Pro­get­ta­zio­ne so­ste­ni­bi­le

Intervista a Muck Petzet

Data di pubblicazione
18-04-2023

Muck Petzet, titolare dello studio Muck Petzet Architekten, München / Berlin, è da anni impegnato sul fronte della progettazione sostenibile, professore presso l’Accademia di architettura di Mendrisio, racconta il suo punto di vista sul prolungare la vita utile degli edifici, tema d’indagine di questo numero di Archi.

Stefano Zerbi: Professor Petzet, dal suo punto di vista che posto occupa, nel dibattito contemporaneo sulla sostenibilità, il prolungare la vita utile degli edifici? E, più nello specifico, nel dibattito architettonico contemporaneo nel Cantone Ticino?

Muck Petzet: L’apprezzamento e la comprensione di questo importante tema sembrano aver raggiunto un livello molto alto. Tuttavia, esiste ancora un enorme divario tra la teoria e la pratica: secondo  le analisi statistiche – come anche secondo la nostra percezione soggettiva – non c’è stato alcun cambiamento significativo nella pratica comune del rinnovamento costante – e spesso dell’inutile sostituzione – degli edifici. L’energia incorporata non è ancora presa in seria considerazione nelle valutazioni energetiche e delle emissioni. È ormai risaputo che la demolizione dovrebbe essere l’ultima risorsa e solo nei casi più rari, ma in realtà è ancora lo standard, mentre gli sforzi per estendere il ciclo di vita degli edifici rappresenta ancora un’anomalia. I committenti pubblici non fanno eccezione: basti pensare alle discussioni sulle Torri Triemli di Zurigo, che sono ancora destinate alla demolizione, nonostante una massiccia campagna che dimostra chiaramente che tutti gli argomenti sono a favore della loro conservazione. Questo esempio dimostra anche che gli sforzi per riciclare parti di edifici sono usati impropriamente per creare accettazione per le demolizioni. In questo contesto, il cosiddetto «edificio circolare» non è altro che il greenwashing di una distruzione del tutto inutile. Il Ticino non fa eccezione.

SZ: Qual è il ruolo dell’architetto nel processo di trasformazione di un luogo, edifici compresi? E quale potrebbe essere?

MP: Gli architetti, con la loro formazione generalista, sono predestinati a riconoscere le potenzialità, laddove gli altri vedono solo i problemi. Possiamo anche renderle visibili agli altri – con progetti o immagini – e quindi avviare e innescare degli sviluppi. Gli architetti possono quindi svolgere un ruolo importante anche nell’attuazione strutturale e organizzativa dei processi di trasformazione. Spesso veniamo chiamati solo per compiti di progettazione e costruzione, ma sarebbe molto meglio se potessimo condividere la responsabilità della riprogrammazione. Nel migliore dei casi, possiamo riunire in un concetto coerente il possibile utilizzo e il potenziale strutturale, tecnico e finanziario dell’edificio esistente.

SZ: Gli edifici e i luoghi esistenti sono un’opportunità per voi? Un punto di partenza per un progetto? E in che modo?

MP: Gli edifici e le situazioni esistenti – e la questione della loro programmazione e del loro ulteriore sviluppo – sono certamente tra i compiti più stimolanti dell’architettura. Ciò che spesso viene percepito come una limitazione della libertà architettonica – il «vincolo» dell’esistente – può essere utilizzato per creare qualcosa di completamente inaspettato. Spesso è il troppo piccolo, il troppo grande, l’inopportuno che può portarci a nuove combinazioni e nuove tipologie. Tuttavia, dobbiamo anche valorizzare e rispettare ciò che già esiste: è il miglior punto di partenza per qualsiasi sviluppo.

SZ: Per prolungare la vita di un edificio è talvolta necessario inventare soluzioni che non sono standard. Il programma potrebbe essere una di queste invenzioni? E quali potrebbero essere le altre?

MP: Ho già sottolineato l’importanza della programmazione come strategia di intervento. Trovare e coltivare gli usi giusti per gli edifici esistenti è una parte cruciale dell’estensione del loro ciclo di vita. Un’altra strategia importante in questo senso è il cambiamento di percezione, un modo molto potente per ottenere una rivalutazione degli edifici esistenti senza stravolgerli... ci sono esempi interessanti come le campagne di successo organizzate per apprezzare il brutalismo in Inghilterra.

Al contrario, la questione degli standard costruttivi è complessa: spesso vengono usati impropriamente per giustificare demolizioni insensate. Sarebbe innanzitutto necessario accettare gli standard e le soluzioni tecniche – così come sono – e non metterli in discussione e confrontarli con le regole e le norme reali. Ad esempio, metterei profondamente in discussione i termini della definizione di «fine vita»: se si chiede a un ingegnere se è possibile mantenere gli impianti esistenti, anche se robusti e resistenti, come i radiatori o i tubi di evacuazione, la risposta stereotipata è: «questi elementi hanno raggiunto la fine dell’utilizzabilità». Nessun ingegnere garantisce la durata degli impianti, che potrebbero benissimo durare altri 50 anni. Le sostituzioni poi spesso causano interventi massicci nella sostanza dell’edificio. Potremmo invece accettare il fatto che i cicli di vita effettivi sono molto più lunghi di quelli definiti dalle norme tecniche, e se uno dei radiatori dovesse perdere, potremmo sostituire o riparare solo ciò che è difettoso, invece di reagire in anticipo. Spesso le diverse parti dell’edificio vengono sostituite anche perché non sono certificate o facilmente calcolabili con i metodi di calcolo fisico piuttosto primitivi che utilizziamo nelle valutazioni energetiche o acustiche. Dovremmo basarci molto di più sulla realtà e sull’effettivo utilizzo dell’energia, invece di seguire ipotesi molto teoriche. Spesso ci limitiamo a misurare le qualità effettive invece di affidarci ai dati. Ad esempio, le qualità acustiche delle porte o dei pavimenti. Con queste misurazioni possiamo mettere a punto i nostri interventi al minimo.

Il riuso può essere sia il riutilizzo di un edificio sia il riutilizzo di materiali. Qual è il suo punto di vista su questi due significati dello stesso termine?

Come già accennato, il riutilizzo di parti di edifici – oggi spesso definito «edilizia circolare» – a mio avviso presenta il pericolo di una demolizione «ecologica». D’altra parte, quando vogliamo ancora costruire nuovi edifici, il riutilizzo di alcune parti sembra essere una delle possibili risposte per ridurre l’impronta di CO2. Ma non c’è niente di meglio che lasciare gli edifici intatti, rinforzarli e renderli a «prova di futuro». Riutilizzare le costruzioni in modo responsabile è uno dei pochi e chiari consigli per un’architettura sostenibile.

Il riutilizzo di parti di fabbricati dovrebbe essere etichettato per ciò che è: riciclaggio. Come sappiamo dalla gerarchia delle tre «R», Ridurre / Riutilizzare / Riciclare, il riciclaggio rappresenta il metodo meno efficiente della triade.

Muck Petzet è architetto e professore di progettazione sostenibile all’AAM – USI dal 2014. In precedenza, ha insegnato alla Hochschule Vaduz e alla TU di Monaco. Dal 1993 è titolare di uno studio a Monaco di Baviera a cui è seguita, nel 2013, l’apertura della sede di Berlino. È stato curatore del padiglione tedesco «Reduce/Reuse/Recycle» alla XIII Biennale di architettura di Venezia del 2012. La sua attenzione per i processi di trasformazione e recupero dell’esistente ha posto le basi per lo sviluppo di una «teoria dell’intervento minimo».

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