Po­st-do­me­sti­co e in-bet­ween

Verso una nuova idea di abitare

La pandemia pone una sfida: rileggere gli spazi intermedi, interstiziali, in-between. Da elementi di divisione, purificazione, distanziamento, essi possono rivelarsi i luoghi principali in cui fondare il nuovo paradigma dell’abitare post-domestico. 

Data di pubblicazione
19-08-2021

A un anno dall’inizio della pandemia Covid-19, le nostre distanze e i nostri confinamenti non sembrano così dissimili da quelli vissuti durante il primo lockdown. Lo spazio pubblico e, conseguentemente, la socialità continuano a soffrire l’assenza dei corpi, mentre la casa è rimasta il luogo per eccellenza dove gestire tutte le attività del quotidiano, dalla sfera intima e personale a quella lavorativa. La diffusione digitale forzata ha inoltre esacerbato il nostro modo di vivere, che è sempre più sottoposto a «forme di controllo prostetico e mediatico-cibernetico»,1 facendoci sperimentare una vita quasi monacale, lontana da parenti e amici, se non attraverso l’utilizzo di social e piattaforme on-line, che si sono decuplicate in pochissimo tempo.

La pandemia ha fatto riscoprire il concetto di prossimità, disciplina semiologica i cui legami con l’architettura appaiono evidenti da vari punti di vista. Coniata dall’antropologo americano Edward T. Hall nel 1963, la prossemica studia lo spazio e le distanze che si stabiliscono in ogni forma di comunicazione. Hall definisce in particolare quattro zone o soglie caratterizzate da distanze diverse: intima (0-45 cm), personale (45-120 cm), sociale (120-300 cm) e pubblica (oltre 3 m). Proprio nel passaggio tra queste zone si generano degli spazi intermedi, degli intervalli. Nella lingua inglese, il trovarsi «tra» due entità viene definito con il termine in-between.

Lo spazio intermedio in architettura è raffigurato, in primo luogo, dalla soglia, quell’elemento nato per collegare due spazi; è un limite che divide e separa, ma unisce.2 La soglia non è rappresentata esclusivamente dal piano di calpestio orizzontale, marcato spesso dall’uso di un diverso materiale che contraddistingue l’accesso in un nuovo ambiente, ma assume una spazialità intrinseca propria, tale da diventare una zona: non solo luogo di passaggio, ma di scambio e relazione tra internità ed esternità. Il concetto di «soglia come zona» è stato ampiamente trattato dal punto di vista storiografico da Walter Benjamin nel Passagen-Werk (1982) e poi ripreso da Georges Teyssot in alcuni saggi, tra cui quello fondante Sull’intérieur e l’interiorità pubblicato su Casabella nel 2000.3

Una parte importante dell’argomento di De Certeau è sul limite, la nozione di «in mezzo» – uno «spazio fra», in tedesco Zwischenraum – che crea uno spazio intermedio. La frontiera perde il significato di puro ostacolo e diventa vuoto e interstizio, uno spazio dove le cose possono accadere, un evento, una rappresentazione, o una narrazione, per esempio – un incidente. Gli «spazi intermedi» hanno il potere di diventare simboli di scambi e incontri.4

La sfida posta dalla pandemia risiede nella rilettura degli spazi intermedi, interstiziali, in-between che, da elementi di divisione, purificazione, distanziamento, possono rivelarsi i luoghi principali in cui fondare il nuovo paradigma dell’abitare post-domestico. Pratiche di riappropriazione e di addomesticamento di alcuni spazi hanno mostrato, durante il primo periodo di confinamento, un diverso valore dei luoghi interstiziali come cortili, scale, pianerottoli e terrazze comuni, fino ai più privati balconi. Nuovi e diversi riti sociali hanno trovato casa proprio in quegli spazi che da sempre rappresentano un filtro, con diversi gradi di permeabilità tra il mondo della città e l’interno. È proprio in questi luoghi intermedi, tra privato e pubblico, che si colloca la sfida dell’abitare post-pandemico.

