaico articolato, profondamente calato nelle condizioni spesso difficili del mestiere. Di contro, ogni intervista dimostra come in realtà i progetti che si celano dietro alle singole narrazioni siano il prodotto di queste esperienze e come tale siano una «tesi», esprimano uno specifico modo di guardare il mondo, rappresentino cioè una «teoria», nel senso di «osservazione», secondo l’accezione antica del termine.
Se poi si passa dagli intervistati all’intervistatore questo risulta ancor più evidente. Irace dimostra quanto questo genere letterario possa essere al contempo entretien d’auteur e ricerca personale. Tra le domande e le risposte si cela infatti un ricco affresco autobiografico che coinvolge gli intervistati e l’autore stesso: è lui che sceglie le domande, indirizza le risposte, provoca i propri interlocutori o al contrario mette in atto strategie di corteggiamento, capaci di svelare al lettore – come in un vis-à-vis tra amici – le storie materiali e quelle personali, mescolandole con il quadro disciplinare generale. È l’autore a farci entrare nelle camere delle meraviglie degli intervistati, a svelarci le loro manie e affezioni, facendoli parlare non solo dei propri progetti o dei propri personali interessi, ma del mondo per come è oggi e delle possibili prospettive per continuare a viverci e a progettare.
Tutto questo con l’esperienza e l’attenzione dello storico, che conduce i suoi interlocutori attraverso un dialogo serrato, certo senza arrivare a chiedere – come il Warhol di Interview – «Cosa mangi per colazione?», ma comunque facendo dire a Shelley McNamara: «Sai, Yvonne, a volte penso che sarebbe meglio se fossimo noi a fare domande a Fulvio per sentirlo rispondere».
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