La città, già da alcuni anni, sta sperimentando pratiche di urbanistica tattica, forme di intervento che riguardano un significativo cambiamento di scala, da macro a micro, e che sembrano muoversi in questa direzione. Gli interventi interessano in particolare gli interstizi urbani,5 spazi di fragilità sociale e territoriale che reclamano un riscatto dalla marginalità. Sono spazi che per la loro conformazione e natura potrebbero essere in grado di dare una risposta inclusiva, corale, dialogante con la città e aperta ai suoi abitanti garantendo nuove forme di socialità, non vincolata dalle regole degli spazi pubblici tradizionalmente riconosciuti.6 Il confinamento è stato un’occasione per scoprire gli interstizi urbani:7 le persone si sono, infatti, adattate a nuovi modi di interazione, dimostrando l’importanza e l’effetto positivo che la socialità ha sulla vita. Il collettivo di architettura Orizzontale sta portando avanti da molti anni un’idea di spazio pubblico poroso, in grado di generare sistemi collaborativi e sinergici, uno spazio dove poter colmare il divario delle disuguaglianze sociali, «dove si svolge quotidianamente un esercizio pratico di democrazia».8 Insieme a La Rivoluzione delle Seppie9 stanno curando il progetto di Casa Belmondo all’interno del borgo di Belmonte Calabro (Cosenza) dove, dal 2016, hanno prodotto una serie di workshops dal titolo Crossing Belmonte, con l’obiettivo di comprendere e offrire nuove strategie per contrastare lo spopolamento del paese.

Nel borgo si sta svolgendo un’esperienza di south learning, dove alcuni studenti della London Metropolitan University si sono trasferiti per svolgere la loro attività di didattica a distanza e contribuire alla vita del paese. Nella cittadina siciliana di Riesi, ad agosto dello scorso anno, si è svolto LURT (Laboratorio Umano di Rigenerazione Territoriale), che ha visto la partecipazione di ventuno studenti sotto la guida del collettivo Orizzontale e Flora La Sita, che hanno trasformato un immobile confiscato alla mafia e una parte della via del paese in un laboratorio e uno spazio di gioco per i giovani. Un segno blu che invade la strada e la facciata della casa per segnare una diversa riappropriazione degli spazi di prossimità. Attraverso una modalità temporanea il festival Viva! di musica elettronica si è impossessato dei tetti di Locorotondo (Bari), occupando proprio quegli spazi spesso inanimati delle nostre città.10 La strategia riprende la performance Suonare la città di Giuseppe Chiari (1969), dove l’artista, per una notte, aveva riattivato le torri di San Gimignano installando lunghe corde sulla loro sommità, facendole risuonare.

Il processo di riappropriazione dei luoghi intermedi ha toccato anche le parti comuni degli edifici residenziali e, non da ultimo, una riflessione sulla conformazione degli spazi interni della casa. L’assenza di «interstizi» per lo svolgimento di attività ibride (decantazione, decontaminazione ecc.) o di angoli per l’isolamento dei parenti affetti da infezioni contagiose e di sistemi di protezione del nucleo familiare ha ingenerato forme diverse di disagio, che oggi ci spingono a ripensare anche gli spazi collettivi degli edifici residenziali: alcuni di essi potenzialmente trasformabili in semi-privati o a condivisione limitata. Alison e Peter Smithson sono tra i primi ad aver proposto una riformulazione dell’idea di abitare collettivo, tradotta in alcuni progetti, come nei Robin Hood Gardens (1969-1972), dove la realizzazione di strade sopraelevate (Street in the Air), oltre a garantire l’accesso ai vari appartamenti, trasforma gli spazi intermedi in possibili luoghi di interazione della comunità sociale. Prima ancora, Bernard Rudofsky suggerisce il concetto di un «esterno da abitare».11 L’architetto concepisce scale e rampe come elementi di una riappropriazione sociale e di costruzione degli spazi della città e della strada: «Le scale […] non servono solo a salire. Ancora oggi gli anfiteatri dell’antichità e le vaste scalinate del Vecchio Mondo sono luoghi di raduno ideali […]. Queste non sono accessorie agli edifici, ma una sorta di ingrediente germinativo, il lievito, per così dire, dell’impasto architettonico».12

Nella contemporaneità un importante contributo al tema è stato affrontato dagli architetti Anne Lacaton, Frédéric Druot e Jean-Philippe Vassal, nell’intervento di riqualificazione della Tour Bois-le-Prêtre, un edificio costruito nel 1959 nella prima cinta periferica di Parigi. Grazie all’ampliamento, ricavato collocando una nuova struttura autoportante, ogni appartamento ha ottenuto un’estensione dei suoi ambienti interni, attraverso terrazze e balconi trasformabili in logge chiuse. Questo nuovo spazio appartiene tanto all’interno quanto all’esterno della casa. Anche il piano terra è stato rivisto, collocandovi servizi comuni tra cui un asilo, aule per riunioni e corsi di lingua.

Nel corso del Novecento una lunga serie di progetti abitativi testimonia un’idea di spazio domestico «come frammento autonomo perfetto, separato dal mondo e allo stesso tempo capace di contenere tutte le funzioni essenziali per la sopravvivenza».13 Una delle più importanti fonti di ispirazione d’un siffatto interno è rappresentata dalla cella del monaco, fatta di spazi misurati dove potersi isolare, cui è annesso un piccolo luogo aperto, l’hortus conclusus. Questo sistema è alla base di un’idea dell’abitare concepita come parte di un sistema più complesso, in cui la vita comunitaria, che si svolge in spazi condivisi, si affianca all’intimità della cella. È proprio in una rinata idea di comunità, che tiene conto della diversità sociale, familiare e di genere che contraddistingue il nostro quotidiano, che si colloca il paradigma dell’abitare post-pandemico, domestico e urbano.

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Note

  1. P. B. Preciado, Le lezioni del virus, «Internazionale», 1356, 30 aprile 2020, p. 85.
  2. A. Bossi, La soglia, in L. M. Fusco, V. Saitto (a cura di), Lo spazio della soglia, Edizioni scientifiche italiane, Napoli 2016, pp. 11-19.
  3. G. Teyssot, Sull’intérieur e l’interiorità, «Casabella», 681, 2000, pp. 26-35.
  4. G. Teyssot, Le cose perturbanti e nomadiche, «Area», 79, 2005, pp. 12-13.
  5. M. Zardini, Interstizi-intervalli, in M. Zardini (a cura di), Paesaggi ibridi. Un viaggio nella città contemporanea, Skira, Milano 1996, pp. 54-62.
  6. M. Bassanelli, M. Ghibusi, J. Leveratto, Curating Urban Interstices: From Tactics to Strategies, in F. Angelucci, L. Pignatti, P. Rovigatti, M. Villani (a cura di), IFAU ’18. Territori fragili / Fragile territories, Gangemi Editore, Roma 2018, pp. 814-821.
  7. Si veda il sito italianinterstices.polimi.it che raccoglie gli esiti del progetto Interstizi e fragilità urbane (ex-Farb, DAStU, Politecnico di Milano, 2019-2020, resp. scient. prof. Immacolata C. Forino).
  8. M. Manfra, Dobbiamo fare spazio (pubblico), in «Il Giornale dell’architettura».
  9. Le Seppie sono una NPO fondata da Rita Elvira Adamo, Eleonora Ienaro, Florian Siegel e Matteo Blandford, un gruppo di ex studenti della London Metropolitan University. Attiva da tre anni sul territorio di Belmonte Calabro, promuove l’integrazione sociale e lo sviluppo del territorio.
  10. N. Bassoli, Realtà aumentata. Fisica e metafisica del distanziamento, «Domus», 1052, dicembre 2020, pp. 14-19.
  11. U. Rossi, La strada come spazio collettivo della città, «L’architettura delle città», vol. 7, 10, 2017.
  12. B. Rudofsky, Praise of Stair, «Horizon», 4, 1694, p. 79.
  13. L. Molinari, Le case che siamo, Nottetempo, Milano 2020, p. 113.   
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